Ha sempre avuto dei conti in sospeso con l’aritmetica e l’ortografia, per non parlare poi della sua quasi assoluta incompatibilità con la metafisica, per cui il suo curriculum scolastico diventa una vera e propria corsa ad ostacoli. E questo spiega, almeno in parte, perché arrivi all’ordinazione sacerdotale soltanto a 37 anni.
È nato in un trullo di Locorotondo il 29 agosto 1898 e viene allevato a pane e olive; a 3 anni perde il padre e a 11 la madre, ma sbaglia chi da ciò deducesse che Francesco Convertini non è nato sotto una buona stella. Prima di tutto perché mamma fa in tempo ad insegnargli a recitare il rosario e a sussurrargli “Metti amore, metti amore” ad ogni cosa che fa; poi perché, quando è orfano di entrambi i genitori, viene “affittato” (come si usava allora) da una giovane coppia ancora senza figli da cui riceve tanto amore e che lui si abitua a chiamare “mamma” e “papà”. La prima guerra mondiale lo manda al fronte senza spiegargli bene il perché e finisce in un campo di prigionia polacco a patire la fame. Liberato alla fine della guerra, si becca la meningite e viene in isolamento a Cuneo, dove rischia seriamente di morire.
A pericolo scampato si innamora di una brava ragazza del paese e con lei fa progetti di matrimonio, in vista del quale mette la firma nella Guardia di Finanza per un triennio, andando a Trieste, Pola e infine a Torino, senza sapere che proprio qui lo aspetta don Bosco. Gli si avvicina per caso, andando a confessarsi nella chiesa di Maria Ausiliatrice, dove trova don Amadei, che lo fa innamorare di don Bosco, ma che è conquistato da questo ragazzo tutto d’un pezzo, devoto ed onesto, al quale un bel giorno propone di essere missionario salesiano. Francesco va in crisi, anche per via della morosa, dalla quale si sente profondamente attratto; quando però si accorge che è quanto il Signore vuole da lui, non esita a fare il salto. A fine 1923 va a studiare ad Ivrea, dove i professori, pur abituati a vocazioni adulte e culturalmente zoppicanti, con lui devono chiudere più di un occhio per farlo andare avanti. Nel 1927 è destinato all’India, cui dedicherà tutta la sua vita, restandovi per quasi 50 anni. Ancora deve sudare sui libri, fare il noviziato, misurarsi con la teologia, ma la sua scuola migliore è vivere a contatto con il salesiano don Vendrame (di cui pure è iniziato il processo di beatificazione), che gli insegna a fare il missionario, ma soprattutto a farsi santo.
Dopo l’ordinazione è trasferito nella diocesi di Krishnagar, di cui è vescovo il salesiano monsignor Ferrando, che un giorno sicuramente troveremo sugli altari. Si tratta di una diocesi poverissima, con sei milioni di abitanti, metà musulmani e metà indù, sparsi in 12.500 villaggi e dove i cattolici rappresentano l'uno per mille della popolazione. Don Francesco riesce subito a farsi amare, perché l’infallibile fiuto della gente scopre subito in lui l’uomo di Dio: dopo aver faticato tantissimo sui libri di scuola, riesce subito a trovare la chiave dei cuori perché ha imparato perfettamente il linguaggio della tenerezza e lo stile della misericordia. Diventa così uno dei pochissimi missionari che possono entrare in una casa indù e spingersi oltre la prima camera d'ingresso, quasi fosse uno dei loro, perché tutti sono onorati di averlo come amico e la sua benedizione, anche per i non cattolici, è garanzia per tutti della benevolenza divina. Lo stesso buon Dio sembra preoccupato di confermare con piccoli e grandi segni la santità di quel suo umile operaio e così il pellegrinaggio di don Francesco da un villaggio all’altro, sempre rigorosamente a piedi, è disseminato di malati guariti e addirittura di un morto risuscitato, oltre che di tigri fameliche che si scansano per lasciarlo passare.
