Caporetto, fine ottobre 1917.
Gli Austriaci travolgono i soldati italiani: un disastro. Tra i militari del servizio sanitario, c’è Erminio Pampuri, 20 anni, studente di Medicina a Pavia. Fin dalla chiamata alle armi, si era prodigato con dedizione tra i soldati e feriti al fronte, rischiando sovente la pelle.
Ora, durante la ritirata, compie un’azione eroica: conducendo un carro tirato da una coppia di buoi, per 24 ore sotto la pioggia battente, pone in salvo il materiale sanitario precipitosamente abbandonato. Sa che se non lo facesse, per pensare solo a se stesso, numerosi feriti non avrebbero più la possibilità di curarsi.
Appena congedato, al termine della guerra, riprende gli studi di medicina e per l’impresa compiuta, viene decorato con medaglia di bronzo.
Rotto a tutte le fatiche
Era nato, decimo di undici figli, il 2 agosto 1897, a Trivolzio (Pavia) in una famiglia che viveva davvero il Vangelo. Era cresciuto in casa degli zii materni, sentendo il benefico influsso dello zio Carlo, medico, uomo di Dio e apostolo. Aveva compiuto gli studi al Liceo Manzoni di Milano, professando la sua fede a viso aperto tra i compagni e professori. Al momento della scelta della professione, si era iscritto a Medicina, seguendo l’esempio dello zio.
All’Università di Pavia, aveva partecipato al Circolo Cattolico Severino Boezio, coinvolgendo nel suo apostolato numerosi giovani studenti. Il suo assistente ecclesiastico, Mons. Ballerini, dirà: «Al Circolo portò più soci lui con il suo esempio e la sua vita intemerata che non tutte le conferenze e i mezzi di propaganda, compreso il suo interessamento personale».
Un giorno, durante una sollevazione studentesca, erano stati uccisi due universitari. Erminio Pampuri fu il solo ad avvicinarsi ai loro cadaveri per pregare, rispettato dai tiratori, profondamente toccati dal suo coraggio e dalla sua fede.
Ora, a 24 anni, è medico e incanta chi lo avvicina per la sua purezza e la sua affabilità. È destinato alla “condotta” di Morimondo (Milano), 1800 abitanti, sparsi in cascinali di campagna, con strade malagevoli, nella pianura milanese. Si stabilisce in un umile alloggio, vicino alla chiesa parrocchiale. Ogni mattina, prestissimo, partecipa alla Messa con la Comunione e, in ogni attimo di libertà, vi cerca respiro davanti al Tabernacolo dove Gesù lo attira e gli dà forza.
Sovente è chiamato di notte presso i malati. Il “dottorino” accorre e indugia a lungo presso di loro, competentissimo, disponibile, un vero fratello. Spesso non accetta nulla come onorario, anzi, porta ancora lui i medicinali e il denaro necessario alle famiglie più povere. Al mattino, dopo la Messa, fa ambulatorio in casa, poi riprende le visite: a piedi, sul calesse, d’estate, d’inverno, sotto il sole cocente o sotto la neve. Porta con sé la corona del Rosario e prega la Madonna di sostenerlo e di illuminarlo.
Scopre che a Morimondo e dintorni, ci sono tanti giovani, spesso poco aiutati, nella loro formazione. Il medico ha pochi anni più di loro e si tiene aggiornato su tutti i problemi della vita, della società, della Chiesa. Si ferma a parlare con i giovani, li raduna attorno a sé, meglio, attorno a Gesù, nella parrocchia: con il suo ascendente, li istruisce nella fede, li guida a vivere il Vangelo, più con il suo esempio che con la parola. Quelli ne restano affascinati e alcuni, aiutati da lui, maturano la vocazione sacerdotale e religiosa: saranno presto apostoli, per aver incontrato lui.
