Un testimone della carità dei nostri tempi, degno rappresentante di migliaia di volontari e professionisti laici, che singolarmente o aggregati a Movimenti, Istituzioni, Organismi Internazionali Umanitari, Ordini religiosi, danno le loro migliori energie giovanili o mature, per sollevare dall’indigenza, arretratezza, ignoranza, sottosviluppo, malattie, tanti popoli del Terzo Mondo povero; che in quest’epoca di globalizzazione economica selvaggia, sono diventati davvero tanti e senza speranza d’inserimento. È qui doveroso ricordare alcuni di loro, che hanno speso tutta intera la loro vita per i fratelli poveri, identificando in essi Gesù sofferente e perdendo in alcuni casi anche la vita; seguendo in tutto il detto evangelico “Chi perderà la propria vita per me, la salverà”: Annalena Tonelli (1943-2003), Albert Schweitzer (1875-1965), Marcello Candia (1916-1983), Sean Deveraux (1963-1993), Carlo Urbani (1956-2003), Raoul Follereau (1903-1977), ecc. A loro si aggiunge l’intrepida figura del medico italiano Pietro Corti, che nacque il 16 settembre 1925 a Besana (Milano) nella Brianza operosa. La famiglia era economicamente agiata, avendo operato prima nella seta e poi investendo nell’edilizia. Crebbe nel clima fattivo, cristiano e generoso della sua famiglia, in particolare la madre diceva e dimostrava con le sue azioni, che “siamo al mondo per aiutarci”. Come già per i suoi fratelli, anche Piero dopo le scuole elementari, proseguì gli studi in collegio a Stresa sul Lago Maggiore. Rientrò in famiglia in piena Guerra Mondiale; apparentemente fragile nel fisico era incerto sul suo avvenire, aveva il desiderio di fare il medico, ma soprattutto in terre lontane dove c’era più bisogno di sanitari. Vincendo lo scetticismo degli amici che lo ritenevano un bizzarro figlio di papà, riuscì a laurearsi all’Università di Milano, non solo, ma partì per il Canada nel 1955, per specializzarsi in radiologia e anestesia, all’”Hôspital Sainte Justine pour les Enfants” di Montreal. A Milano aveva conosciuta una ragazza anche lei laureanda in Medicina, Benedetta Bianchi-Porro (1936-1964), oggi Venerabile, che sognava una vita missionaria in Africa. Piero se ne era innamorato e sognava di partire con lei; ma una rarissima malattia l’aveva colpita al midollo spinale, rendendola cieca e paraplegica e portandola rapidamente alla morte; prima che morisse, Piero le giurò che avrebbe fondato per suo amore un ospedale in Africa. E con questi propositi approdò in Canada, dove durante la specializzazione conobbe un’altra collega canadese che si specializzava in chirurgia, Lucille Teasdale; divennero amici, con lontananze e ritorni, confidenze intime, esposizioni dei loro programmi futuri, le gioie e le paure che avevano e alla fine si confessarono l’amore reciproco che era sbocciato fra loro. Ma poi terminati gli studi Piero tornò a Milano, visto le incertezze che angustiavano Lucille riguardo l’eventuale matrimonio. Poi il rettore dell’Università di Montreal propose a Lucille, che doveva completare il lungo corso di sei anni, di trascorrere l’ultimo negli Stati Uniti, al momento di partire però, Lucille si rese conto che non avrebbe più rivisto Piero, del quale ormai sentiva la mancanza; gli telefonò e lo raggiunse a Milano. Intanto il dottor Pietro Corti aveva viaggiato in quel periodo in India e in Africa, alla ricerca di un impiego e della sua vocazione missionaria; l’aveva trovato in Uganda in piena Savana, vicino alla città di Gulu dove i padri Comboniani avevano alcuni dispensari. Nel loro incontro, dopo aver esternato la gioia reciproca, si parlò del futuro, Piero le chiese: “Perché non vieni in Uganda con me?”, lei non rispose, pensava alla famiglia, alla carriera, obiettò: “Dici sul serio?”, “Certo, tu faresti il chirurgo e io il tuo anestesista”. Alla fine furono le ragioni del cuore a prevalere su tutto e