Torre del Greco (Napoli), dove nel 1751 nasce san Vincenzo Romano, si affaccia sul mare accanto al Vesuvio, il vulcano famoso in tutto il mondo per aver sepolto con una pioggia di cenere la città di Pompei nel 79 d.C.. I genitori di Vincenzo, Nicola e Grazia Rivieccio, sono umili, ma molto religiosi. Vincenzo a quattordici anni ha già in mente di diventare sacerdote. Entra in seminario a Napoli e nel 1775, a ventiquattro anni, corona il suo sogno. Nella sua città, Torre del Greco, Don Vincenzo organizza nella propria casa una scuola gratuita per i bambini poveri.
Il suo stile di vita rappresenta un esempio per tutti i sacerdoti, anche per quelli di oggi, tanto da essere considerato il patrono dei sacerdoti di Napoli. Egli pensa ai bisognosi, non a se stesso. Predica, con parole semplici ma efficaci, il Vangelo, per le strade e in campagna; attorno a lui si formano capannelli di uomini, donne, contadini. Se ci riesce, li accompagna nella chiesa più vicina per invitarli a pregare nella “Casa del Signore”. Incurante dei pericoli che corre, Don Romano si avventura nei rifugi dei delinquenti per indurli al pentimento o per cercare di attenuare i danni delle loro losche e malavitose intenzioni. Cura i malati e difende i diritti dei marinai, soprattutto dei pescatori di corallo, mestiere, questo, molto rischioso, che regala a Torre del Greco un primato mondiale, di cui la città, ancora oggi, va orgogliosa.
In particolare i torresi imparano ad amare Don Romano (soprannominato in dialetto napoletano lu prevete faticatore, “il prete lavoratore”) durante la terribile eruzione del Vesuvio del 1794. La lava incandescente – che dopo la sua folle e lunga corsa si riversa sul mare – non risparmia le abitazioni e la Chiesa di Santa Croce: incendi, terremoti, fumo e cenere invadono e distruggono mezzo paese. Don Vincenzo spende tutte le proprie forze per dare conforto morale e materiale alla popolazione. Aiuta la gente a risollevarsi dalla catastrofe e contribuisce alla ricostruzione delle case abbattute e della chiesa che viene riedificata ancora più imponente e maestosa. Don Vincenzo Romano muore nel 1831 a Torre del Greco dove riposa, presso la basilica da lui fatta ricostruire, meta di pellegrinaggio di fedeli che lo invocano soprattutto contro i tumori alla gola. Due miracoli di guarigione da tumore, infatti, sono avvenuti grazie alle preghiere a lui rivolte, una nel 1891 e l’altra nel 1940.
Autore: Mariella Lentini
Profilo biografico
Vincenzo Romano nacque il 3 giugno 1751 a Torre del Greco, città marinara al centro del Golfo di Napoli. I genitori, Nicola Romano e Grazia Rivieccio, di famiglia modesta, abitavano in via Piscopia, situata in uno dei rioni più popolosi e vivaci della città.
Trascorse i primi anni della sua vita in un clima familiare assai religioso. Dopo aver superato difficili prove, a causa dell’elevato numero dei seminaristi e del clero locale, all’età di 14 anni fu ammesso al Seminario diocesano di Napoli, dove poté giovarsi della guida di uomini di cultura e di santità, dei consigli di Mariano Arciero, suo padre spirituale, e degli insegnamenti di Sant’Alfonso Maria de’ Liguori.
Ordinato sacerdote il 10 giugno 1775, si dedicò con zelo e amore alla celebrazione dei sacramenti, all’attività catechistica, all’assistenza dei poveri, degli ammalati e dei tanti marinai torresi che battevano i mari per lavoro, tanto da meritarsi l’appellativo di “celebre faticatore” e “operaio instancabile”.
Dal 1796 al 1831 resse, prima come economo curato e poi (dal 1799) come preposito, la Parrocchia di Santa Croce, che comprendeva allora l’intera città di Torre del Greco, la più popolata del territorio di Napoli.
La terribile eruzione del Vesuvio del 15 giugno 1794, che distrusse quasi completamente la città e la chiesa parrocchiale, mise in luce la sua fibra apostolica. Egli si dedicò subito alla difficile opera di ricostruzione materiale e spirituale della città e della chiesa, che volle riedificare più grande e più maestosa.
