L’entrata sulla scena culturale di Giovanni Duns Scoto coincide con il ventennio che separa la seconda condanna dell’aristotelismo (1277) con il primo decennio del XIV secolo, cioè con quel periodo storico in cui, all’Università di Parigi, si formano le “scuole di pensiero”: quella “domenicana”, intorno a Tommaso d’Aquino; quella “francescana”, intorno a Bonaventura da Bagnoregio; e quella “eclettica”, intorno ad Enrico di Gand e a Goffredo di Fontaines. Duns Scoto, invece di scegliere una di esse, ne fonda una propria, chiamata “scotista”, profondamente innovativa, da essere paragonata, anticipatamente, alla “rivoluzione copernicana”.
La vita
Il profilo biografico di Duns Scoto segue l’indicazione “nazionale”, incisa sul monumento sepolcrale, custodito nella navata sinistra della chiesa di San Francesco d’Assisi, in Colonia, che recita: Scotia me genuit / Anglia me suscepit / Gallia me docuit / Colonia me tenet: (la Scozia mi ha dato i natali / l’Inghilterra mi ha accolto / la Francia mi ha istruito / e Colonia mi conserva).
Le sue origini storiche sono scozzesi, onde l’appellativo di “Scoto”. Tra la fine del 1265 o l’inizio del 1266, nella famiglia di Niniano Duns nasce un bimbo, che al fonte battesimale riceve il nome di Giovanni. Della madre non si conosce né il nome né il casato. Il paese si chiama Duns: omonimia tra cognome e luogo. Il casato dei Duns apparteneva a una ricca famiglia terriera e benefattrice dei francescani, che da poco erano arrivati in quella regione. Dopo la prima educazione ricevuta in famiglia, Giovanni frequentò la scuola della vicino Haddington. A 15 anni, veste l’abito francescano. E sotto la guida spirituale di padre Elia Duns, zio paterno e Vicario Generale per la Scozia dal 1278, trascorre l’anno del Noviziato nel solitario convento di Dumfries, immerso nella variopinta bellezza alpestre e incastonato nella verdeggiante collina sovrastante. Durante la preparazione alla Professione religiosa, nel 1281, riceve la dolce apparizione del Bambino Gesù tra le braccia, come dono della sua semplicità e della sua devozione al mistero dell’Incarnazione. Il decennio 1281-1291 è il periodo della preparazione all’ordine sacerdotale, che riceve il 17 marzo 1291, nella chiesa cluniacense di Sant’Andrea di Northampton, per le mani del Vescovo di Lincoln, mons. Oliverio Sutton. Dopo il sacerdozio, viene designato per il corso di preparazione al Dottorato in teologia, all’Università di Parigi. Così dal settembre 1291 a giugno 1296, frequenta i corsi di teologia all’Università di Parigi.
Gli studi
Al termine del corso teologico, si otteneva il primo grado accademico, quello di cursor biblicus, con il quale si diventava “assistente” del proprio Magister. Il periodo tirocinante durava circa 10 anni; (ai religiosi Mendicanti veniva ridotto di qualche anno per un privilegio della Santa Sede). Normalmente le esercitazioni si tenevano presso la stessa sede universitaria; (i Mendicanti godevano di una concessione pontificia che consentiva di svolgerle in uno studium generale incorporato a una sede universitaria e sempre sotto la responsabilità del diretto Magister). Il titolo di cursor biblicus consentiva di “leggere” per 2 anni, un libro dell’AT e un libro del NT.
Dopo il biennio tirocinante e un anno di studio personale sui quattro libri delle Sentenze di Pietro Lombardo, si diventava baccelliere sententiarus, che permetteva di tenere lezioni straordinarie sullo stesso testo, per due anni, prima di ricevere il titolo di baccelliere formatus, con il quale si era dichiarato idoneo al proseguimento della carriera universitaria con la lectio continua del medesimo testo delle Sentenze, che durava 4 anni.