Torna in Italia due volte, restando profondamente scandalizzato del pane che finisce tra i rifiuti, mentre in India i suoi bambini muoiono di fame. L’ultima volta in ospedale gli dicono che ogni giorno è regalato, tanto il suo cuore è stanco e malandato, e lo avvertono pure che il clima caldo e umido dell’India non è per niente adatto alla sua salute. Non si sa come, riesce a convincere i superiori a lasciarlo ripartire, perché vuole donarsi all’India fino alla fine e diventare poi “terra indiana”. Muore infatti pochi mesi dopo, l’11 febbraio 1976 e al suo funerale partecipano anche indù e musulmani. Tali sono anche stati molti dei testimoni al suo processo di beatificazione, perché tutti sono convinti che don Francesco è stato un grande sadhu, un monaco che ha portato nella loro terra la pace di Dio.
Autore: Gianpiero Pettiti
Nella contrada di Papariello, nella Murgia dei trulli e delle querce, Francesco perse suo papà Sante quando aveva solo tre mesi di vita, e vide morire sua mamma Caterina quando aveva undici anni. Era il 1909. Francesco era nato in uno dei bianchi trulli di pietra dalla cupola grigia, che popolavano la campagna attorno alla sua parrocchia di Locorotondo (Bari). Sua madre, in quella campagna riarsa dala siccità e spopolata dalla miseria, lo copriva col suo delicato amore e lo chiamava Cicilluzzo. Fece in tempo a insegnargli i misteri del rosario (che rimarranno per sempre il suo catechismo) e a dirgli tante volte (mentre gli dava da compiere i primi lavoretti): «Metti amore! Metti amore!». Se ne andò con Dio mentre cercava di dare alla luce il terzo figlio.
Cicilluzzo e suo fratello Samuele (13 anni) furono portati alla fiera dove si affittavano i ragazzi- pastore. Ebbero la fortuna di essere presi da Vito e Anna Petruzzi di Fasano (Brindisi), il paese della loro mamma. Furono tenuti come figli, ed essi li chiamarono "papà" e "mamma" e tutte 1e sere recitavano il rosario con loro.
Ma in quella terra di povera gente, Francesco vide che per sfruttare i più poveri veniva usato anche il rosario. Quando quindicenne, cominciò a fare il mietitore pagato a giornata, sapeva che il tramonto del sole segnava la fine del lavoro. Ma il padrone proprio in quel momento faceva cominciare il rosario, e lo tirava a lungo fino a buio, quando i mietitori dovevano reagire con rabbia: «Basta falce, e basta rosario!».
Aveva un grande desiderio: imparare. Nelle serate invernali andava da nonno Erasmo, muratore, che per mezza lira 1a settimana insegnava a leggere, a scrivere e a far di conto tracciando le cifre sui muri, perché 1a lavagna non c'era.
Nel maggio del 1915 l'Italia entrò nella prima guerra mondiale. Francesco fu chiamato alla visita di leva nel gennaio 1917, e nel maggio entrò in linea sul fronte del Trentino, con il 124° reggimento "Chieti". Aveva 18 anni e mezzo, ed era altro 1.56, due centimetri in più del minimo richiesto. Sembravano bambini mandati al macello, con quelle mantelline più lunghe di loro. Le mitragliatrici austriache, quando i fantaccini italiani uscivano dalle trincee per l'attacco, facevano stragi enormi. I vuoti venivano cinicamente colmati gettando al fuoco quei giovanottini che mai avevano saputo cosa fosse l'Austria, e per cui nessuna scuola si era aperta per insegnare cos'era la patria. Il 24 ottobre 1917 gli austriaci sferrarono una violenta offensiva. Sfondate le linee italiane a Caporetto, avanzarono in quindici giorni fino al Piave, catturando 300 mila prigionieri. Accanto alla marea dei soldati in rotta, camminava la folla dei profughi: vecchi, donne, bambini. Trascinavano la loro povera roba su carrette o in spalla. Il fante Francesco Convertini partecipò alla battaglia del Piave che in novembre arrestò l'avanzata austriaca. Il 23 dicembre era in linea con il suo reggimento. In un inferno di fuoco e di gas fu peso prigioniero con il suo reparto. Dopo un interminabile e disastroso viaggio a piedi, fu internato in un campo di concentramento presso i laghi Masuri, in Polonia. Vi rimase undici mesi, e là patì la fame vera, quella che uccide. Ne vide morire tanti, dei suoi compagni. La guerra finì il 4 novembre 1918. Francesco, letteralmente scheletrito, fu restituito all'Italia il 15 novembre, e subito fu aggredito dalla meningite, la malattia (a quei tempi) dei bambini e dei soldati. Fu mandato in isolamento all'ospedale di Cuneo e fu a un passo dalla morte. Ma se la cavò. Appena tornato alla sua terra, andò a piedi al santuario di Alberobello. In quel 1918 aveva vent'anni, e ormai sapeva che il mondo non finiva con i trulli. Che fare della vita? Il fratello Samuele, che aveva fatto la guerra pure lui, decise di emigrare in America. Francesco, dopo essersi inginocchiato alla tomba di suo padre e di sua madre, mise la firma nella Guardia di Finanza per tre anni. Fu a Trieste, a Pola, poi a Torino come "attendente" di un capitano. E a Torino lo aspettava Don Bosco.