Morì il 20 dicembre 1831 dopo una lunga e penosa malattia, lasciando ai suoi sacerdoti come testamento spirituale l’impegno a vivere la carità fraterna.
Leone XIII, il 25 marzo 1895, dichiarava eroiche le virtù di Vincenzo Romano. San Paolo VI, il 17 novembre 1963, lo proclamava Beato, additandolo al clero e specialmente ai parroci quale modello di vita apostolica.
Il 6 marzo 2018 papa Francesco, promulgando il decreto relativo a un ulteriore miracolo ottenuto per sua intercessione, ha aperto la via alla canonizzazione, celebrata dallo stesso Pontefice il 14 ottobre 2018.
Il suo corpo riposa nella Basilica Pontificia di Santa Croce, dove, l’11 novembre 1990 si è recato a venerarlo san Giovanni Paolo II, durante la sua visita pastorale alla Chiesa di Napoli.
La sua memoria liturgica è stata fissata al 29 novembre, inizialmente per la diocesi di Napoli, ma il Martirologio Romano lo ricorda il 20 dicembre, giorno della sua nascita al Cielo.
Il ministero della Parola
Vincenzo Romano, pur essendo vissuto oltre due secoli fa, ha ancora da insegnarci qualcosa di attuale e universale. Lo si può considerare un originale anticipatore di non poche intuizioni pastorali che avrebbero preso piede nella Chiesa del nostro tempo. Nel contesto di Torre del Greco, che non lascia quasi mai nel corso della vita, il egli progetta linee pastorali di azione con un raggio di estensione universale, che hanno le loro punte più avanzate nel “ministero della Parola” e nel “Vangelo della carità”.
Tra tutti i ministeri, quello che Vincenzo Romano considera prioritario è l’annuncio della parola di Dio, sul cui versante mette in atto sia le sue doti di scrittore (si conservano opuscoli catechistici e moltissimi testi di prediche) che di predicatore.
Predica ogni giorno alla sua gente e la domenica ben cinque volte. Il nipote, don Felice Romano, attesta che la sua continua predicazione «non arrecava tedio al popolo, perché sempre con piacere accorreva per sentire la voce del proprio pastore, il cui predicare era semplice, scritturale, patristico, pieno di sodi argomenti, senza apparato di gonfie parole, inutili, offensive, ma dirette ad istruire, a convertire i cuori».
Alla ricerca di strategie efficaci per l’evangelizzazione della gente, egli introduce anche a Torre la cosiddetta “sciabica”: un metodo pastorale missionario, che consisteva nello girare per le piazze e i crocicchi nei giorni festivi, col Crocifisso in mano, per proporre brevi prediche alle persone che raccoglieva e successivamente conduceva in una chiesa, in modo da completare l’opera iniziata per strada.
Dalla Parola alla liturgia. Vincenzo Romano si preoccupa che ai sacramenti si acceda con la dovuta preparazione e perché ci sia una partecipazione attiva alla celebrazione dell’Eucaristia, per la quale egli scrive il Modo pratico di ascoltare con frutto la S. Messa.
Con l’Eucaristia, Maria. Egli si impegna a fondo per introdurre la preghiera comunitaria del Rosario ogni sera. L’opuscolo che al riguardo stende per il popolo gli è particolarmente caro.
Ma tutta la sua vita è segnata dalla presenza della Vergine Immacolata, come punto costante di riferimento, di ispirazione e di speranza.
Il Vangelo della carità
Ciò che colpisce nell’infaticabile parroco torrese è l’apertura ai problemi umani e materiali della gente, di cui condivide gioie, dolori e speranze. Al di là della carità spicciola, infatti, Vincenzo Romano dimostra di essere un apostolo della carità sociale.
Egli si dedica all’educazione dei fanciulli e dei giovani nella sua casa, dove gratuitamente tiene lezioni per i vari ordini di scuola. Si impegna per la giusta composizione delle questioni economiche e sociali esistenti tra gli armatori delle coralline e i marinai che affrontano la fatica e i rischi della pesca, nonché tra i “cambisti” e gli armatori. Si interessa per riscattare i torresi caduti in schiavitù dei corsari barbareschi. Gira con infaticabile zelo, per «sorprendere i delinquenti», per distruggere addirittura i luoghi in cui la delinquenza comune e organizzata poteva attecchire per raduni e loschi affari.
