Antonio Bargiggia missionario laico di Milano, 43 anni, nato a Lacchiarella e appartenente all’associazione “Amici dei poveri”, viene ucciso a colpi d’arma da fuoco il 3 ottobre 2000 in Burundi mentre è in viaggio con una Land Rover da Mutoyi a Boujumbura. Lo uccidono quattro militari allo sbando. Lascia una viva memoria di dedizione agli umili, di riconciliatore tra etnie, di vicinanza ai carcerati.
Questo è il profilo che ne ha abbozzato il cardinale Carlo Maria Martini nell’omelia per la messa di addio: “L’amore per Gesù Cristo e per i poveri è stato il movente che ha caratterizzato tutta la vita di questo nostro fratello. Era da vent’anni al loro servizio e sentiva che in questo si realizzava la sua vocazione. In un paese sconvolto da terribili guerre etniche e da massacri senza fine, si faceva vicino a tutti e prediligeva, tra gli altri, i carcerati, rinchiusi in condizioni impossibili”.
Un confratello missionario in Burundi, il saveriano Gabriele Ferrari, lo descrive con parole ammirate: “La prima volta che lo incontrai l’avevo trovato nel cortile della Casa d’accoglienza, una specie di ospedale o Lazzaretto delle suore di madre Teresa di Calcutta, a Rohero, nel cuore della città di Bujumbura. Era venuto a portare una camionetta piena di ammalati di Aids, di tubercolosi, soprattutto madri con bambini in fin di vita a causa della denutrizione. Antonio viveva tra loro e aveva assunto un altro stile di vita e di missione. Invece di dedicarsi solo alla promozione sociale dei poveri, aveva deciso di vivere tra coloro che mai avrebbero potuto entrare nei piani di sviluppo. Per questo era venuto alle porte Bujumbura, dove vivono tanti rigettati al margine della vita, senza risorse, senza speranza umana. Aveva voluto vivere, per quanto possibile, come loro e non solo con loro o per loro. Aveva capito che in una situazione disperata e assurda come quella del Burundi non erano le grandi opere che potevano offrire speranza per il futuro, non le scelte tecniche, ma la scelta della solidarietà radicale, quella della condivisione della vita e del destino. La gente lo aveva capito e l’amava”.
Ed ecco un testo di Antonio, una lettera in cui racconta il Giubileo dei carcerati celebrato tre mesi prima della sua morte nella prigione di Bujumbura della quale era stato nominato cappellano: “Io ero davvero commosso, soprattutto quando nel discorso finale di circostanza un carcerato diceva che per tanti di loro adesso il carcere non è un luogo di reclusione, ma di liberazione del cuore dal peccato. Questo io lo sperimento davvero tante volte, conoscendo tante persone in carcere. Ai condannati a morte non è stato dato il permesso di partecipare alla festa, ma dentro di me non mi sentivo a posto perchè non vedevo Eric: un ragazzo altissimo di 28 anni, condannato a morte per un delitto commesso quattro o cinque anni fa; lo conoscevo prima della condanna e ho cercato di stargli vicino in tutti modi. Avevamo iniziato a scriverci così, per caso, ma adesso, ogni giovedì, mi mette in mano una lettera che, piegata non so quante volte, diventa piccolissima, e questo per discrezione davanti agli altri. Lui è protestante, ma mi confida i suoi pensieri, le sue conquiste spirituali. Un giorno mi ha scritto che ora capisce il motivo per cui è in carcere, e cioè che è solo perchè Dio vuole la sua conversione, e quindi ringrazia Dio di esser lì in isolamento. Non vedendolo, ho chiesto al capo dei secondini di farmelo uscire, “per favore”. Dopo cinque minuti Eric si spingeva tra la folla per arrivare a sedersi vicino a me: era felice che mi fossi ricordato di lui (…). E adesso sono qui tra loro, e questi miei fratelli si sono impossessati del mio cuore. Voglio loro bene, sono dei carissimi figli di Dio. Mi commuovo quando mi portano una lettera per la loro famiglia che non vedono da anni; mi fanno tenerezza quando vedo i condannati a morte sferruzzare per fare i golfini per i bambini che poi porto nei centri di Santè. Mi stringe il cuore quando li vedo stracciati e chiedono un vestito. Forse Gesù ha messo apposta in fondo al brano di Matteo la frase: “ero in carcere”. Perchè in carcere c’è chi è nudo, è affamato, è straniero, è solo e malato; ci sono proprio tutti. La conclusione non può essere se non quella di ringraziare il Signore di questo ennesimo dono che mi fa, nonostante tutti i miei handicap. Sono contento nel cuore e spero di poter usare così della mia vita sino alla fine”.
Per una presa diretta sul martirio di Antonio, ecco la cronaca che ne fece la collega Maria Grazia Cutuli sul Corriere della Sera del 4 ottobre 2000, quando lei era ancora scossa dalla morte – avvenuta tre giorni prima – del comboniano Raffaele di Bari (vedi in questo stesso capitolo). La testimonianza di Maria Grazia è significativa perché si trovò spesso a trattare di missionari nel suo lavoro di reporter per il quale ha dato la vita a 39 anni, in Afghanistan, il 19 novembre 2001.
Missionario laico italiano assassinato nel Burundi.