Non tutta l’attività accademica di Duns Scoto è stata tranquilla. Il 25 giugno 1303, infatti, a causa della crisi tra il re di Francia, Filippo IV il Bello, e il papa Bonifacio VIII, dovette prendere la via dell’esilio, per la sua fedeltà al Papa. Con la morte di Bonifacio VIII, (11 ottobre 1303), ritornò a Parigi per ricevere il titolo di Magister regens (26 marzo 1305), dando vita alla sua intensa e attività scientifica. All’inizio del 1307, bisogna segnalare la famosa “disputa” sull’Immacolata Concezione, considerata dagli studiosi il fiore all’occhiello del Maestro francescano, per la quale si meritò i titoli di Doctor Subtilis e di Doctor Marianus. E nell’estate del 1307, venne trasferito nel convento di San Francesco in Colonia, dove l’8 novembre del 1308, entrò nella pace del Signore.
Le opere
È certo che Duns Scoto, con diversa autorità accademica, cioè da baccelliere e da maestro, ha letto più volte e in diversi luoghi le Sentenze di Pietro Lombardo, e ha esercitato il tirocinio di “lettore” in filosofia ugualmente varie volte e in diversi luoghi. Per analisi critica interna, si deduce che le “opere filosofiche” sono state scritte prima dei “commenti teologici”. Le testimonianze dei vari “commenti” sono avvalorate anche dalla diversa terminologia con cui vengono tramandati: Lectura, Reportatio e Ordinatio. Il termine, Lectura, rimanda a degli schemi o appunti, da sviluppare durante l’insegnamento, e costituisce il primo commento dato alle Sentenze; la Reportatio, invece, indica uno scritto composto dai discepoli, desunto dall’insegnamento di Duns Scoto e, in linea generale, da lui approvato; l’Ordinatio, infine, contiene il testo scritto personalmente da Duns Scoto per la pubblicazione, come è documentato dall’edizione critica, che rivela la preoccupazione della stesura definitiva. Tra le opere a carattere logico si segnalano alcuni commentari su Aristotele e Porfirio; a carattere filosofico, i commentari sul De anima e sulla Metafisica di Aristotele; di vario contenuto si ricordano le Collationes, o Conferenze tenute tanto a Parigi quanto a Colonia; il Quodlibet tratta di questioni ben ordinate su temi specifici; i Theoremata espongono delicate tesi di teologia; il Tractatus de primo principio espone le prove filosofiche dell’esistenza di Dio. L’Ordinatio è il capolavoro di Duns Scoto.
Edizioni: L. Wadding, Lyon 1639, in 12 volumi; M. Vivès, Paris 1891-1894, in 26 volumi; Edizione critica, Città del Vaticano 1950ss, in 30 volumi non ancora completa; G. Lauriola, Editio Minor, Alberobello 1998-2001, AGA, in 5 volumi.
IL PENSIERO
Cristocentrismo assoluto
Data la poliedrica personalità di Duns Scoto e la vastità dei suoi scritti, non è facile esprimere in sintesi la visione del suo pensiero. Tuttavia, sembra utile segnalare che il cuore della sua impostazione dottrinale è il cristocentrismo assoluto, i cui effetti si ripercuotono non solo in campo teologico, ma anche in quello del sapere umano, tanto che la sua interpretazione viene paragonata, anticipatamente, a una “rivoluzione copernicana”. La traduzione pratica del cristocentrismo di Duns Scoto è il Primato universale di Cristo, che costituisce l’aspetto più caratteristico del suo pensiero e il contributo più efficace dato alla storia della teologia. Profondamente convinto che Dio non può essere amato adeguatamente se non da un altro Dio, Duns Scoto distingue nell’unico atto della volontà divina il seguente ordine logico: “Dio ama sé stesso. Dio ama sé stesso negli altri. Dio vuole essere amato da un altro che lo possa amare adeguatamente, e parlo di un amore a lui estrinseco. Dio previde l’unione della natura umana che deve amarlo infinitamente e per questo predestina chi lo può amare adeguatamente e infinitamente di un amore estrinseco, anche se nessuno avrebbe peccato” (Reportata Parisiensia, III, d. 7, q. 4, n. 5). E per questo, “io dico che la caduta [di Adamo] non è stata la causa necessaria della predestinazione di Cristo” (Ivi, n. 4); e “non c’è nessuna necessità che il genere umano fosse redento e che Cristo dovesse patire” (Ordinatio, III, d. 20, q. un., n. 7).