Non abbandona mai il gregge durante gli scompigli politici, né durante le eruzioni del Vesuvio o le azioni carbonare. In questo senso egli è un uomo sempre sulla strada delle persone da salvare, che incontra dovunque, sulle pubbliche piazze, per le strade, le vaste campagne, la Marina, le case.
Così Vincenzo Romano è salito alla gloria degli altari, facendo il pastore della Parrocchia di Santa Croce per 35 anni e “struggendosi”, come egli diceva, per il popolo a lui affidato. E se i suoi contemporanei lo chiamavano già “il santo”, ciò avveniva non solo per la sua eccelsa dottrina, e neppure per i fatti straordinari o miracolosi a lui ascritti, bensì perché egli era, per essi, un segno di salvezza, era l’amore di Dio e dei fratelli che si manifestava come costante della sua vita e della sua azione.
Per questa sua amorosa sollecitudine, egli deve considerarsi anche modello di carità pastorale per i sacerdoti, in modo particolare per tutti i parroci desiderosi di vivere il loro ministero nell'ascolto della Parola che salva, nella fede dell’Eucaristia che santifica, nella sensibilità dell'amore che libera.
Autore: Giuseppe Falanga
Famiglia e primi anni
Vincenzo Romano nacque a Torre del Greco, in provincia e diocesi di Napoli, il 3 giugno 1751, figlio di Nicola Romano e Grazia Rivieccio. Venne battezzato lo stesso giorno della nascita coi nomi di Domenico, Vincenzo e Michele, ma in casa lo chiamarono tutti col secondo nome, per devozione al domenicano san Vincenzo Ferrer.
La sua era una famiglia numerosa: oltre a lui, l’ultimo nato, c’erano i fratelli Pietro, che fu poi religioso tra i Padri Dottrinari, Giuseppe, Felice, Gelsomina e Angela. Fu Gelsomina, che era una “monaca di casa” (ovvero una donna consacrata che viveva in famiglia) a occuparsi in particolare della sua educazione religiosa.
Appena ebbe l’età giusta, fu mandato a scuola da un sacerdote, che fu poi il suo padrino di Cresima. Ricevette quel Sacramento quando aveva circa sette anni: tre anni dopo, venne il giorno della sua Prima Comunione.
Gli inizi del suo sacerdozio
Ordinato sacerdote il 10 giugno 1775, svolse il suo apostolato nella natia Torre del Greco, dedicandosi a ogni sorta di attività, religiose e sociali. Era tanto il suo zelo che fu soprannominato «lu prevete faticatore» (in dialetto, «il sacerdote lavoratore»). Assisteva in particolare le famiglie dei tanti marinai torresi che navigavano per il mondo.
Il 15 giugno 1794 un’eruzione del Vesuvio distrusse quasi completamente la città, compresa la chiesa di Santa Croce. Don Vincenzo si dedicò subito alla difficile opera di ricostruzione materiale e morale. Fece quindi ingrandire la chiesa, oltre a metterla in sicurezza.
A quanti criticavano quella sua scelta, rispose: «Ci saranno giorni in cui questa chiesa non basterà a contenere i tanti fedeli che vi accorreranno». Sulla porta centrale fece apporre una lapide con la scritta «Admirabili Dei Providentia», ossia «[dedicata] alla meravigliosa Provvidenza di Dio».
Nel 1796 fu nominato economo curato dell’Insigne Collegiata di Santa Croce: all’epoca, era l’unica parrocchia della città, ma anche la più popolata del territorio diocesano. Il primo documento che le riguarda è datato 10 luglio 1517, firmato da papa Leone X.
La vocazione
Quattordicenne, Vincenzo manifestò ai genitori di voler diventare sacerdote. Tuttavia, il Seminario Diocesano di Napoli, riservato ai giovani della provincia (a differenza del Seminario Urbano per i candidati di Napoli città), aveva già molti seminaristi nativi di Torre del Greco.
Vincenzo si dispiacque, ma non si arrese. Cercò di entrare tra i padri Gesuiti, ma i suoi si opposero perché avrebbe dovuto frequentare le loro scuole prima di essere ricevuto tra i novizi. Alla fine un nobiluomo di Napoli fece presente il suo caso all’arcivescovo, il cardinal Antonino Sersale, il quale però volle che i professori che dovevano esaminarlo fossero molto severi. Vincenzo passò l’esame con ottime valutazioni.
