La biografia della Serva di Dio suor Maria Troncatti si presenta connotata da una forte impronta di missionarietà, che è ardore di spirito nella prima parte (fino a trentanove anni), poi realtà vissuta in totale donazione nella seconda parte, fino alla morte all’età di ottantasei anni. Maria Troncatti nasce il 16 febbraio 1883 a Còrteno Golgi, piccolo centro in provincia di Brescia a 1000 metri di altitudine nella suggestiva cornice della Val Camonica, fra l’Adamello e il Col d’Aprica. La sua famiglia, numerosa ma più volte provata dalla mortalità infantile (Maria è la seconda dei sei superstiti, dopo la morte di altri otto) vive serena e laboriosa nella casa in paese, dividendosi secondo le stagioni fra il gregge di capre e il terreno all’alpe. Cresimata all’età di tre anni, Maria si accosterà alla mensa eucaristica appena compiuti i sei anni, grazie all’intervento della maestra la quale garantisce della preparazione e della consapevolezza cristiana di questa sua alunna, la più piccina nel gruppo dei comunicandi delle varie classi elementari. L’insegnante ha colto infatti l’intelligenza aperta e vivace di Maria, e di lei si prenderà particolare cura per condurla a completare il corso elementare, dato che la scuola in paese non dispone che delle prime quattro classi. Il primo incontro con il Pane di vita costituisce per la bimba un momento determinante, grazie a una indefinibile attrattiva che il suo animo percepisce, quasi per un istinto spirituale: si abitua ben presto alla frequenza quotidiana alla Messa, e gode di poter ricevere la comunione tre volte alla settimana, quanto all’epoca è consentito. Nella sua vita di fanciulla, oltre all’esempio di sana religiosità dei genitori e le cure del Parroco, esercita un’influenza notevole la sorella Catterina, di quattro anni maggiore, che le sarà amica, confidente e “complice” specialmente nell’orientamento della sua adolescenza. Vivace e giocherellona, Maria gode anche di una particolare tenera simpatia del papà, Giacomo, che ama definirla affettuosamente el me car taramòt (= il mio caro terremoto). Anche le sorelle la ricorderanno, a distanza di anni, come “una ragazza piuttosto mattacchiona”, che aveva però sensibilità e premure verso i poveri e per chiunque fosse bisognoso di aiuto. In famiglia, insomma, Maria “occupa un posto”, anche per quell’arte tutta sua di raccontare, con trasporto e partecipazione, quando riferisce nella cerchia dei familiari o fra i compagni di gioco le letture cha la maestra le propone per integrare il programma scolastico. Fra queste il Bollettino salesiano, che riporta corrispondenze e narrazioni dalle terre di missione, oltre alle notizie delle opere della Società salesiana in varie parti del mondo. La vita dei missionari affascina la fervida immaginazione di Maria, che si sente conquistata da quell’ansia di “portare Dio” a chi non lo conosce ancora. Altra componente della crescita spirituale di Maria Troncatti è senza dubbio la vita parrocchiale, con l’assidua frequenza al catechismo che la apre alla percezione dell’amore paterno di Dio e genera in lei atteggiamenti di amore fiducioso e rassicurante. Quando Maria è sui quattordici anni, il Parroco fonda l’Associazione delle Figlie di Maria, a cui lei aderisce non appena scoccati i quindici anni, con la sua carica di entusiasmo e la sua vivacità di iniziativa. Non la spaventa lo Statuto esigente, né la severità del Parroco, che non esita a cancellare pubblicamente dall’albo le socie che non osservano il Regolamento. È in quest’epoca che si definisce nel cuore di Maria un’inclinazione al dono di sé nella consacrazione totale a Dio. Ma dovrà attendere la maggiore età – ventun anni allora – per chiedere di essere accolta in prova nell’Istituto, sapendo che il padre non è troppo propenso a questa scelta, e che solo per merito della paziente opera di convinzione del Parroco si disporrà ad accettarla, sia pure con grande sofferenza.