Devotissimo della Madonna, appena giunto a Torino si recò al santuario di Maria Ausiliatrice, e si accostò al primo confessore per chiedere il perdono di Dio. Chi lo confessò era don Angelo Amadei, uno dei grandi biografi di Don Bosco. Fu impressionato dall'onestà e dalla fede di quel giovane in divisa militare. E Francesco tornò a confessarsi da lui, a parlargli, a sentire da lui, nel cortile dell'Oratorio, la storia di Don Bosco e delle sue opere che ormai coprivano il mondo. Il 23 ottobre 1923, nel santuario di Maria Ausiliatrice gremito di gente, Francesco vide il commovente addio a undici missionari salesiani partenti per l'India. Don Angelo Amadei, vedendolo molto colpito, buttò là: «Perché non diventi missionario anche tu?».
Francesco ci pensò. Sarebbe stata una maniera bellissima di spendere la vita. C'era un istituto salesiano che preparava alle missioni giovanottoni come lui, poveri di studio e ricchi di buona volontà: il "Cardinal Cagliero" dl Ivrea. Francesco vi entrò il 6 dicembre 1923. Affrontò lo studio con la stessa volontà feroce con cui aveva zappato, falciato, era andato all'assalto con la baionetta. E ci riuscì. A stento, ma ci riuscì. La pagella impietosa dell'ultimo anno scolastico (1926-27), nella casella "matematica" registra uno zero in febbraio, un sei all'esame finale. L'anno terminò con la "festa delle destinazioni". Nell'ampia sala di studio affollata dai compagni, presente don Filippo Rinaldi, successore di Don Bosco (e oggi "beato"), «ci distribuirono quei foglietti con cui ci dividevamo il mondo -ricorda Cesare del Grosso suo compagno -: tu in India, tu in Venezuela, tu in Patagonia, tu in Cina. Eravamo quaranta giovanotti appena rivestiti della tonaca nera e pronti ad andare in capo al mondo».
Francesco ebbe appena il tempo di andare a salutare amici e parenti di Papariello e Locorotondo. Il 7 dicembre 1927 s'imbarcò con i compagni di missione sulla motonave Genova. Il 26 approdarono a Bombay. Proseguirono in treno per Calcutta. Venne a raggiungerli monsignor Mathias, vescovo della missione salesiana. In treno costeggiarono la vastissima pianura formata dai delta congiunti del Gange e del Brahamaputra, fertilissima ma devastata dagli uragani, oppressa da un clima umido insopportabile per gli europei. Al confine della pianura, una corriera dalle panche di legno li portò ai 1640 metri di Shillong, la capitale dello stato indiano dell'Assam, centro di quella missione salesiana.
Durante il noviziato (1928) e gli studi di filosofia ( 1929-30) Francesco imparò a fare il missionario guardando e accompagnando don Costantino Vendrame, , come lo chiamava la gente. Era un grande camminatore. Al mattino, caffè e fetta di pane, zaino in spalla e avanti con passo sostenuto di villaggio in villaggio. Entrava nelle capanne, sedeva al fumoso focolare, giocherellava con i bambini, viveva la vita della gente. Don Vendrame fu il libro migliore che Francesco Convertini studiò, imparò e imitò in tutta la sua vita di missionario.