Gli anni del Seminario
Iniziò quindi, nell’anno scolastico 1765-’66, la sua formazione in vista del sacerdozio. L’anno successivo gli accadde di ascoltare sant’Alfonso Maria de’ Liguori mentre predicava la novena dell’Assunta. Il suo padre spirituale fu don Mariano Arciero, del quale rimase molto amico anche negli anni successivi (è stato beatificato nel 2012).
I suoi compagni lo chiamavano “scialone”, cioè gaudente, con allusione alla fame che egli aveva dell’Eucarestia di cui si nutriva ogni giorno, cosa allora insolita, e per la gioia che diventava visibile quando poteva trattenersi in adorazione dell’Eucarestia. Per il suo carattere dolce e ritroso insieme, era anche soprannominato “pecora stizzita”.
Gli inizi del suo sacerdozio
Ordinato sacerdote il 10 giugno 1775, don Vincenzo svolse il suo apostolato nella natia Torre del Greco, dedicandosi a ogni sorta di attività, religiose e sociali. Era tanto il suo zelo che fu soprannominato «lu prevete faticatore» (in dialetto, «il sacerdote lavoratore»). Assisteva in particolare le famiglie dei tanti marinai torresi che navigavano per il mondo.
Il 15 giugno 1794 un’eruzione del Vesuvio distrusse quasi completamente la città, compresa la chiesa di Santa Croce. Don Vincenzo si dedicò subito alla difficile opera di ricostruzione materiale e morale.
Nel 1796 fu nominato economo curato dell’Insigne Collegiata di Santa Croce: all’epoca, era l’unica parrocchia della città, ma anche la più popolata del territorio diocesano. Il primo documento che le riguarda è datato 10 luglio 1517, firmato da papa Leone X.
«Peccatore sì, bugiardo mai!»
Il 23 gennaio 1799 il generale Championnet, sconfitte le truppe di re Ferdinando IV, entrò a Napoli. Il popolo era fedele in maggior parte al Re e al Papa, ma a Torre del Greco non mancavano i simpatizzanti filo-francesi.
Anche a Torre del Greco fu innalzato l’ “albero della libertà”, in piazza del Carmine. Don Vincenzo avrebbe dovuto tenere il discorso per l’occasione, ma si rifiutò: dovette allora comparire davanti al Direttorio di Napoli, in un tribunale improvvisato. Quando però fu accusato di mentire, replicò: «Peccatore sì, bugiardo mai!».
Riuscì a non finire in carcere solo perché qualcuno garantì per lui. Al suo posto fu don Saverio Loffredo, vicino ai repubblicani, a tenere il discorso d’occasione.
Parroco di Santa Croce
Il 27 settembre 1799 morì il parroco di Santa Croce, don Gennaro Falanga. I governatori laici di Torre del Greco, che avevano diritto di nomina sui candidati alla sua successione, proposero concordemente don Vincenzo. Lui, che da giovane aveva dichiarato: «Se qualcuno mi volesse mandare un’imprecazione, dovrebbe dirmi: ti possa vedere parroco!», fu sconvolto.
Mandò un amico sacerdote dai governatori, per cercare di convincerli a ritirare il suo nome. Al contrario, loro approvarono la nomina. Il decreto di nomina a «Preposito Curato della Insigne Collegiata e Chiesa Parrocchiale di S. Croce» fu firmato il 28 dicembre 1799; il possesso canonico ebbe luogo in forma solenne nel giorno successivo.
Durante la cerimonia, Vincenzo fu visto «accigliato e pensieroso e piuttosto afflitto», «tutto umile e dispiacente», mentre intorno a lui tutti erano in festa. Alcuni giorni dopo, a chi gli chiedeva con una punta di sorridente malizia come si trovasse nei panni di Preposito, rispose: «Camminiamo sopra l’acqua, come San Pietro», alludendo all’apostolo, il quale, invitato da Gesù a raggiungerlo camminando sulle acque del lago, ebbe improvvisamente paura e stava per affondare se il Maestro non gli avesse tesa la mano (Matteo 14,2-31).
