Mistretta, Messina, 1630 circa - Debra Tabor, Etiopia, 25/27 marzo 1668
Il martirio di frate Francesco da Mistretta (Messina-Sicilia) è stato scoperto casualmente dopo il ritrovamento (2007) in Lombardia, a cura di un collezionista, Mariano Bascì, di una serie di cartoline postali degli anni Venti del Novecento, in cui è raffigurato il martirio del francescano, assieme al confratello Lodovico da Laurenzana (Potenza-Basilicata). Quelle immagini hanno acceso una fiamma di devozione nella città natale del francescano. Dopo vari articoli sulla stampa, Stefano Brancatelli, ora sacerdote, all’epoca seminarista e allievo di teologia presso la Pontificia Università Gregoriana, realizzò uno studio. Il 25 marzo 1668 (Domenica delle Palme) frate Francesco venne martirizzato in odium fidei, assieme al confratello.
350 anni dopo, nella stessa giornata delle Palme 25 marzo 2018, monsignor Michele Giordano, arciprete di Mistretta, ha preannunciato l'apertura della causa di beatificazione. Il 23 marzo 2018, il vescovo della Diocesi di Patti, monsignor Gugliemo Giombanco, ha istituito a tal fine una “Commisione storica” per documentare il processo di beatificazione.
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Al secolo Francesco Rubé, nasce a Mistretta (Messina) intorno agli anni trenta del 1600. Avvertito il desiderio di totale consacrazione, aderisce alla Riforma francescana dei frati della più stretta osservanza, divenendo sacerdote. Poco si conosce delle vicende in terra di Sicilia: il Notamento di tutti i frati (f. 37), datato 20 luglio 1692, non ne riporta il cognome (che ci perviene per trasmissione popolare), ma solo il soprannome, Cucco, forse attribuitogli per la propensione al pianto durante l'orazione e la celebrazione eucaristica.
All'età di 37 anni, probabilmente a seguito di un viaggio a Gerusalemme, si infervora dello spirito missionario e chiede di essere ammesso al Collegio di S. Pietro in Montorio in Urbe. Morto l'imperatore Fasiladas, di credo miafisita precalcedonense e artefice dell'espulsione dei gesuiti dal paese, il 7 dicembre 1666 Propaganda fide ricostituisce la dismessa missione in Etiopia: vi fanno parte il vicario apostolico don Antonio d'Andrade, portoghese di madre etiope, il prefetto apostolico p. Giovanni d'Aquila, i missionari apostolici p. Francesco da Mistretta, p. Ludovico da Laurenzana, p. Bernardino da San Lorenzo, p. Remigio da Parigi ed il fratello laico fra Ludovico da Benevento. Francesco da Mistretta e Ludovico da Laurenzana sono i primi a partire e gli unici a entrare in Etiopia: si imbarcano il 9 febbraio 1667 ed il 22 giugno sono a Suez, in attesa di partire per Gidda e da lì per l'Etiopia, grazie all'aiuto di due abissini che avevano incontrato in Egitto. Al Nord dell'Etiopia, nella regione annessa del Tigré, li attende una popolazione prevalentemente cattolica, ma priva di sacerdoti, guidata da un re ribelle all'imperatore. Entrati in incognito e vestiti all'abissina, uno da musico e l'altro da medico, riescono a raggiungere la meta e a permanervi per alcuni mesi, fino alla cattura e all'uccisione.
Del martirio inizialmente si ha notizia tramite la testimonianza indiretta del mercante portoghese Antonio Pereira, che, a Muchà, riferisce al frate laico Ludovico da Benevento, unico superstite della missione. Solo agli inizi del sec. XX la traduzione dalla lingua ge'ez degli Annales Yohannis I (Alaf Sagad, 1667-1682) confermerà tali voci e fornirà ulteriori notizie sul martirio in odium fidei: durante un'incursione del negus a Bēgamedr, nel distretto della regione di Dābr, denominato Muy, sono scoperti e condannati per via del credo calcedonense da loro professato; l’esecuzione è fissata per il 25 marzo 1668, domenica delle Palme, per impiccagione e lapidazione, anche se una traduzione errata di I. Guidi indica il martirio per crocifissione.