L’addio di Maria alla famiglia avviene il 15 ottobre 1905 in un clima che – ricordano i parenti – “sa di funerale”: il padre sviene per il dolore della separazione quando Maria ha appena varcato la soglia di casa. Ma lei non “volge indietro lo sguardo” per timore di non ritrovare la forza di compiere quel passo. Sarà anche nel ricordo di quel penoso momento che suor Maria, ormai missionaria e avanti negli anni, neanche a distanza di tempo accetterà mai alcuna proposta di rimpatrio, nonostante gli inviti dei numerosi nipoti che non la conoscono se non per lettera. Altrettanto “faticoso” sarà per suor Maria il primo periodo formativo, il postulato in preparazione al noviziato, e il noviziato stesso. La sua salute, che evidentemente risente di un prolungato sforzo di adattamento, presenta problemi durante il noviziato e propone incertezze alle Superiore nel momento di decidere sul futuro. Non alla novizia, che ora “sa” con certezza essere questa la strada su cui la vuole il Signore. Nella comunità sono in molte, Superiore e consorelle, ad apprezzare in lei la “osservanza amorosa e il fedele adempimento di ogni pur minimo dovere”. La maestra propone questa novizia come esempio alle altre novizie per il suo intenso amore a Dio, che si esprime quotidianamente nelle opere. Suor Maria è perciò ammessa alla professione “sotto condizione” e il 17 settembre 1908 emette i primi voti per un anno: un anno di prova. Ma sarà ancora un anno di prove: fra l’altro un’infezione da patereccio, ribelle alle cure, porta il medico a sentenziare che l’amputazione di un dito sarà inevitabile. Suor Maria non si allarma: sopporta medicazioni trafiggenti e dolorosi andirivieni, totalmente abbandonata in Dio. Guarisce finalmente, ma sopravviene a breve distanza una febbre tifoide che preoccupa seriamente. In una visita all’infermeria della Casa madre di Nizza Monferrato il Superiore generale salesiano don Michele Rua (oggi Beato) le imparte la benedizione e le “predice” una vita laboriosa fino ad età avanzata, operando un gran bene.
Appena ripresa, una provvidenziale cura marina a Varazze, in Liguria, ridona alla provata suor Maria energie e salute. Sarà questa la sede del suo apostolato per una decina di anni. La giovane suora si occupa in varie mansioni della casa: ama la vita di sacrificio e cresce nell’anelito di donazione. Scrive: “Tenere presente Dio in tutto... Abbiamo Dio vicino. Parliamo quindi con lui per mezzo di giaculatorie e con l’obbedienza esatta”. Nell’imminenza della prima guerra mondiale (1915-18) suor Maria è mandata a frequentare un corso speciale per infermiere e crocerossine, e più tardi a svolgere opera di assistenza e conforto ai feriti giunti dal fronte: giovani esistenze dilaniate, ragazzi nel pieno della giovinezza morenti fra lo strazio dei familiari accorsi. Sono mesi di penosa condivisione quotidiana, di conforto e catechesi personalizzata. Suor Maria si sente vibrare nell’anima tutto quel soffrire e matura in sé una maternità nuova, capace di prodigarsi per lenire e medicare, redimere e salvare. In questo periodo suor Maria sperimenta anche la protezione speciale della Madonna nel “miracoloso” salvataggio ottenuto in occasione di un’alluvione che colpisce gravemente la città di Varazze (25 giugno 1915). L’acqua travolge improvvisamente il muro di cinta del collegio e inonda la casa: Suor Maria e un’altra consorella, giunte dall’ospedale nel primo pomeriggio, si sentono ormai perse, appoggiate su un tavolo che un mulinello d’acqua avvolge in spire vorticose. Invocano la Madonna: “Mostra te esse matrem” ... Suor Maria ripete il suo proposito: devo essere missionaria. Improvvisamente la pazza danza del tavolo, sospinto da un’ondata di riflusso, sbatte le due naufraghe verso la finestra e consente loro di aggrapparsi – senza sapere come – alla persiana e quindi alla ringhiera del piano superiore. Al termine della guerra suor Maria è inviata per un anno a Genova, nell’Istituto che accoglie gli orfani della guerra. Il suo cuore delicato si affina ancor più nel contatto con la sofferenza innocente.
