Padre Placido Cortese, al secolo Nicolò, nasce nel 1907 a Cherso (attualmente isola croata, ma dopo la prima guerra mondiale assegnata all’Italia) e viene descritto «di media statura, corporatura piuttosto gracile e snella, storto negli arti inferiori» e, per questo, chiamato «Fra Zoppino».
Ricevuta l’ordinazione sacerdotale nel 1930, viene assegnato per tre anni al servizio della Basilica di Sant’Antonio, a Padova; poi lo trasferiscono a Milano, ma nel 1937 lo richiamano a Padova, affidandogli la direzione del «Messaggero di Sant’Antonio». È un incarico che svolge splendidamente, più che raddoppiando il numero degli associati, ma le sue preferenze vanno per il servizio pastorale in basilica e l’esercizio della carità spicciola.
Soccorre i bisognosi di ogni specie con quello che riesce a raccattare in convento, nascondendo il tutto sotto la sua capace tonaca, che ormai i poveri conoscono bene e rincorrono, in basilica e nel chiostro, esattamente come fanno le api con il fiore.
Ed è forse proprio per questo suo “vizio assurdo” di fare carità a tutti, o forse per le sue caratteristiche fisiche che lo rendono poco appariscente e quasi insignificante, che il delegato pontificio lo incoraggia nell’opera di assistenza nei confronti degli internati sloveni e croati, richiusi nei campi di concentramento, in particolare in quello di Chiesanuova, alla periferia di Padova.
Dopo l’8 settembre 1943, padre Placido aderisce ad un gruppo di solidarietà ben organizzato (denominato FRA-MA, dalle iniziali di due noti professori universitari, Franceschini e Marchesi), che si propone di creare una via di fuga verso la Svizzera per ebrei, militari alleati allo sbando e ricercati dai nazifascisti, per salvarli dalla deportazione: un’organizzazione clandestina che da Padova, attraverso Milano, riesce a portare in salvo centinaia e centinaia di soggetti “a rischio”.
Per mettere a segno le iniziative di salvataggio, padre Cortese sceglie personalmente le foto lasciate dai devoti alla Tomba di Sant’Antonio, per applicarle ai documenti d’identità contraffatti. A lui, in confessionale, ci si rivolge con un linguaggio convenzionale (sei scope, dodici rami…) per indicare altrettanti documenti di cui si ha bisogno, o per ottenere il denaro necessario per l’espatrio.
Non si tratta, però, di una semplice attività umanitaria, ma di una esplicita azione caritativa, illuminata dalla fede, nella quale il frate zoppo si sente talmente coinvolto da farla diventare, nel tratto finale della sua vita, la sua principale attività.
Quando i sospetti cominciano a concentrarsi troppo su di lui, i superiori gli consigliano di “cambiare aria”, proponendogli un trasferimento di convento o di città, anche in forma clandestina, per non mettere a rischio la propria vita. Non accoglie la proposta, sapendo che dalla sua dipendono molte altre vite.
Un prete così, solo la carità poteva tradire e portare allo scoperto: infatti, con l’inganno di andare urgentemente in aiuto ad alcuni sbandati, i tedeschi, che da un pezzo hanno gli occhi puntati su di lui, riescono a portarlo fuori dal convento e a catturarlo. È l’8 ottobre 1944 e da quel momento diventa un frate “desaparecido”, e come tale fu considerato per molti anni.
Soltanto dopo cinquant’anni, alcune testimonianze attendibili riescono a ricostruire i tempi di un’agonia, lucida e tremenda, che si concluderà con la morte, dopo atroci torture, verso la metà del successivo novembre, e con la distruzione del cadavere, probabilmente in un forno crematorio.
«Teneva un comportamento da mite e pieno di speranza. Pregava sempre, a mezza voce. Gli avevano spezzato le dita. Mi colpiva la sua tenace volontà di resistere», hanno raccontato quanti erano con lui rinchiusi nel bunker di piazza Oberdan a Trieste, ricordando «le sue mani deformate, giunte in preghiera […] lui poi infondeva coraggio […] esortando alla confidenza in Dio […]».