Francesco è il primo frate riformato ad accettare il 3 aprile 1666 le gravose condizioni del nuovo giuramento che consentiva a Propaganda fide di richiamare in missione ogni ex alunno in qualsiasi momento della sua vita. La formazione missionaria dell'Ordine avveniva infatti presso il "Collegio in Urbe di San Pietro in Montorio" sorto nel 1622 quale "studio di lingua araba e delle controversie". La gestione del Collegio, inizialmente affidata al guardiano di Gerusalemme fra Tommaso Obicini da Novara, dal 1626 era passata dagli osservanti ai riformati, seguendo così la sorte dei principali conventi dell'Ordine e della stessa custodia di Terra Santa nel 1628. Nonostante che dal 1647 venisse esteso a tutto l'orbe e non solo all'Italia, il Collegio stentava a decollare: a dare il colpo di grazia era stata la decisione di Propaganda fide di pretendere dagli alunni, dopo tre mesi dall'ingresso, il giuramento di cui si è detto.
Nel 1666 il Collegio è di fatto non funzionante, non essendo più presente in esso alcun alunno: le carte d'archivio testimoniano l'ansiosa trepidazione del commissario generale della famiglia cismontana dell'Ordine, fra Bonaventura Cavallo, riguardo all'opportunità che fra Francesco giunga presto a Roma per evitarne la chiusura. Dopo di lui il numero degli iscritti inizia a rimpinguarsi (per la presenza anche di diversi siciliani) ed il Collegio riacquista un certo prestigio; ciò avviene anche grazie all'esempio di fra Francesco, posto a modello per la comunità degli allievi missionari: diffusasi la notizia del martirio, i loro nomi sono i primi della lista di alunni del 1671 (APF, Collegi vari, v. 60 125r), con la sottolineatura che erano stati lapidati in Etiopia, mentre la Nota degli studenti del maggio 1674 li definisce martirizzati (cfr. ibidem, 112r). Nel 1684, a Mistretta, sono commissionate delle immagini del martirio eseguite a Venezia da Andrea de Rossi e le sembianze dei frati vengono raffigurate in affreschi di diversi chiostri dell'Ordine; tre secoli dopo, nel 1937, il regime fascista, impegnato nelle tristi repressioni abissine, ne strumentalizzerà il martirio, raffigurandoli crocifissi, in una cartolina celebrativa delle missioni etiopiche del presente e del passato.
Il Leggendario francescano del 1722 riporta la commemorazione liturgica del martirio dei due frati al 6 di settembre. Importante è anche l'esperienza missionaria di fra Francesco da Mistretta e dei compagni all'interno della storia delle missioni: essa ben rappresenta il tentativo del pontificato Chigi (1655-1667) di fare una "missione altra" rispetto al passato, svincolandosi dall'ottica di padroado, caratterizzato dalla dipendenza dalle Corone europee, per ritrovare fuori Europa quella centralità diplomatica oramai persa in Occidente dopo la pace di Westfalia (1648). Dal punto di vista politico, la missione fu in tal senso fallimentare: l'ostruzionismo della Francia e di altri Ordini religiosi, così come la pervicace avversione xenofoba etiope a causa dei pluriennali disgusti determinati dalle latinizzazioni imposte durante la precedente colonizzazione portoghese, non consentì il fiorire di tale esperienza, destinata a riportare nell'alveo della protezione delle Corone i successivi tentativi di penetrazione.
Relativamente agli scritti, di Francesco da Mistretta possediamo solamente, oltre al giuramento e alla supplica di poter partire missionario in Etiopia, nove lettere vergate di suo pugno e inviate al segretario ed al prefetto di Propaganda fide, mons. Casanate e card. Barberini, dal 13 febbraio al 22 giugno 1667. Lo scarno epistolario di fra Francesco, pur nella sobrietà dettata dal fine primario di relazionare circa il viaggio, consente, oltre che a ricostruire le vicende storiche, anche di gettare qualche luce sulla spiritualità seicentesca di un piccolo fraticello siciliano che, armato solo della fede e di poca santa ingenuità, incurante dei pericoli che lo attendono nella missione e dimentico delle fatiche e dei ritardi del viaggio «con trovare ogni cosa offerta più del bisogno» (APF, SOCG, v. 251 f. 219r), nelle sue lettere osa definirsi figlio di un Dio che lo «porta come una madre nelle sue braccia» (ibidem, 220r).
Autore: Padre Stefano Brancatelli
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