Nell’anno seguente – 1919-20 – suor Maria è a Nizza, nella Casa madre dell’Istituto, dove ancora una volta le consorelle e le educande hanno modo di apprezzare i “tesori nascosti” del suo cuore umile e tutto donato, nelle ordinarie azioni quotidiane sempre decisamente orientate a “Dio solo”. Infermiera, assistente, aiutante nell’oratorio, pronta sempre a supplire negli immancabili “imprevisti” che d’altra parte sono sempre da prevedere in un grande istituto, con molte educande a tempo pieno, la scuola, ecc. Intanto suor Maria, che ha espresso la sua disponibilità a partire per le missioni – sognava i lebbrosi – incontra la Madre generale che le comunica la sua destinazione: andrà in Ecuador. A trentanove anni si avvera il suo sogno. La sua partenza, come quella di altre sorelle per varie destinazioni, rappresenta il coronamento delle grandiose celebrazioni giubilari per il 50° di fondazione dell’Istituto (1872- 1922) che hanno richiamato a Nizza, in coincidenza con l’ottavo Capitolo generale, numerose rappresentanze di suore, di ex allieve e di Cooperatori salesiani. Suor Maria, con altre due consorelle giovanissime, parte il 9 novembre 1922: in treno fino a Marsiglia, poi in bastimento per ventidue giorni di navigazione fino a Panamà, quindi a Guayaquil dove il piccolo drappello trascorre con quella comunità il mese di dicembre, fino al Natale. I prossimi quarantasette anni di suor Maria sono anni di “missione” nel pieno senso del termine,1 con una sola parentesi in cui è chiamata a dirigere un’opera assistenziale, Beneficencia de las señoras a Guayaquil: una casa troppo grande, pure non essendo “casa da signori”, per lei ormai abituata alla selva. Suor Maria vi opera per circa quattro anni (1934-38) con la consueta generosità di donazione, ma – confessa – “il suo cuore è sempre alla missione”.
Quali i “luoghi del cuore” di suor Maria? Dapprima Chunchi, una cittadina della Cordigliera Andina abitata in prevalenza da indios. Qui suor Maria, nominata “sul campo” direttrice, inizia la sua attività di medica, o madre fisica, come la chiamano gli indi, improvvisando un ambulatorio e un piccolo spaccio farmaceutico detto botiquín. Disponibile e accogliente sempre, cura i corpi e si interessa delle anime. La chiamano anche di molto lontano a medicare, ad assistere moribondi: anche un assassino, che vuole essere preparato a confessarsi, a ben morire; e vuole suor Maria accanto fino alla fine, convinto che la sua presenza impedisca al demonio di mettergli in cuore la disperazione. Suor Maria scrive ai familiari: “Se vedeste come mi vogliono bene! Quando mi vedono salire a cavallo mi raccomandano: ‘Madrecita, torna presto’”. Se la vedono partire per l’interno della selva, quando vi è chiamata per curare infermi, gli indi si sciolgono in un pianto sconsolato, convinti che vada a farsi mangiare viva dai jivaros! (la gente shuar, abitante della selva amazzonica). Viene il 1925. Suor Maria, con il suo piccolo drappello, è ormai avviata al grande “lancio” verso la selva amazzonica attraverso bosco, sottobosco, intrichi di liane e fiumi da guadare. La vera e propria traversata, con la scorta di alcuni portatori per i bagagli e i cavalli, si conclude a Pailas, ad una altitudine di 3000 metri, a cavallo per picchi inaccessibili e abissi vertiginosi, in un silenzio rotto solo da sibili sinistri di uccelli e indecifrabili fruscii nel fitto del bosco. Di qui in poi i missionari proseguono senza accompagnatori, per un misero sentiero che pure testimonia del coraggio dei primi evangelizzatori; il cammino si fa sempre più scosceso, sdrucciolevole e fangoso per la pioggia, con soste notturne sulla nuda terra e l’unico riparo di una tettoia di frasche. Quando finalmente, dopo lunghe traversie nella misteriosa solennità della selva, dopo la fortunosa traversata del fiume Paute, si giunge nei pressi della missione di Méndez, ad attendere le povere missionarie c’è tutt’altro che una sosta riposante. Un gruppo di chivari armati di frecce, lance e coltellacci presidia l’ingresso della missione e pone precise condizioni per un salvacondotto di entrata: i missionari dovranno guarire una adolescente, figlia del capo, che giorni addietro fu ferita accidentalmente in uno scontro a fuoco fra gruppi rivali. Lo stregone – il brujo – non ha potuto guarirla e la ferita al petto sta andando ormai in suppurazione. L’aut-aut è chiaro: se tu non la guarisci – dicono i maggiorenti alla doctora suor Maria – ti uccidiamo insieme con gli altri; se la guarisci vi facciamo entrare tutti. L’alternativa posta non lascia spazi discrezionali. Con le precauzioni asettiche possibili e con mezzi di fortuna (un temperino tascabile sterilizzato alla fiamma, mentre il gruppetto dei missionari sta raccolto in preghiera), suor Maria incide l’ascesso e la pallottola salta fuori come sospinta da energica invisibile mano. Gioia grande per i chivari, che mandano “in onda” per la selva l’annuncio: “È arrivata una donna bianca, più stregona di tutti gli stregoni. Via libera a lei e a tutti gli accompagnatori”. Quattro giorni ancora di cammino – con guadi, ponticelli di liane e bambù – poi costeggiando l’imponente fiume Upano giungono alla collina sagrada di Macas, dove i Padri domenicani in tempi passati avevano improvvisato costruzioni, ormai cadenti, per l’abitazione dei missionari, per la chiesetta e la scuola. In questo, che è il centro più importante del Vicariato di Méndez, si era stabilita nel 1924 la residenza missionaria salesiana, intorno all’antica immagine della Madonna, la Purísima, la cui origine risale ad almeno tre secoli prima. Sarà intorno a questo “centro” che d’ora in poi si impernierà l’esistenza di suor Maria. Diventerà per lei cara abitudine ricorrere a questa madre tenera e sempre vigile nelle ore difficili e nelle situazioni più preoccupanti. A lei consegnerà l’epilogo della propria vita in dono sublime di carità dopo un’esperienza spirituale profonda e vivida di luce ultraterrena. Il 4 dicembre 1925 la festa della “Purissima” celebra dunque fra i fedeli anche l’arrivo delle missionarie.