La Gestapo non riesce a farlo parlare: anche in mezzo alle torture, non si lascia scappare neppure una parola. Soprattutto esorta a non tradire, non fare nomi, non mettere a repentaglio la vita di altri.
«La religione è un peso che non ci si stanca mai di portare, ma che sempre più innamora l’anima verso maggiori sacrifici […] fino a morire tra i tormenti come i martiri del cristianesimo», aveva profeticamente scritto, ancora giovanissimo, ai genitori.
L’inchiesta diocesana, apertasi per accertare il suo martirio, si è svolta nella diocesi di Trieste dal 29 gennaio 2002 al 15 novembre 2003. La Congregazione delle Cause dei Santi, ritenendo non sufficientemente fondato, dal punto di vista teologico, il suo martirio “in odium fidei”, dispose un’inchiesta suppletiva “super virtutibus”, che si svolse a Trieste nel 2012.
Riconosciuta la validità giuridica dei procedimenti, si è proceduto alla redazione della “Positio super vita, virtutibus, et fama sanctitatis”, esaminata con esito positivo dai consultori storici il 31 gennaio 2017, definitivamente stampata e depositata nel febbraio 2018. È comunque rimasta aperta la possibilità di riproporre la causa con il lemma originario “super martyrio”, in presenza di ulteriori documenti o testimonianze probanti.
In ogni caso, il 30 agosto 2021, ricevendo in udienza il cardinal Marcello Semeraro, papa Francesco ha autorizzato la promulgazione del decreto sull’eroicità delle virtù di padre Placido.
Autore: Gianpiero Pettiti
Il Servo di Dio Placido Cortese nacque a Cherso, isola all’epoca territorio dell’Impero Austro-Ungarico, oggi in Croazia, il 7 marzo 1907. Al Battesimo, ricevuto dieci giorni dopo nella chiesa parrocchiale di Santa Maria Maggiore, fu chiamato Nicolò Matteo. I suoi genitori, Matteo Cortese e Antonia Battaia, erano persone religiose e di notevole operosità. Nicolò era il primogenito di quattro figli: tre maschi e una femmina, Giovanna Antonia, detta “Nina”, con la quale il futuro padre Placido mantenne sempre un forte legame umano e spirituale.
Fu ammesso alla Prima Comunione nella festa del Corpus Domini, in un anno che non è stato possibile precisare. Frequentò i primi tre anni della scuola elementare nella sua città natale, proseguendo poi gli studi fino alla quarta classe, forse perché intenzionato ad abbracciare la vita consacrata.
Nicolò conosceva già i Frati Minori Conventuali perché presenti a Cherso, nella chiesa di San Francesco. A tredici anni, nel 1920, fu accolto nel loro Collegio-Seminario a Camposampiero, in provincia di Padova. Ricevette la Cresima a Padova, nel santuario Antoniano dell’Arcella, il 30 dicembre 1920.
Nel 1923 iniziò l’anno di noviziato. Professò i voti temporanei a Padova, presso la Tomba di Sant’Antonio, il 10 ottobre 1924, assumendo il nome di fra Placido. Il 4 ottobre 1928, nella basilica di San Francesco ad Assisi, emise la professione solenne.
Compì in breve il corso liceale-filosofico a Cherso (1925-27) e i quattro anni di Teologia (1927-31) presso la Facoltà Teologica San Bonaventura (oggi “Seraphicum”) a Roma, senza però completare l’esame di laurea. Rimase tuttavia modesto e tranquillo, perché con umiltà diceva di aver fatto quello che poteva, conservando sempre l’amabilità e la semplicità che lo avrebbero contraddistinto anche in seguito.
Venne ordinato sacerdote a Roma il 6 luglio 1930 nella chiesa del Pontificio Seminario Romano, e celebrò la Prima Messa nella basilica di Santa Maria Maggiore. Trascorse i primi anni di sacerdozio, precisamente dal 1931 al 1933, nella basilica di Sant’Antonio a Padova. Dal dicembre 1933 al gennaio 1937 risiedette nella comunità di viale Corsica in Milano, prestando servizio come viceparroco nella parrocchia della Beata Vergine Immacolata e Sant’Antonio, affidata ai Frati Minori Conventuali, che in quegli anni stavano costruendo la nuova chiesa.