Felice Romano, che imparò a fare il parroco alla scuola dello zio, in familiare intimità con lui, ne ricorda i sentimenti e i pensieri che da quel momento lo ispirarono: «Signore, niente io posso, niente io sono, niente io so, la Cura è vostra, nella vostra parola, come San Pietro, io mi getto in questo mare... O Gesù, io sono l’asinello sotto di voi, voi guidatemi, voi tiratemi, voi regolatemi».
La sua predicazione
Aveva una predicazione fluente, non ampollosa, facile a capirsi. I fedeli accorrevano e, soprattutto, seguivano e mettevano in pratica ciò che ascoltavano. Sollecitò la recita del Rosario serale e, perché i fedeli potessero seguire meglio la celebrazione della Messa, scrisse un opuscolo sull’argomento.
Alla ricerca di sempre nuovi metodi per avvicinare i fedeli, introdusse a Torre la cosiddetta “sciabica”. Questa strategia missionaria prendeva il nome da un tipo di pesca a strascico e si attuava così: il predicatore, nei giorni festivi, girava per le piazze e per le strade, attirando la gente con un campanello. Improvvisava quindi una predica al momento, tenendo il Crocifisso in mano. Se le persone, incuriosite, si avvicinavano, il sacerdote le invitava ad accompagnarle nella chiesa o nella cappella più vicina, per pregare insieme.
«Era solito ripetere - attesta il nipote Felice “La parola di Dio è quella prodigiosa semenza che produce buona vita, buona morte e il paradiso”. E altre volte: “Lasciate sempre che in ogni parte sia aperta questa fontana a beneficio delle anime”».
Incitava tutti i rettori e i sacerdoti preposti alle chiese di città e della campagna a non lasciare mai il loro popolo digiuno della Parola di Dio, specialmente della spiegazione del Vangelo la domenica, e si dimostrava assai largo nell’autorizzare altri ecclesiastici a predicare nell’ambito della sua parrocchia: «Fate tutto ciò che è di gloria a Dio», diceva: «Andate e predicate!».
Umiltà vissuta e carità concreta
La caratteristica principale di don Vincenzo fu l’umiltà. In una sua predica affermò: «Colla virtù dell’umiltà siamo santificati noi e santifichiamo gli altri uomini ancora. La vera santità e la vera umiltà sono così connesse tra di loro, che dov’è santità vi è anche umiltà».
Teneva poi una scuola per i bambini, divisi in classi, nella sua casa. Si faceva mediatore dei contrasti sorti fra gli armatori delle “coralline” (le imbarcazioni dedicate alla pesca del corallo) e i marinai. Spesso gli accadeva di sorprendere covi di delinquenti e provava a dissuaderli dai loro loschi intenti. Cercò poi di riscattare i torresi caduti in schiavitù dei corsari barbareschi.
Così concretizzava quello che espresse in una sua predica ai sacerdoti: «Siamo luce del mondo per risplendere coi buoni esempi. Ma dove non v’è fuoco, neppure v’è luce. Dobbiamo istruire, ammonire, ma senza la carità saremo un bronzo sonante, un cembalo che rimbomba, perché chi non arde non accende… la carità è la regina, anima, forma di tutte le virtù, di tutte le opere buone. Senza questa carità saremo niente, niente ci gioverà».
L’inaugurazione della nuova chiesa di Santa Croce
Ebbe infine la soddisfazione di vedere ultimata, nel 1827, la costruzione della nuova chiesa di Santa Croce. A quanti criticavano quella sua scelta – la chiesa era infatti più grande di prima – rispose: «Ci saranno giorni in cui questa chiesa non basterà a contenere i tanti fedeli che vi accorreranno».
Sulla porta centrale fece apporre una lapide, a cui volle aggiungere le parole «Admirabili Dei Providentia», ossia «per la meravigliosa Provvidenza di Dio». Nel 1828 crollò la cupola superiore, ma fu subito messa in sicurezza. Il Beato Papa Pio IX, nel viaggio che lo portava in esilio, visitò la chiesa nella festa della Santa Croce, il 14 settembre 1849.