Alcuni, tra la sua gente, gli dicono: «Dottore, quando pensa a sé?». Risponde alzando le spalle e raccomandando di chiamarlo a qualsiasi ora del giorno e della notte, perché lui è lì per servire: per i malati, gli anziani, i bambini, coloro che in qualunque modo hanno bisogno. Lo slancio per resistere all’immane fatica lo trova in Gesù Eucaristico che visita ogni sera: persino il cavallo lo sa, ormai, e quando giunge vicino alla chiesa, si ferma da solo e attende che il dottore abbia finito di pregare.
La vita a Morimondo cambia: il parroco si trova la chiesa piena di giovani alla Messa festiva e all’adorazione eucaristica, molti impegnati nell’Azione Cattolica e per le missioni. Ha fatto tutto il giovanissimo dottor Pampuri. Ma dov’è quando ci sono tutti e lui sembra assente? È a casa che studia e insieme prega, o in un angolo della chiesa, occupato in un colloquio intenso con il divino Amico, o in visita ai suoi malati a qualsiasi ora del giorno.
Alcuni colleghi medici gli consigliano di “prendersela con calma”; «tanto – gli dice qualcuno – si nasce e si muore anche senza di noi». A costoro lui risponde con uno sguardo di fuoco. Ma altri colleghi vengono per consultarlo per i casi più difficili, con una stima grandissima per lui e la sua estrema professionalità.
Il saio per completare
Nel giugno 1927, a 30 anni, il dottor Erminio Pampuri chiede di entrare a farsi religioso tra i Fatebenefratelli, l’Ordine Ospedaliero fondato da San Giovanni di Dio nel 1537 per l’assistenza agli infermi. Lascia tutto e parte, tra le lacrime dei suoi assistiti di Morimondo, per seguire Gesù. Il suo gesto suscita enorme scalpore: anche i giornali ne parlano. Il 21 ottobre 1927, riceve l’umile saio di “fratello” e comincia il noviziato: umile, semplice, sottomesso, come tutti gli altri, nella casa religiosa di Brescia. Prende il nome di fra’ Riccardo.
Medico prestigioso, accetta i servizi più umili all’ospedale dei Fatebenefratelli, ma chiamato dall’obbedienza o dalle necessità, visita i malati e li cura con la sua scienza: stupisce tutti, confratelli, malati, quelli che lo vedono e, presto scoprono la sua vera identità. A volte, sostituisce anche il primario, ma subito dopo prende la scopa in mano, come se fosse l’ultimo della casa, canticchiando sottovoce, con la gioia di appartenere a Dio solo.
Il 28 ottobre 1928, si offre a Dio mediante i santi voti di povertà, castità e obbedienza e scrive: «Voglio servirti mio Dio, per l’avvenire, con perseveranza e amore sommo: nei miei superiori, nei confratelli, nei malati tuoi prediletti; dammi grazia di servirli come servissi Te».
Gli viene affidato il laboratorio dentistico di Via Moretto, annesso all’ospedale. Fra Riccardo è un semplice religioso, ma è anche un grande medico: così, appena si sa, molti, sempre più numerosi, attirati dalla sua bontà e dalla sua scienza, vengono a cercarlo e si rivolgono a lui con una fiducia che si diffonde, in Brescia, come un contagio. Le mamme gli portano i bambini perché li curi e li benedica: risponde promettendo la sua preghiera quotidiana per loro alla Madonna.
Nella sua semplicità, si sente quasi umiliato quando diversi medici vengono ad interpellarlo, perché “il dottorino sotto il saio di religioso è un santo e può molto”. Ha poco più di 30 anni e gode fama di santità.
Ma presto diventa assai fragile di salute: ai superiori che hanno molti riguardi verso di lui, risponde: «Io sto bene». Continua il suo lavoro, fino a quando gli restano le ultime briciole di forze. Qualcuno si domanda: «Perché Fra Riccardo va all’ambulatorio con la febbre addosso?». Risponde: «È il mio posto, là c’è Dio che mi aspetta».