Lucille disse di sì, il primo di tanti. Il 1° maggio 1961 atterrarono ad Entebbe, capitale dell’Uganda, allora protettorato inglese e con una robusta auto attraversarono tutto il Paese, giungendo a Lacor, un villaggio a 11 km da Gulu, nel territorio della tribù Acoli; dove c’era un dispensario gestito da cinque suore italiane comboniane. Si cominciò a lavorare, Lucille come chirurgo e Piero come anestesista, radiologo e amministratore e da quel giorno furono sempre insieme, si sposarono con semplicità nella Cappella del piccolo ospedale il 5 dicembre 1961, come celebrante era il vescovo di Gulu, mons. Giovanni Cesana. Ben presto però il vescovo diocesano fece comprendere che non era in grado di sostenere il fondo, fino allora versato per il sostegno dell’ospedale, aiutato all’inizio anche dalla diocesi di Milano. Su consiglio ed esortazione del cognato Fortunato Fasana, anch’egli medico missionario nel Terzo Mondo, Pietro Corti si persuase ad assumersi personalmente l’onere della gestione dell’ospedale. Al lavoro ordinario di gestione e a quello sanitario, si aggiunse quello del reperimento di fondi; costituì un’estesa rete di rapporti epistolari con molti avventurosi viaggi in Europa; un gruppo di amici e parenti a Besana Brianza che l’appoggiassero, inoltre attraversò l’Italia per raccogliere denaro e materiale medico. Un anno dopo il loro arrivo in Uganda, l’ex protettorato inglese raggiunse l’indipendenza il 9 ottobre 1962; seguirono una decina d’anni di turbolenze politiche, che videro l’avvicendarsi di dittatori come Milton Obote e Amin Dada; scontri fra gli eserciti ugandesi e quelli della confinante Tanzania, imperversare di guerriglieri che lasciavano al loro passaggio una scia di morti e feriti. Il loro ospedale si trovò al centro degli scontri e delle vie di fuga, per cui fu razziato varie volte, mentre le infermiere delle diverse etnie scapparono, anche Piero e Lucille pensarono di chiudere l’ospedale, come già successo per altri della zona, ma poi trovarono sempre la forza per ricominciare. Intanto il 17 novembre 1962 era nata la loro figlia Dominique, che fu la gioia di entrambi, stette con loro i primi anni, poi per salvaguardarla dalle ricorrenti guerre e guerriglie, che sconvolsero l’Uganda fino a tutti gli anni Ottanta e poi per farla studiare in qualche buona scuola in Italia; fu ospitata dagli zii Piero e Galeazzo con i loro sette figli. Ma la lontananza era dura per tutti, per cui nel 1971 quando Dominique aveva nove anni, fu trasferita in Kenya nella famiglia dello zio Fortunato Fasana, che era docente di Medicina all’Università Statale. L’opera del dottor Corti proseguì alacremente nonostante tutte le difficoltà, acquistandosi la simpatie della popolazione ugandese. Negli anni ’60 l’ospedale fu allargato e modernizzato, costruiti nuovi reparti con due sale operatorie, nuovi medici arrivarono da Entebbe e dall’Italia; fu aperta una scuola per infermieri diplomati e fondati due Centri sanitari periferici. Nel 1982 Piero ebbe un leggero infarto al miocardio e durante la convalescenza, arrivò per un colloquio un giovane medico di colore, Matthew Lukuwya, accolto dalle feste delle suore, perché era nato nel 1958 all’ospedale di Kitgun dove la superiora aveva fatto la levatrice. Nonostante la guerra era riuscito a laurearsi nell’Università di Makerere e mancando di ogni esperienza clinica, era venuto dai coniugi Corti per essere preso nel loro ospedale. I due medici furono ben lieti di assumerlo e fu un’ottima decisione, Matthew si specializzò poi nella diagnosi e cura dei tumori infantili e dopo un soggiorno in Italia, divenne un esperto di AIDS, malattia epidemica che si diffondeva velocemente in Uganda. Diventò per loro il migliore collaboratore e quando nel 1991 Piero si rivolse al vescovo di Gulu, per prospettare la necessità per loro due di un periodo di riposo, propose