Ben presto l’attività di suor Maria si spinge oltre il fiume Upano (orrore delle traversate settimanali per quella che fu la paurosa Maria dell’Aprica!), dove fiorì l’antica Sevilla de Oro: qui sorgerà più tardi la missione di Sevilla don Bosco. Le cure mediche e l’annuncio del Vangelo conquistano gradatamente la popolazione shuar; ma non tardano a manifestarsi i primi indizi di insofferenza da parte di alcuni coloni, che temono di vedere compromessa la propria autorità (cioè il proprio ascendente di “padroni”) sulla gente shuar, che l’ignoranza tiene loro soggetta. Viene diffusa, ad arte, la voce che i missionari ordirebbero inganni ai danni dei giovani chivari, che dicono di voler educare. Nel generale sconforto che invade la missione suor Maria non si lascia accasciare: va di casa in casa, a Macas, a “parlare col cuore” e con incontenibili lacrime di sincera amarezza, tanto che chi aveva fatto il male sente di dover riparare. Intanto nel 1930 per la prima volta a Macas si celebra un matrimonio cristiano di due giovani shuar, per scelta propria e libera, non più predeterminata dal contratto delle famiglie. Ma sotto la cenere covano le braci e ne sprigionano nuove scintille. La antica legge della vendetta, tutt’altro che sopita, esplode in un incendio doloso che incenerisce la missione (1938) ma non cancella l’opera del vangelo. La faticosa ricostruzione impone ai missionari nuove più gravi privazioni, vita di povertà estrema e di fame, mentre incrementa la comunione degli spiriti nella quotidiana donazione apostolica. Per suor Maria c’è l’aggravio dell’emergenza sanitaria: dopo un’epidemia di vaiolo nero che nel 1933 aveva mietuto vittime, nella valle dell’Upano nuove epidemie richiedono superlavoro, portano dolori e lutti (1940). Sopravviene una forma grave di morbillo con esiti mortali per i chivari, che impone a suor Maria un’assistenza prolungata in un villaggio (l’anejo Generai Proaño) in quasi totale isolamento per alcuni mesi. Nel 1944 si stabilisce oltre 1’Upano la sede missionaria di Sevilla don Bosco, e suor Maria vi trasferisce l’internato di Macas. Anche qui saranno presto celebrati i primi matrimoni cristiani. Ma anche qui le epidemie – gravissimo il vaiolo – non risparmiano i poveri chivaretti e la doctora si moltiplica fra ammalati e convalescenti, e non mancano nuove piccole bare da inumare (1945). Ormai a Sevilla la vita si è organizzata stabilmente e la nuova “città” conta ora una trentina di casette abitate da famiglie completamente cristiane, con annesso orticello, coltivazione di yuca, di mais ed anche fiori; si tenta perfino di coltivare il riso. Poi tutto questo deve essere lasciato per rivolgersi a Sucúa, in una “valle di incantevole bellezza” (tale suor Maria è lieta di poterla descrivere nelle sue lettere alla famiglia), aperta e luminosa, fra il fiume Upano e il Tutanangoza. È il 1947. Già da un decennio i missionari e le missionarie vi si recano periodicamente: coloni e shuar sono contenti che “si insegni loro a pregare”. Ora si tratta di costituirvi stabilmente una comunità, per approfondire l’opera di evangelizzazione con una scuola e un internato, oltre all’immancabile ambulatorio cui fanno capo ammalati e bisognosi dalle chivarìe dei dintorni, dai monti in cui non esistono comunicazioni di sorta e solo il cavallo e il mulo consentono di superare le difficoltà del terreno. Le fatiche dei missionari, che da anni dissodano ed arano quel campo, incominciano a dare frutti. Vi si celebrano i primi matrimoni cristiani e più tardi anche l’isolamento della verde vallata viene superato con l’inaugurazione del primo campo di aviazione nella selva, per il servizio missionario (agosto 1948). All’età di settanta anni compiuti, nel 1954 suor Maria ha la gioia di vedere in funzione l’ospedale, eretto in muratura (finora si viveva in casette di legno con tetto di paglia), lieta di potervi accogliere i pazienti e, grazie