Don Vincenzo e il sacerdozio
Anche con i sacerdoti mirava al sodo. Gli argomenti da lui prescelti – come emergono dai titoli delle prediche giunte fino a noi tra le sue carte - erano: «Su la morte dei sacerdoti»; «Sul giudizio dei sacerdoti»; «Sulla beatitudine di un santo sacerdote nel cielo»; «Dell’amore dei sacerdoti verso Dio»; «Dell’obbligo degli ecclesiastici di combattere per l’onore di Dio»; «Su lo zelo della gloria di Dio»; «Sul buono esempio dei sacerdoti»; «Sul buon uso del tempo»; «Dello zelo che debbono avere i sacerdoti per la salute delle anime»; «Su la castità dei sacerdoti»; «Sull’orrore che gli ecclesiastici devono avere del peccato mortale»; «La vita degli ecclesiastici dev’esser differente da quella dei secolari»; «Sulla confidenza speciale che i sacerdoti debbono avere in Dio»; «Sulla fede che debbono avere i sacerdoti»; «Le opere buone si debbono fare bene»; «Su l’imitazione di Gesù Cristo; «Sul modo pratico di ben celebrare la Messa»; «Su la dignità del sacerdote».
In una predica al clero, dal suggestivo titolo: «Le opere buone si debbono fare bene», don Vincenzo così esordisce: «Ordinariamente ci contentiamo di fare, ed inculcare gli esercizi delle opere buone, ma poco si bada a praticare, o insegnare, la maniera di farlo bene, come se ciò fosse o superfluo, o impossibile, o inutile» La predica è tutta dedicata a convincere i sacerdoti a «far bene le sublimi funzioni sacerdotali» e termina con una preghiera a Gesù per «questi dilettissimi miei fratelli, vostri ministri, che (o misericordiosissimo nostro Sommo Sacerdote) mi avete dato in aiuto per reggere questo vostro gregge».
«Noi sacerdoti siamo gli operai della vigna della Chiesa – predicava ai suoi confratelli “lu prevete faticatore” – operai che dobbiamo coltivarla e raccogliere la messe. In questa Chiesa vi sono peccatori da convertirsi, deboli da rassodarsi, ignoranti da istruirsi: tutti han bisogno degli aiuti dei sacerdoti».
Don Vincenzo e la Madonna
Devotissimo dell’Immacolata, scrisse per i suoi parrocchiani un libretto con le meditazioni dei 15 misteri del Rosario, intitolato «Il Santissimo Rosario di Maria Vergine è canale di grazie». Riprendiamo solo qualche stralcio dai fervorosi commenti.
Nel primo mistero gaudioso, invitava a contemplare «L’eccessiva carità del Figlio di Dio, il quale per nostro amore e per la nostra salvezza si fece uomo. Noi dunque dobbiamo amarlo, perché egli prima ha amato noi. La Vergine Santissima nell'atto di esser sublimata all'altissima dignità di Madre di Dio, profondissimamente si umilia: Ecco la serva di Dio, si faccia di me secondo la tua parola. Qui insegna a noi l'esercizio dell'umiltà per essere esaltati».
Questa invece è la meditazione sul quinto mistero doloroso: «Anima cristiana, mira il tuo Signore, mira la tua vita, che pende da quella croce: vedi trafitte da chiodi quelle mani e piedi divini. Anima cristiana, alza gli occhi, domanda a Gesù: mio Gesù, che sono queste piaghe in mezzo alle tue mani e piedi? Egli ti risponde: sono segni del grande amore che ti porto, sono il prezzo col quale io ti libero dalle mani dei nemici e dalla morte eterna. dirà anche a te le stesse parole e, se hai peccato, ricorri a Gesù, che pure ti perdona. Gesù in croce, poco prima di morire disse: Tutto é compiuto! Dando un’occhiata a tutta la sua vita pensò: tutte le profezie che parlavano di me, si sono avverate, la redenzione del genere umano si è perfezionata! Questo è il modello che dobbiamo sempre tenere davanti agli occhi».
Infine, sul quinto mistero glorioso: «La Vergine Santissima amò Dio più di tutti gli angeli e santi insieme. Dunque, a ragione ella gode più gloria di tutti. Maria Santissima in mezzo a tanta sua gloria non si dimentica di noi, ma è tutt'occhio per vedere le nostre miserie e tutto cuore per compatirci e tutta mano per aiutarci. Se grande fu la sua misericordia verso i miseri, stando ancora in questo esilio, molto maggiore è la sua misericordia verso i miserabili mentre regna in cielo. Dunque prega l'Avvocata nostra».
Gli ultimi anni
Il 1° gennaio 1825, mentre si alzava dal letto, don Vincenzo era caduto, fratturandosi il femore sinistro. Era stato subito messo di nuovo a letto, ma aveva insistito perché la gente l’aspettava in chiesa. «Mi è avvenuta per i peccati miei», rispondeva a chi gli domandava come stesse.