Il cuore del Cristocentrismo è la “predestinazione incondizionata” di Cristo. L’umanità assunta dal Verbo è la prima operazione ad extra di Dio, e come tale Cristo esercita la triplice causalità - efficiente, formale e finale - su tutti gli esseri. Cristo, quindi, è contemplato prima nel piano ontologico e poi nel piano storico. Nella predestinazione di Cristo gravita anche la predestinazione incondizionata di Maria, come verrà confermato prima da Pio IX nella costituzione apostolica Ineffabilis Deus, sulla definizione dogmatica dell’Immacolata Concezione, precisando che Dio “nell’unico e medesimo decreto di predestinazione” ha voluto Cristo e Maria; e poi, anche dal concilio Vaticano II: “Maria è congiunta indissolubilmente con l’opera salvifica del Figlio suo” (SC 103). Di conseguenza, per Duns Scoto, la mariologia è indissolubilmente legata e dipendente dalla cristologia.
Mariologia
Dalla sorgente del cristocentrismo assoluto scaturiscono come cascata scintillante di gioielli tutte le principali verità tanto di natura mariologica, quanto di quella ecclesiale. Tra le tesi mariane, si distinguono alcune di carattere specifiche e altre generiche. Il contributo di Duns Scoto è importante sia nelle prime che nelle seconde, proprio perché la chiave di lettura è legata a quella del Cristo. Così nel mistero dell’Incarnazione del Verbo si fondano le tre verità specifiche mariane: la Maternità divina, l’Immacolata Concezione e l’Assunzione al cielo; mentre tutte le altre espressioni di culto e di devozione non sono altro che delle conseguenze delle prime.
Nell’unico e medesimo decreto (uno eodenque decreto) di predestinazione divina, Cristo si “sceglie” la Madre e le dona la maternità, rendendola “piena di grazia”; e Maria, da parte sua, dona a Cristo la “natura umana”, che rende “visibile” l’“Invisibile”. È un gioco d’amore, in cui Cristo e Maria sono contemporaneamente attivi e passivi insieme: Cristo è attivo in quanto dona la “grazia” ed è passivo in quanto riceve l’“umanità”; Maria è ugualmente attiva in quanto dona la “natura umana” ed è passiva in quanto riceve la “grazia”. Questo scambio di vincoli costituisce il fondamento di tutti i privilegi mariani e di tutta la mariologia, secondo il principio scotista “della vicinanza a Cristo”.
Alla luce del primato di Cristo, anche lo splendore della Concezione Immacolata vive la sua giusta collocazione. Teologicamente, il dono della Maternità divina implica già quello dell’Immacolata e quello dell’Assunzione; doni che storicamente vengono scoperti nel momento in cui lo Spirito ha voluto che si manifestassero ufficialmente. Così, nella previsione della caduta originale, l’amore di Cristo prende liberamente la via della croce, con la quale ha voluto manifestare all’uomo il nuovo modo di amare, dandogli un’altra possibilità per conservare la sua fedeltà al disegno divino. Cosa che non ha fatto con gli angeli che non hanno accettato il suo mistero, condannandoli per sempre alla mancanza del suo amore. E proprio, nella prospettiva dei meriti della sua Croce, Cristo ha “preservato” sua Madre dalle conseguenze della colpa d’origine, attraverso la redenzione “intensiva o preventiva”, come la chiama Duns Scoto, il quale afferma: “Maria ha avuto bisogno del Mediatore più di tutti gli altri per non contrarre il peccato” (Ordinatio, III, d. 7, q. 4, n. ); e aggiunge: “La beata Vergine Madre di Dio non fu mai in atto nemica di Dio né in ragione del peccato attuale né in ragione del peccato originale” (Ivi).