Era in Africa da vent’anni e aiutava soprattutto i detenuti
di Maria Grazia Cutuli – Corriere della Sera 4 ottobre 2001
“San Francesco” viveva in Burundi da oltre vent’anni, in una bidonville di Boujumbura, dentro una casa di fango e mattoni, senz’acqua e senza luce. Si chiamava Antonio Bargiggia, era un missionario laico, un italiano smilzo e bassino, nato a Milano 43 anni fa. L’unico occidentale autorizzato a visitare il carcere della capitale, ammesso persino nel braccio della morte.
L’hanno ucciso ieri mattina, portandogli via quel poco che aveva, un paio di sandali ai piedi, un vecchio orologio, la Land Rover di servizio. Forse è stata una rapina. Forse un agguato. Forse la solita roulette russa che accompagna chiunque abbia scelto una vita così. E’ morto come padre Raffaele Di Bari, il prete comboniano assassinato dai ribelli ugandesi domenica scorsa. Come i tanti volontari di frontiera, inghiottiti da Paesi senza pace.
Non c’erano operazioni militari in corso, ieri in Burundi. Nessun attacco dei ribelli. Antonio viaggiava con Marko, un amico del posto, lungo la strada che va da Mutoyi alla capitale Boujumbura. Poi, sulla sterrata nei pressi di Kibimba, ha visto la barriera. Quattro uomini sono sbucati fuori, un paio in uniforme. Uno di loro ha appoggiato l’arma alla guancia del missionario. Ha sparato. Marko è fuggito. Il corpo di Antonio è stato perquisito e scaraventato fuori dalla Land Rover. I quattro, saltati sui sedili insanguinati, sono corsi via.
«Qualche ora dopo – riporta la Misna, l’agenzia di stampa missionaria di Roma – sono stati arrestati a un posto di blocco». Nessuna spiegazione ufficiale. In Africa ci si mette tempo a trovare una ragione per una morte come questa. E il Burundi non sfugge alla regola. Sette anni di guerra civile tra l’esercito, dominato dall’etnia minoritaria tutsi, e le fazioni ribelli, controllate dall’etnia maggioritaria hutu, hanno prodotto 200 mila vittime. Neanche Nelson Mandela, nelle vesti di mediatore con l’aiuto della comunità di Sant’Egidio, è riuscito a portare i guerriglieri al tavolo delle trattative. L’accordo di pace, firmato il 28 agosto, tra il governo tutsi e i partiti d’opposizione hutu, rimane un documento inutile senza la firma dei ribelli.
«Papà» Antonio, come lo chiamavano in Burundi, aveva vissuto tutti i giorni di sangue del Paese africano, dal rischio di un genocidio simile a quello ruandese ai continui massacri dei civili. Era cresciuto a Casirate di Lacchiarella, lui, nel milanese. Lì aveva preso il diploma di perito, aveva conosciuto don Cesare Volonté, un collaboratore del Vispe (Volontari italiani solidarietà Paesi emergenti) e aveva deciso di partire.
«Se n’era andato in Africa – racconta la sorella Adriana – che aveva solo 20 anni. Lo vedevamo ogni 4 anni e ogni volta era ansioso di ritornare. In Burundi era felice». Un «San Francesco», dice la sorella, sempre con l’occhio ai poveri: «Non accettava in regalo nemmeno un paio di pantaloni o un abito nuovo. Indossava solo roba usata». Antonio aveva preso i voti da fratello laico: castità, obbedienza e povertà. La comunità alla quale faceva capo, «Fratelli dei poveri», benedetta dal cardinale Carlo Maria Martini, e lo stesso Vispe, gli avevano dato diversi incarichi. E le sue scelte erano diventate sempre più radicali, fino a prendere casa a Butarama, uno dei quartieri più poveri della capitale, la bidonville degli hutu, la terra di passaggio dei ribelli.
«Si occupava di tutto – dicono al Vispe –. Ma specialmente dell’assistenza ai carcerati. Distribuiva viveri e medicinali. Era riuscito a portare persino un dentista dentro le celle». Rimpianti. Ma anche rabbia. E’ Adriana, la sorella, ad accusare: «Nessuno ci ha avvertiti. Io e mia madre, le uniche due persone della famiglia rimaste, abbiamo saputo che Antonio era morto dal Tg dell’una». Al dolore si somma dolore: «Ci hanno detto che la sua salma resterà a Boujumbura, che è impossibile riaverla indietro».
E’ un po’ la prassi quando muore un missionario. Ma è difficile da spiegare a chi vive da quest’altra parte del mondo. Tenta di farlo il cardinale Martini, con un comunicato di cordoglio: la morte di Antonio Bargiggia «si aggiunge a quella di tanti altri uomini e donne generosi che hanno voluto offrire la loro vita a servizio dei più poveri: la loro morte è un monito per noi, perché non lasciamo soli questi Paesi così poveri e così spesso dimenticati». Antonio ha mantenuto la promessa. Come San Francesco, si era fatto povero tra i più poveri.
Maria Grazia Cutuli
Contrariamente alla prima notizia, registrata dalla Cutuli nella sua cronaca, il corpo di Antonio potè poi essere portato in Italia e sepolto a Dervio (Lecco). Nel 2001 la Regione Lombardia gli ha dato il “Premio annuale per la Pace”.
Autore: Luigi Accattoli
Fonte:
|
|
www.luigiaccattoli.it
|
|