Il 2 febbraio 1830 scese in chiesa per l’ultima volta: durante la celebrazione della Messa, svenne e fu subito riportato in casa. Ai dolori del femore si accompagnavano piaghe alle gambe, ma lui cercava di sopportare tutto dedicandosi alla preghiera e a ricevere visite.
La morte
Il 16 dicembre 1831 il suo nipote don Felice lo trovò peggiorato: aveva contratto la polmonite. Da allora lo vegliò costantemente, alternandosi con altri sacerdoti. La notte tra il 19 e il 20, don Vincenzo mandò a chiamare il nipote, ma stava riposando. Don Pasquale Noto si accostò a lui imitando la voce di don Felice, ma il malato se ne accorse: «Perché la bugia? Non sapete che la bugia è peccato?».
Morì alle 11 del 20 dicembre 1831. Un mese prima, il 30 novembre, aveva scritto il suo testamento spirituale, nel quale raccomandava la carità fraterna a tutti i sacerdoti di Torre del Greco. Per la fama di santità di cui godette in vita, fu da subito sepolto nella parrocchia di Santa Croce da lui riedificata, nella cappella di san Francesco di Sales.
L’inizio della causa di beatificazione
Col passare degli anni, il suo ricordo e la sua buona fama non vennero meno: si procedette quindi all’apertura della sua causa di beatificazione. Il decreto per l’introduzione della causa (che all’epoca segnava l’inizio della fase romana) porta la data del 22 settembre 1843. In quella circostanza, papa Gregorio XVI espresse un desiderio: «Gloria a Dio che, dopo il corso di più di diciotto secoli dalla fondazione della Chiesa, abbiamo un parroco santo».
Nel dicembre 1894, invece, papa Leone XIII rivelò che non fosse «lontano che l’Italia avesse un sublime esempio di parroco proposto al clero secolare». Di lì a poco, il 25 marzo 1895, lui stesso autorizzava la promulgazione del decreto con cui don Vincenzo veniva dichiarato Venerabile.
La beatificazione
Per la beatificazione, secondo le norme dell’epoca, dovevano essere comprovati due miracoli per la sua intercessione. Coinvolsero due donne native di Torre del Greco: Maria Carmela Restucci, guarita da un tumore alla mammella sinistra, e suor Maria Carmela Cozzolino, in precedenza affetta da una grave malattia alla gola che le impediva anche il respiro.
Don Vincenzo è quindi stato beatificato il 17 novembre 1963 da Paolo VI che in una documentata omelia ne tratteggiò la statura spirituale e pastorale e tra l’altro disse: «Salutiamo il nuovo Beato Don Vincenzo Romano, e rallegriamoci nel Signore, che ci lascia contemplare come cittadino del cielo questo suo fedele ed esemplare seguace. Abbiamo motivi particolari non pochi per essere lieti di questa glorificazione, oltre quello principale dell’onore che è così tributato al Signore e che ridonda sulla Chiesa intera, la quale vede l’albo dei suoi figli vittoriosi arricchirsi del nome d’un nuovo eletto. Non possiamo tacere che uno di questi motivi è costituito dal fatto che questo Beato Romano era Napoletano! Di Torre del Greco»
«Ai Parroci soprattutto» – concluse – siamo felici di additare un loro Fratello in cielo; ad essi va, anche in questa occasione, il Nostro particolare ed affettuoso pensiero: possa il Beato mostrare loro la grandezza della loro missione; e pensando in quali difficili e modeste condizioni tanto spesso si svolge il loro ministero, ricorderemo loro che “non sono gli orizzonti geografici ad allargare quelli dello spirito, ma la vastità degli orizzonti dell’anima a dare anche ad un luogo minuscolo le dimensioni dell’universo”. E voglia questo nuovo Beato loro mostrare che e come un Sacerdote in cura d’anime dev’essere santo; voglia lui sostenere i loro disagi, compensare le loro privazioni, fortificare il loro spirito di sacrificio e di disinteresse, consolare le loro pene, premiare le loro fatiche!»