L’Immacolata Concezione è il fondamento naturale dell’Assunzione di Maria in cielo, che completa così il treppiede mariano: Maternità, Immacolata e Assunta. In sintonia con il mistero di Cristo, Duns Scoto instaura una perfetta analogia con Maria: come Cristo è morto ed è risorto, così Maria è morta ed è stata Assunta in cielo. Nell’analisi del concetto di “morte”, il Dottor Sottile introduce la distinzione tra diritto naturale e legge morale. Per “diritto naturale”, la morte appartiene a ogni creatura e non ammette eccezioni: “sei polvere e in polvere ritornerai” (Gn 3, 19); invece, per “legge morale”, è una pena del peccato: “la morte è entrata nel mondo per il peccato” (Rm 5, 12). In quanto “creature”, sia Cristo che Maria avevano la “potenza di morire” e di fatto sono “morti”; l’uomo, invece, oltre a essere creatura soggiace anche alla pena del peccato, con tutte le conseguenze del caso. Per Maria, conclude Duns Scoto, la morte appartiene alla legge di natura e non a quella della colpa, per cui la sua morte è da considerarsi come una speciale dormitio, ossia passaggio dal dolce sonno della morte alla beata assunzione in cielo.
Ecclesiologia
Secondo Duns Scoto, la Chiesa ha ricevuto da Cristo, suo Fondatore, due specifiche finalità: “custodire fedelmente” il patrimonio rivelato della Scrittura; e “interpretarlo autorevolmente”, per presentarlo al Popolo di Dio; e di conseguenza, essa è “norma pratica e ultima di fede”. Il mistero della Chiesa è quasi sempre considerato unito al mistero dell’Eucaristia e del Sacerdozio: dove c’è Eucaristia c’è Chiesa, dove c’è Sacerdozio c’è Chiesa. Entrambi i sacramenti costituiscono il cuore e la fonte della vita sacramentale della Chiesa, perché sono la stessa persona del Cristo, mediante i quali egli si perpetua nella storia: “come l’atto più nobile nella Chiesa è assolutamente la consacrazione dell’Eucaristia, così il grado supremo e più nobile…è il sacerdozio” (Ordinatio, IV, d. 24, q. un., n. 7).
Il mistero della Chiesa deriva dal fatto che la sua realtà è tutta speciale: ha come origine Cristo, e come capo lo stesso Cristo nella persona del Papa, suo Vicario; come fine, la felicità eterna dell’uomo; come mezzi, i sacramenti, la preghiera, le opere buone; e come legge l’amore, secondo le due tavole dei Comandamenti. Queste note strutturali orientano il Maestro francescano a utilizzare anche dei titoli: Società perfetta, Popolo di Dio e Popolo di Cristo, Corpo mistico di Cristo, Sposa di Cristo, Casa di Dio. Il titolo più suffragato è quello di “società autonoma e perfetta”. Per evitare equivoci con altre società umane, spesso aggiunge degli attributi che trascendono le condizioni della contingenza e ne esprimono l’aspetto specifico, e ne demarcano anche le differenze.
Nella complessa realtà della Chiesa, in cui ognuno ha dei compiti specifici, determinati dal diverso carattere sacramentale ricevuto, la gerarchia assume un ruolo importante per la sua missione di preminenza nel guidare la Chiesa alla realizzazione della salvezza. Particolare sottolineatura riceve l’autorità del Sommo Pontefice per la Chiesa universale e quella del vescovo per le rispettive chiese particolari. Secondo Duns Scoto, il Romano Pontefice non può mai errare in materia di fede e di costumi; nel concilio ecumenico è la Chiesa che interviene, determina, dichiara e precisa attraverso il Papa e i Vescovi. A proposito del Vescovo, Duns Scoto è l’unico teologo del suo tempo ad affermare che “la preminenza della dignità episcopale è una preminenza di Ordine… [ossia che] l’Episcopato è un vero e proprio Ordine, distinto da quello del sacerdozio” (Ordinatio, IV, d. 24, q. un., nn. 5-6).