Lo vedono sempre correre, con il sorriso sulle labbra e cantando sottovoce inni alla Madonna, a San Giovanni di Dio e agli Angeli, con le mani sotto lo scapolare, tenendo sempre la corona fra le dita. Spiega: «Questa è la mia arma prediletta, con la corona il demonio fugge». Intanto la pleurite e la febbre lo divorano. Per sollevarlo, i superiori, oltre alle cure, lo invitano ad un viaggio fra le case di Venezia, Gorizia e Postumia. Ma più che alla sua salute, serve a far dilagare tra i confratelli, che lo conoscono per sentito dire, la sua fama di santità.
I parenti lo vogliono avere vicino. Viene assegnato alla casa di Via San Vittore a Milano. Viene la sorella Rita ad assisterlo. Con la gioia in volto, le dice: «Se il Signore mi lascia, sto qui volentieri, se mi toglie, vado volentieri da Lui». Riceve tutti i sacramenti, lucido e ardente. Va incontro a Dio il 1° maggio 1930, all’inizio del mese della Madonna alla Quale aveva affidato fin da bambino gli studi, il lavoro, la vita e la morte. Ha solo 33 anni ma è giunto assai in alto.
Come il suo illustre collega di Napoli, il medico San Giuseppe Moscati (1880-1927), Papa Giovanni Paolo II lo ha iscritto tra i Santi: chi oggi lo prega con fede, lo sente ancora vicino; ancora e più che mai medico e fratello: guarigioni e conversioni inspiegabili umanamente sperimentano coloro che si rivolgono a lui, come un continuo prodigio di carità.
Nelle diocesi di Brescia e di Pavia la sua memoria si celebra il 16 maggio. Autore: Paolo Risso
Nasce nel 1897 a Trivolzio (Pavia) dove il padre Innocenzo Pampuri e la madre Angela Campari allevano nel rispetto del Vangelo i loro figli. Erminio Filippo è il loro decimo figlio e a tre anni perde la madre. Erminio Filippo viene accolto in casa degli zii materni. Crescendo nel ricordo della madre morta per malattia e con il benefico esempio dello zio, uomo di fede cristiana e medico, capisce l’importanza della medicina nella cura verso i malati.
È studente di medicina quando nel 1917 viene arruolato nell’esercito italiano dove si prodiga verso tutti. Durante la Prima guerra mondiale, a Caporetto, mentre l’esercito batte in ritirata, mette a rischio la sua vita conducendo sotto la pioggia, per un intero giorno, un pesante carro con il materiale sanitario. Erminio Filippo pensa a quanti feriti può salvare quel carico e prosegue incurante della fatica.
Finita la guerra, a ventiquattro anni si laurea in medicina con il massimo dei voti. Esercita la professione di medico condotto di Morimondo, nel milanese: case sparse di campagna, strade e viottoli sconnessi che lui percorre anche di notte, per portare aiuto agli ammalati, ai bambini, agli anziani. Il più delle volte non prende denaro dai suoi pazienti, piuttosto porta lui cibo, coperte e medicine ai bisognosi. Altri medici gli dicono di riguardarsi pensando meno al prossimo, lui non li ascolta e continua come una missione a svolgere il suo lavoro, pregando la Madonna di sorreggerlo e recandosi ogni mattina alla Messa.
Nel 1927, sentito più forte il richiamo della fede, entra a far parte dei religiosi “Fatebenefratelli”, l’Ordine fondato da San Giovanni di Dio per assistere i malati. Assume il nome di Fra Riccardo accettando nel noviziato anche i lavori più umili, sempre con l’animo sereno rivolto a Dio. Nel frattempo continua a svolgere la sua professione di medico ed è talmente bravo che a volte prende il posto del primario. Per la sua grande bontà i pazienti lo vedono come un santo, e lui si dedica a chi sta male anche quando la sua salute diventa fragile. Ai superiori preoccupati risponde che sta bene e lavora anche con la febbre. Muore nel 1930, a Milano, di malattia. Il popolo si reca alla sua tomba per pregare con devozione. Tante sono le guarigioni e le conversioni avvenute nel suo nome. Nel 1989 San Giovanni Paolo II, papa Karol Wojtyla, lo proclama santo.
Autore: Mariella Lentini
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