All’inizio del 1937 fu richiamato a Padova per assumere la direzione del «Messaggero di Sant’Antonio», mensile fondato nel 1898 come collegamento spirituale tra la basilica che custodisce la tomba del Santo e i suoi tantissimi devoti.
Padre Placido era consapevole che quell’incarico era molto delicato, ma gli era altrettanto congeniale. Con la sua guida, che perdurò fino al 1943, la rivista passò da circa 300.000 a 800.000 copie, nonostante l’irrompere della seconda guerra mondiale.
Va ascritta a suo merito anche la nuova tipografia che Padre Cortese inaugurò all’inizio del 1939, permettendo così al «Messaggero» una propria organizzazione del lavoro, delle opere e delle edizioni librarie. La sua laboriosità, che egli sapeva ben integrare con il ministero sacerdotale nella basilica di Sant’Antonio («Prima sono sacerdote e poi direttore», diceva) gli permise di sostenere, come scrittore e anche come fotografo (di lui si conservano molti “scatti”) una notevole mole di lavoro, concedendosi solo brevi parentesi di riposo. Come scrittore collaborò anche ad altre pubblicazioni dell’Ordine, fin dal 1931.
Seppe alimentare una solida vita spirituale, di cui si trova ampia risonanza nella fitta corrispondenza con la famiglia, specie con la sorella Nina. Questa sua caratteristica fu confermata da numerosi confratelli a lui più vicini. Di carattere «mite, dolce, semplice» e sensibilissimo ai bisogni degli altri, faceva onore al nome assunto con la professione religiosa. “Placido” e Cortese”, di nome di fatto!
Nel precipitare degli eventi bellici e politici, la sua opera di carità si dispiegò a Padova e oltre, giungendo fino al Friuli-Venezia Giulia e alla Toscana, grazie anche agli aiuti di benefattori e persone sensibili. Inizialmente (1942-1943) padre Placido portò soccorso agli internati sloveni e croati deportati nei campi di concentramento in Italia, in particolare in quello di Padova-Chiesanuova.
Dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, con l’occupazione tedesca di Padova e lo scatenarsi della furia persecutoria dei nazisti, padre Cortese si prodigò per soccorrere gli ebrei, i militari alleati allo sbando dopo gli eventi dell’8 settembre, ed altri perseguitati o ricercati.
Fu un importante punto di riferimento, nella città del Santo, della rete clandestina di salvezza coordinata dai professori Ezio Franceschini, a Milano, e Concetto Marchesi, a Padova, denominata «FRA-MA» dalle loro iniziali, il cui compito era di aiutare i perseguitati a raggiungere la Svizzera e a salvarsi.
Nonostante il pericolo, padre Placido agì con coraggio e fiducia nel Signore, sentendosi protetto dalle mura del convento e della basilica del Santo, di proprietà della Santa Sede e dichiarata in quei frangenti «zona extraterritoriale». Più volte fu avvertito del pericolo che incombeva su di lui e perciò invitato a mettersi in salvo.
Anche nei confronti dei confratelli che consideravano pericolosa la sua attività e che di conseguenza non la vedevano di buon occhio, egli seppe conservare un paziente atteggiamento, certo che non avrebbe causato alcun danno, anzi favorendo la loro protezione, restando nascosto e in silenzio. Anche in quelle concitate circostanze, fu fedele al suo impegno di solidarietà e di carità, espresso, già in una lettera del 1933 ad un prelato, con una celebre espressione paolina, applicata però a se stesso: «Caritas Christi urget me» (cf. 2Cor 5,14).