Spiritualità
Duns Scoto è non soltanto un pensatore speculativo, ma è anche un maestro di spirito. La sua spiritualità può essere racchiusa in due principi generali: quello biblico di Dio, e quello epistemologico del termine greco episteme; l’uno, è per sé Essere e Azione insieme; e l’altro, contempera nel suo etimo anche il significato di “agire”. Il primo viene interpretato cristocentricamente: “tutto ciò che esiste viene da Cristo e a Cristo deve ritornare”; il secondo, in chiave economico-speculativo: “non bisogna moltiplicare le cose senza necessità” (In Metaphysicam, VII, q. 12, n. 7: “pluralitas non est ponenda sine necessitate”). Principi traducibili nel concetto di praxis, ossia nell’atto della volontà illuminato dalla retta ragione; e, di conseguenza, la conoscenza di una verità teologica se non produce frutti di vita pratica “ad luxuriam reducitur” (Ordinatio, II, d. 6, q. 2, n. 14). Come a dire: una volontà che volesse compiacersi della semplice speculazione della verità, correrebbe il rischio di cadere nella tentazione della lussuria, cioè di crogiolarsi in sé stesso e di sprofondare nelle sabbie mobili; la praxis, invece, ha la potenza dell’amore che trasforma l’amante in amato e l’amato in amante.
Applicando questi principi generali alla vita spirituale, Duns Scoto costruisce il suo itinerario di perfezione interiore, strutturato sul “settenario delle virtù”, che semplifica al massimo il patrimonio dei mezzi di perfezione. Il “settenario delle virtù” è composto da sette virtù: tre teologali - fede, speranza e carità -; e quattro cardinali - prudenza, temperanza, fortezza e giustizia -; e viene infuso con il sacramento del Battesimo, così da assicurare a tutti i battezzati i mezzi necessari per vivere la propria fede nel mondo per non essere del mondo, e partecipare alla vita eterna. Lo spirito che lo alimenta è lo stesso Cristo, cioè “Colui per il quale tutto è stato fatto e senza di lui niente è stato fatto di ciò che esiste” (Gv 1, 3).
In questo modo, Duns Scoto identifica l’origine delle virtù direttamente con lo stesso Cristo. Scrive: “come Cristo sana perfettamente il corpo (Mt 9, 1-6), così sana perfettamente l’anima nelle sue facoltà specifiche: l’intelletto mediante la fede, e la volontà mediante la carità e la speranza” (Ordinatio, III, d. 23, q. un., n. 14). La presenza per infusione delle tre virtù teologiche è garanzia dello stato di perfezione oggettivo dell’uomo, che così viene “restaurato” spiritualmente nella sua immagine di Cristo. A differenza di altri teologi, Duns Scoto afferma: solo “le virtù teologiche e le virtù cardinali hanno origine per infusione, mentre le virtù morali si acquisiscono mediante la ripetizione degli atti” (Ordinatio, III, d. 36, q. un., n. 28). Le virtù morali, benché perfette in sé stesse, sono inabili a condurre l’uomo fino al suo fine ultimo, cioè in ordine al soprannaturale; per agire in ordine al soprannaturale devono essere “informate dalla carità”, a cui servono come disposizione ad agire verso la perfezione. Senza carità, infatti, le virtù morali sono “informe”, mentre sono “formate per e con la carità”.