alla degenza, curare con i mali fisici anche quelli dell’anima. Le epidemie, però, non le lasciano tregua: morbillo nel borgo M. Mazzarello (1955), vaiolo nella valle dell’Upano (1959). Vi periscono i giovani dell’internato e sono nuovi dolori per il suo animo sensibile. La vita di suor Maria continua ad essere strettamente legata alle vicende tristi o liete delle missioni. Per garantire una maggiore efficienza dell’ospedale organizza per le giovani che vi hanno disposizione corsi di infermieristica; per le altre corsi di cucito, di igiene, puericultura, di culinaria; e corsi di preparazione al matrimonio (1960-62). Sua preoccupazione di sempre è la formazione e promozione della donna, che vede nella cultura shuar spesso penalizzata nella dipendenza da mariti-padroni, oppure sfruttata per le più faticose attività lavorative, senza riguardo alle sue incombenze di maternità e di cura dei figli. Anche quando, dopo il compimento degli ottanta anni, lascia la effettiva direzione dell’Ospedale, continua in altro modo la sua attività di madrecita o abuelita buena ascoltando, consigliando e confortando persone di ogni categoria e di ogni età e condizione, giovani volontari della Operazione Mato Grosso.
E quando, nel 1969, si svolge la “Settimana del cooperativismo agricolo” (28 giugno – 4 luglio) avverte con tristezza le prime avvisaglie, e poi le aperte minacce contro la missione e i missionari più attivi in tal senso. Il clima intimidatorio si concretizza, appunto il 4 luglio, in un vorace incendio che in una sola notte distrugge anni di fatiche nella missione di Sucúa. Suor Maria ne soffre nel profondo; sente che a tanta offensiva del male occorre rispondere con un’offensiva di intensa carità. Prega e scongiura i dirigenti della Federazione a bandire ogni ipotesi di vendetta, e anzi a placare gli animi focosi della gente: si sarebbe offerta lei stessa vittima per la pacificazione. Parole che aveva già pronunciato quando i primi segnali di “avvertimento” avevano allarmato la missione. “Il bene della pace – diceva – e della vita di un sacerdote vale assai più della vita mia”. E in altre occasioni, dopo l’incendio, le consorelle la sentono affermare convinta che “queste due razze non troveranno riconciliazione se non ci sarà una vittima disposta ad immolarsi per loro”. Il 5 agosto suor Maria partecipa con vero gaudio spirituale alla fiesta jurada della Vergine Purissima di Macas, e assiste all’ordinazione sacerdotale di due diaconi particolarmente legati alla missione. Poi, in un momento di intimità, confida segretamente alla consorella suor Pierina Rusconi – impegnandola a non rivelare nulla se non a cose avvenute –: “La Purísima mi ha detto di prepararmi, perché presto qualcosa di grave mi accadrà”. Passano soltanto venti giorni. Il 25 di agosto, nel congedarsi dalla comunità per recarsi a Quito agli esercizi spirituali, fissando intensamente le suore ancora sconvolte le rassicura con accenti di una strana certezza: “Presto, molto presto tornerà la pace e la tranquillità. Io ve lo assicuro!”. Giunge alla pista di volo quando il piccolo aereo, adibito al trasporto di merci e persone, ha già i motori accesi. Si accomiata rapidamente da chi l’ha accompagnata e sale a bordo. È il decollo della morte. Pochi secondi più tardi si ode uno schianto, mentre le sirene della torre di controllo annunciano la caduta del piccolo aereo. L’offerta della vittima si è compiuta. Da allora il pianto di tutti – coloni, shuar, persone di ogni ceto – si fonde in un unico comune dolore e in una sola espressione di rimpianto: “È morta una santa... Non c’è più la nostra mamita!”. Il giorno 8 novembre 2008 è stato pubblicato il Decreto sull’eroicità delle virtù di questa esemplare missionaria della pace e della vita. Il 24 novembre 2012 è dichiarata Beata a Macas in Ecuador.
Autore: Suor Giuliana Accornero FMA
Note:
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