Il culto
Come avevano auspicato gli altri Papi, si tratta del primo parroco italiano del clero secolare (ossia sacerdote diocesano) elevato agli onori degli altari. La sua memoria liturgica, per la diocesi di Napoli, quindi anche per Torre del Greco, fu fissata al 29 novembre, giorno in cui inizia la novena dell’Immacolata. La ragione è dovuta al fatto che il giorno della sua nascita al Cielo è una delle ferie prenatalizie, nelle quali si omettono le memorie dei Santi.
I suoi resti mortali, invece, furono riesumati ed esposti alla venerazione dei fedeli in un’artistica urna, sempre nella chiesa di Santa Croce, diventata Basilica. Nel 1965 fu eletto patrono di tutti i sacerdoti (parroci e non) di tutte le diocesi della Campania. Inoltre, la sua casa natale, in via Piscopia, è diventata meta di pellegrinaggi.
Nel corso della sua visita pastorale alla diocesi di Napoli, il Papa san Giovanni Paolo II fece tappa a Torre del Greco. Dopo aver venerato i resti di don Vincenzo, invitò i fedeli «a riprendere ancora oggi il programma pastorale del Beato, per inserirlo nelle moderne tensioni sociali con il suo stesso fervore e la sua medesima passione».
La prima chiesa a lui dedicata si trova a Melito di Napoli. La seconda, invece, si trova a Kalule, a 44 chilometri dalla capitale dell’Uganda, Kampala. L’onlus Famiglia d’Africa aveva patrocinato in quel luogo la ristrutturazione di alcune aule scolastiche, la realizzazione di un pozzo e di un ambulatorio. Le offerte per quelle realizzazioni arrivarono soprattutto da Torre del Greco ed in particolare dalla parrocchia di Santa Croce: per questo, nell’ottobre 2017, la chiesa fu intitolata al Beato Vincenzo Romano. Una terza chiesa è in costruzione in Guatemala, sempre tramite il sostegno economico della comunità parrocchiale di Santa Croce e dei devoti di don Vincenzo.
Il miracolo per la canonizzazione
Il terzo caso preso in esame per la canonizzazione è stato la guarigione di Raimondo Formisano, piccolo commerciante di frutti di mare, torrese, padre di quattordici figli. Nel febbraio 1989 si sottopose ad alcuni esami: l’esito fu che aveva un tumore all’addome (non al rene, come si legge altrove). Fece tre cicli di chemioterapia in una clinica privata, poi interruppe il trattamento: era convinto che il Beato Vincenzo Romano l’avrebbe guarito.
Per questa ragione, furono elevate incessanti preghiere dalla moglie, dai figli e da parenti e amici. Nel luglio successivo, Raimondo cominciò a riprendersi: agli inizi del 1990 gli esami dimostrarono che il tumore era scomparso. L’uomo morì poi nel 2003 per un arresto cardiaco, quindi per cause estranee al precedente male.
Il riconoscimento del miracolo e la canonizzazione
L’inchiesta diocesana a riguardo, aperta nella diocesi di Napoli nell’aprile 2015, è stata chiusa l’8 ottobre successivo. Nel luglio 2015 gli atti dell’inchiesta sono stati convalidati. La Consulta medica si è riunita nell’estate 2017 e si è pronunciata a favore dell’inspiegabilità della guarigione. Il 26 ottobre 2017 è invece toccato ai Consultori Teologi confermare l’intercessione del parroco di Santa Croce nei confronti di Raimondo Formisano.
Il 6 marzo 2018 papa Francesco, autorizzando la promulgazione del decreto relativo, ha quindi aperto la via alla canonizzazione, che lui stesso ha celebrato il 14 ottobre successivo. Tra i sette nuovi Santi c’era anche papa Paolo VI, che, come abbiamo visto, aveva beatificato don Vincenzo.
PREGHIERA
O Dio, che per la salvezza delle anime,
hai reso san Vincenzo Romano
modello di zelo pastorale nella tua Chiesa,
concedici di seguire il suo esempio
per essere nel mondo, con carità operosa,
a servizio del tuo regno.
Per il nostro Signore Gesù Cristo, tuo Figlio, che è Dio,
e vive e regna con te, nell’unità dello Spirito Santo,
per tutti i secoli dei secoli.
Autore: Emilia Flocchini e don Giosuè Lombardo
Note:
La data di culto per la Chiesa universale è il 20 dicembre, mentre a Napoli e a Torre del Greco viene ricordato il 29 novembre.
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