Benché l’esercizio di ogni singola virtù morale perfezioni l’uomo intorno al fine specifico della singola virtù, tuttavia per raggiungere perfettamente il fine dell’esistenza è necessario la “solidarietà” tra le virtù, ossia la presenza di tutte le altre virtù, che “come sorelle collaborino al raggiungimento della perfezione” (Ibidem, n. 9). Mentre tra le virtù morali può sussistere questa solidarietà, essa può non sussistere nelle virtù teologali. Difatti, Duns Scoto ricorda tre specifiche situazioni: in cielo si avrà la carità senza fede e senza speranza; durante la vita si possono avere fede e speranza senza carità; nell’origine invece vengono infuse tutte e tre insieme per liberalità di Dio, in Cristo (Ibidem, n. 30).
E poiché le virtù tendono al perfezionamento dell’uomo, sia nei riguardi di Dio che nei riguardi degli uomini e delle cose, esse hanno come unico modello Cristo, di cui l’uomo ne è l’immagine. E così, al centro dell’intero “settenario” delle virtù che “semplicemente perfeziona l’uomo”, Duns Scoto pone il Cristo: in quanto Dio, è unica fonte della grazia, che si trasmette con le virtù teologali; in quanto Uomo, è l’unica misura della moralità dell’uomo, mediante le virtù cardinali. Come a dire: l’immagine imperfetta dell’uomo tende verso l’immagine perfetta del Cristo; l’“immagine tende all’imitazione di ciò di cui è immagine, e di esprimerlo” (Ordinatio, I, d. 3, pars 3, q. 4, n. 2: “imago nata est imitari ipsum cuius est imago, et exprimere illud”). In questo modo, Duns Scoto mette in luce l’origine ontologica della sequela di Cristo, e, seguendo l’insegnamento di Paolo e di Agostino, afferma: “la carità è il dono più eccelso fatto da Dio” e “solo l’atto di carità verso Dio è buono per sé”; e conclude: Dio è da amarsi per sé stesso, perché è Amore infinito: la “carità rende caro Dio all’uomo e l’uomo a Dio”.
Testimonianze recenti dei Papi
Nell’arco di tempo dei due centenari di Giovanni Duns Scoto, il VII della nascita (1266-1966) e della morte (1308-2008), i Papi hanno sentito il bisogno di esprimere il dovuto riconoscimento dottrinale e di santità al “rappresentante più qualificato della scuola francescana”. Paolo VI ha scritto la preziosa Lettera Apostolica Alma parens (14 luglio 1966), che costituisce la charta magna del pensiero di Duns Scoto; Giovanni Paolo II, oltre a tante testimonianze lasciate lungo il suo pontificato, ne ha confermato il Culto (20 marzo 1993); e Benedetto XVI ha completato la visione scotista con la puntuale Lettera apostolica Laetare, Colonia urbs (28 ottobre 2008).
Il culto
L’origine del culto in onore di Giovanni Duns Scoto è legato sia alla santità della sua vita che alla bontà della sua dottrina: santità e dottrina in lui convolano a perfetta unità e identità, come documenta il lungo e tormentato processo di beatificazione, durato III secoli! La sua venerazione, spesso, è stata abbinata al culto dell’Immacolata, da lui difesa nel 1307 alla Sorbona di Parigi, come appare anche nell’Ufficio dell’Immacolata Concezione, approvato da Sisto IV, il 4 ottobre 1470. La stessa iconografia dell’Immacolata Concezione rappresenta Duns Scoto sempre con l’aureola, insieme ad altri Santi, come è documentato dai due processi di canonizzazione, celebrati a Nola (NA), che, alla fine, hanno portato alla conferma del suo culto. Nell’arco di circa VII secoli, dal 1380 al 1956, le sue spoglie hanno avuto ben 8 ricognizioni e 5 traslazioni.
Il processo per la conferma del culto a Giovanni Duns Scoto ha avuto inizio il 1706 e terminato nel 1993, quando Giovanni Paolo II, il 20 marzo 1993, gli Conferma il Culto, durante i primi Vespri della IV domenica di quaresima, nella basilica di San Pietro, definendolo “Cantore dell’Incarnazione e Difensore dell’Immacolata”.
La memoria liturgica ricorre l’8 novembre.
Autore: P. Giovanni Lauriola ofm
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