al vescovo il dottor Matthew come sostituto, quale migliore medico dell’ospedale, nonostante che non fosse cattolico ma anglicano. La loro benemerita opera in Uganda, con un ospedale funzionante a pieno ritmo, capace di 465 posti letto e con quasi 500 dipendenti ugandesi, fece sì che Lucille venisse nominata membro onorario del Collegio reale dei medici e chirurghi del Canada, mentre l’Accademia Nazionale dei Lincei in Italia, assegnava il premio ‘Feltrinelli’ all’ospedale di Lacor, definito come “un’iniziativa eccezionale di grande valore morale e umanitario”. Il 25 aprile 1979 mentre in sala operatoria Lucille cercava di amputare una gamba maciullata ad un soldato ferito, la raggiunse in faccia uno spruzzo di sangue nerastro; il paziente morì qualche giorno dopo per il sarcoma di Kaposi, maggiore conseguenza di un’infezione da HIV (AIDS); probabilmente fu in quell’occasione che l’eroico chirurgo Teasdale contrasse la mortale malattia. Ma non vi diede molto peso; nel 1982 a 20 anni Dominique tornò in Uganda dai genitori, si accorse subito che nella mamma qualcosa non andava, faceva fatica a nutrirsi e aveva perso troppo peso per i suoi 53 anni; la persuase a fare un viaggio in Europa e farsi visitare accuratamente da uno specialista. Pietro e Lucille parteciparono il 26 settembre 1983 all’udienza di papa Giovanni Paolo II, riservata ai “medici missionari” impegnati in Africa accanto ai padri e alle suore; poi fecero tappa a Londra dall’immunologo di fama internazionale Anthony Pinching per consulto ed esami. Il responso fu che Lucille era sieropositiva e Piero no, l’illustre clinico le diede due anni di vita, del resto della malattia allora si sapeva ben poco; poteva ancora lavorare in ospedale ma doveva usare cautela, specie nel contatto con i tubercolotici. Non visse due anni, ma lavorando, ancora altri tredici anni, pur limitando man mano l’attività chirurgica. Piero ne era sconvolto e angosciato, tanto più che Lucille, in questa dolorosa prova era semplicemente magnifica; dopo lunga sofferenza, morì a Besana Brianza, dove si era trasferita negli ultimi tempi, il 1° agosto 1996 a 67 anni. Con il suo esempio di dedizione fino all’ultimo, la vita dell’ospedale di Lacor continuò sia pur con animo afflitto. Per Piero ormai settantaquattrenne, le prove continuarono, nel 1999 un’altra grave epidemia, la micidiale Ebola, si abbatté sull’Uganda, il direttore sanitario Matthew Lukuwya di 41 anni, nel soccorrere un ammalato ne contrasse il virus e dopo qualche giorno morì. Pietro rimase solo a lottare per il buon funzionamento del “St. Mary’s Hospital” di Lacor, che oggi accoglie oltre 100.000 ammalati ogni anno e che fu scelto dall’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) come centro pilota per la lotta all’AIDS in Africa. Ebbe diversi bypass al cuore, un tumore al pancreas che lo porterà alla morte, ma il testardo fondatore dell’ospedale lottò fino alla fine, quando a Milano nell’ospedale di S. Giuseppe, concluse la sua esistenza terrena il 20 aprile 2003, la sera del giorno di Pasqua; aveva 78 anni di cui 42 di carità attiva trascorsi in Africa tropicale. Pietro e Lucille riposano vicini nel complesso di Gulu, per continuare insieme a vigilare sul buon andamento del loro ospedale, che continua la sua preziosa attività con il sostegno di una Fondazione a loro intitolata, la cui presidente è l’amata figlia Dominique. Ad una giornalista che le chiedeva: “Fino a quando pensa di restare in Uganda?”, Lucille aveva risposto: “Piero non può vivere senza l’ospedale; io non posso vivere senza Piero. Tiri le sue conclusioni”.
Per informazioni ci si può rivolgere alla “Fondazione Piero e Lucille Corti – Onlus” Piazza Velasca, 6 – 20122 Milano Tel. 02 8054728 www.lacorhospital.org www.fondazioneplcorti.it
Autore: Antonio Borrelli
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