E giunse la domenica 8 ottobre 1944, quando, verso le 13.30, due tedeschi (appartenenti alla SS nazista, come fu accertato in seguito) chiesero di lui, con il pretesto di portare soccorso a qualcuno in difficoltà. Padre Placido, non sospettando di nulla, preso nel suo «punto debole» (la carità!), attraversò il chiostro della Magnolia della basilica del Santo e, accompagnato dal frate portinaio, uscì sul sagrato. Appena fuori il recinto che lo delimita, sostava un’automobile, nella quale fu fatto salire. L’automezzo partì subito e padre Placido scomparve per sempre, dopo aver salutato con un gesto della mano il confratello che lo aveva accompagnato e che immediatamente comprese il dramma che in quel momento si stava consumando.
Come si seppe con certezza dopo cinquant’anni, padre Placido Cortese fu portato nel bunker della Gestapo in piazza Oberdan a Trieste, dove fu sottoposto a interrogatori e a brutali torture, con l’intento di estorcergli, inutilmente, soprattutto i nomi dei suoi collaboratori.
Alcuni testimoni oculari hanno testimoniato sul drammatico stato in cui venne ridotto nelle settimane in cui rimase nelle mani della Gestapo. Emerge, tra tutte, la dichiarazione scritta, rintracciata negli archivi di Londra, del sergente britannico Ernest C. Roland Barker, anch’egli rinchiuso nel bunker di piazza Oberdan, nella quale egli afferma di aver conosciuto un sacerdote proveniente dalla basilica del Santo a Padova e di aver visto i pesantissimi maltrattamenti a cui veniva sottoposto. Pur non conoscendone il nome, non c’è dubbio che si tratti di Padre Placido Cortese.
Queste le sue parole: «Io stesso ho visto molti prigionieri, croati, italiani e di altra nazionalità, che sono stati maltrattati… C’è stato in particolare un prete italiano, il parroco della chiesa di S. Antonio a Padova, al quale avevano strappato le unghie, spezzato le braccia (da intendere anche le mani), bruciato i capelli e che portava sul suo corpo i segni di ripetute fustigazioni. Mi fu detto in seguito che gli avevano sparato».
Il «colpo di grazia», quindi, mise fine alle sofferenze di padre Placido, verso la metà di novembre del 1944: il 15 del mese, secondo la sentenza di morte presunta emessa dal Tribunale di Padova il 4 luglio 2003, colmando la lacuna della mancanza di un certificato di morte che non venne mai prodotto da chi causò la morte del Servo di Dio, a trentasette anni di età.
È commovente sapere come questo “martire” della carità e del silenzio trascorreva i suoi giorni di passione: in continua preghiera, come ha lasciato scritto un altro autorevole testimone, il noto artista sloveno Anton Zoran Mušič, trattenuto anch'egli nel bunker della Gestapo a Trieste, in una cella (si trattava di gabbie di legno) accanto a quella di padre Cortese: «Egli stava in continua sommessa preghiera, giorno e notte, una preghiera che era un conforto anche per me».
Le ultime parole di Padre Placido che conosciamo, come ha testimoniato Ivo Gregorc nell’inchiesta diocesana, avendolo egli visto nella tristissima prigione della Gestapo, ormai ridotto ad una larva umana, sono queste: «Prega e taci». Quasi una consegna, un testamento che questo mite e coraggioso francescano ci ha lasciato.
Il suo corpo finì quasi certamente nel forno crematorio della Risiera di San Sabba a Trieste.
A partire dal 1995, si sono risvegliate provvidenzialmente molte e importanti testimonianze o ricordi di confratelli e di altre persone sulla vita, attività e morte di padre Placido.
La sua causa di beatificazione e canonizzazione, dopo il nulla osta della Congregazione delle Cause dei Santi dell’8 ottobre 2001, si aprì con l’inchiesta svoltasi nella diocesi di Trieste dal 29 gennaio 2002 al 15 novembre 2003, per accertare il suo effettivo martirio «in odio alla fede». Gli atti del processo sono stati convalidati il 4 giugno 2010, ma la Congregazione ha chiesto di cambiare l’indirizzo (tecnicamente, il “lemma”) della causa: non più per verificare il presunto martirio di padre Placido, bensì l’eroicità delle sue virtù, non essendo sufficientemente fondato dal punto di vista teologico, secondo la Congregazione, il martirio «in odium fidei», e restando comunque possibile l’accertamento del martirio, se si venisse in possesso di nuovi documenti e testimonianze.