1935. Francesco viene ordinato sacerdote il 29 giugno, all'età di 37 anni. L'obbedienza gli chiede subito di abbandonare l'Assam e di raggiungere la missione salesiana di Krishnagar.
Monsignor Ferrando, vescovo di quella missione, lo affidò al parroco di Bhoborpara, uno dei villaggi ora nel Bangladesh. E lì cominciò la sua missione. Krishnagar era una diocesi molto povera, con sei milioni di abitanti, metà musulmani e metà indù, sparsi in 12.500 villaggi. I cattolici erano l'uno per mille: una microscopica zolla nell'immensa pianura. Fin dai primi giorni fu circondato da uno stuolo di ragazzi, che divennero i suoi maestri, ben felici di insegnargli la lingua bengalese. Nelle prediche, don Francesco diceva poche parole, ripeteva le grandi verità del Vangelo che non hanno bisogno di tante parole. Andava per i villaggi numerosissimi attorno a Bhoborpara. Camminava a piedi nudi, così risparmiava le scarpe e con quei soldi poteva comprare qualcosa da mangiare per la gente.
Don Francesco è buono, per questo tutti lo vogliono per amico. Le case degli indù sono severamente chiuse agli estranei. Ma i bambini lo afferrano per la veste e lo tirano dentro le loro case. E lui parla a tutti, indù e musulmani, di Gesù, del suo amore per tutti. E' venerato da tutti come un grande sadhu, monaco che porta 1a pace di Dio. Digiuna giorni e giorni mentre cammina, perché quella gente ha tanto poco da sfamarsi. Da quando sanno che ha "l'acqua di Gesù che salva", molti vecchietti che aspettano la morte in silenzio, gliela chiedono con mille sotterfugi, per non offendere la religione ufficiale della loro famiglia. E don Francesco finisce per battezzare migliaia di persone, dopo aver loro parlato di Gesù. La vita di tutti questi suoi anni di missione non ha nulla di clamoroso. E' fatta di diecimila gesti di bontà che non offrirebbero a un giornalista in cerca di sensazionale nemmeno il necessario per un articolino di cronaca. Famiglie cattoliche hanno accettato il protestantesimo per avere degli aiuti materiali. Don Francesco non sgrida nessuno, le invita a continuare a pregare, a rimanere amici. Dorme in qualunque capanna, tra topi, serpi e scorpioni. E anche quelli lo rispettano. Raccontano che nelle paludi, mentre portava il viatico a un moribondo, ha incontrato la tigre. E ha pregato anche lei di lasciarlo passare, perché quell'uomo stava morendo. E la belva l'ha lasciato passare. Quando il monsone cattivo ha distrutto ponti, capanne, strade, è andato a raccogliere la gente con la zattera, e l'ha portata sul tetto della chiesa, che è come un'isola su un lago grande. Quando la stagione è bella e la campagna fiorente, don Francesco fa la processione della Madonna tra i villaggi: una processione di dieci chilometri, con un fiume di gente, cristiani, musulmani, indù. Gridano e cantano alla Signora bella, mamma di Gesù.
Poiché il cuore cominciava a zoppicare per il grande caldo e il grande camminare, i superiori lo mandarono in Italia due volte, nel 1952 e nel 1974. Poté riabbracciare suo fratello Samuele, rientrato dall'America, e dare la prima comunione alla nipotina Cristangela. Ma rimase spaventato al vedere che il rosario non si diceva più nelle famiglie, e che si gettava via tanto pane, mentre i suoi bambini bengalesi morivano di fame. Ritornò alla sua Krishnagar con il cuore sempre più stanco. Una specialista in cardiologia, visitandolo ln Puglia, gli aveva detto crudamente la verità: con un cuore in quelle condizioni ogni giorno di vita era un miracolo. Rinnovò il miracolo fino all'11 febbraio 1975. Le ultime parole che riuscì a dire furono: «Madre mia, non ti ho mai dispiaciuto in vita... ora, aiutami!».
La cattedrale che accolse i suoi resti mortali si riempì di cristiani, musulmani, indù. Piangevano la perdita di un amico, un fratello. Se n'era andato con Dio chi per tutta la vita aveva ascoltato la sua giovane mamma che gli aveva sussurrato: «Metti amore!».
Autore: Teresio Bosco
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