È stato quindi istruito un secondo processo diocesano «super virtutibus», che sì è svolto, sempre a Trieste dal 18 giugno al 25 ottobre 2012. I relativi atti sono stati convalidati il 17 maggio 2013. Redatta la “Positio super virtutibus”, questa ottenne un primo voto favorevole da parte dei consultori storici il 31 gennaio 2017. Stampata definitivamente la «Positio» e depositata nel febbraio 2018, si attende il pronunciamento dei consultori teologi sull’eroicità delle virtù, già fissato nel mese di marzo 2020.
La causa interessa non solo la Provincia Italiana di S. Antonio dei Frati Minori Conventuali, che comprende tutto il Nord Italia, ma anche le Province di Croazia e di Slovenia, nonché alcune Chiese locali, come Padova, Trieste, Ljubljana, KrK.
Tra i molti riconoscimenti tributati “post mortem” al Servo di Dio da varie Autorità, spicca la Medaglia d’oro al merito civile conferita dal Presidente della Repubblica Italiana, Sergio Mattarella, alla memoria di padre Placido Cortese e consegnata personalmente dal Presidente ai frati del Santo, nella sede dell’Università di Padova, l’8 febbraio 2018. Questa la motivazione:
“Direttore del Messaggero di S. Antonio, durante la seconda guerra mondiale e nel periodo della Resistenza si prodigò, con straordinario impegno caritatevole e nonostante i notevoli rischi personali, in favore di prigionieri internati in un vicino campo di concentramento, fornendo loro viveri, indumenti e denaro.
Dopo l’8 settembre 1943 entrò a far parte di un gruppo clandestino legato alla Resistenza, riuscendo a far fuggire all’estero numerosi cittadini ebrei e soldati alleati, procurando loro documenti falsi.
Per tale attività nel 1944 fu arrestato e trasferito nel carcere di Trieste, dal quale non fece più ritorno.
Fulgido esempio di alti valori cristiani e di dedizione al servizio della società civile”. 1942-1944 – Padova.
Lo stesso Presidente Mattarella, che in un discorso ufficiale aveva definito “martire” il padre Placido Cortese, ha voluto rendergli omaggio, durante la visita compiuta alla basilica di sant’Antonio a Padova il 7 febbraio 2020, soffermandosi davanti al suo Memoriale, corrispondente al suo confessionale, che negli anni tragici della seconda guerra mondiale divenne crocevia di contatti e direttive, allo scopo di salvare vite umane in pericolo.
Le testimonianze di quanti lo hanno conosciuto concordano su alcuni tratti salienti della figura di padre Placido: molto umano e sensibile verso i drammi e le sofferenze della gente, capace di infondere coraggio e speranza, umile frate (era chiamato “lo zoppino”, a causa di un difetto fisico) ma anche coraggioso, pieno di sollecitudine per il ministero sacerdotale, confratello di operosa bontà. Totalmente uomo di Dio, ne ha difeso i diritti, particolarmente e pesantemente calpestati nei deboli e nei perseguitati durante i tempi dolorosi e terribili del secondo conflitto mondiale. Dell’opera del Santo di Padova, di cui fu sinceramente devoto, ma che, soprattutto, imitò, padre Placido Cortese fu, nel suo tempo, un interprete autorevole. Scrisse un confratello: “Possiamo ben dire che riviveva nel piccolo infaticabile frate il cuore intrepido del suo Santo prediletto, Antonio di Padova” (P. Vergilio Gamboso, 1964).
Rimane, infine, significativo che il “martirio” sia stato come profetizzato dal novizio fra Placido, allora diciassettenne, in una lettera ai familiari alla vigilia della professione dei voti: “La Religione è un peso che non ci si stanca mai di portare, ma che sempre più innamora l’anima verso maggiori sacrifici, fino a dare la vita per la difesa della fede e della Religione Cristiana, fino a morire tra i tormenti come i martiri del Cristianesimo in terre lontane e straniere” (lettera del 7 ottobre 1924).
Autore: Padre Giorgio Laggioni OFMConv, vicepostulatore
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