Già a 19 anni lo accusano di “atteggiamento ribelle”: benché seminarista, gli hanno fatto il militare con lo scopo di “fargli cambiare idea”, ma nonostante il continuo lavaggio del cervello non sono riusciti a piegare quel ragazzo, taciturno e serio, che fin da ragazzo vuole farsi prete e che non ha cambiato idea neppure dopo le angherie e le pressioni subite sotto naia. Nato in Polonia nel 1947, viene ordinato prete nel 1972 dal card. Wyszyński e sembra quasi un segno del destino, visto che tra un po’ saranno entrambi alla gloria degli altari. Per alcuni anni vaga da una parrocchia all’altra di Varsavia, con incarichi temporanei che tuttavia “lasciano il segno”, soprattutto tra gli universitari: sembra che quel prete, timido e di poche parole, con una salute vacillante che lo limita anche nel ministero, si riscaldi improvvisamente e si trasformi quando si trova a contatto con giovani e poveri, con cui riesce a stabilire subito un filo diretto. Nel giugno 1980 viene assegnato come sacerdote residente alla parrocchia di san Stanislao Kostka, sul cui territorio si trova la grande acciaieria “Huta Warszawa”. Il 28 agosto il primate di Polonia gli chiede di andare dagli operai in sciopero che chiedono un sacerdote per la Messa: diventa così il cappellano di Solidarnosc della Huta. Oltre al lavoro parrocchiale si trova dunque a lavorare tra gli operai organizzando conferenze, incontri di preghiera, assistendo ammalati, poveri, perseguitati. Insieme al suo parroco inizia a celebrare ogni mese una Messa per la patria, che raccoglie migliaia di persone: operai, intellettuali, artisti e anche persone lontane dalla fede. È questo suo andare “verso le periferie” ed il suo trasformarsi in “ponte” con tutte le categorie di persone a far crescere il sospetto delle autorità nei suoi confronti. Minacce più o meno velate al suo indirizzo, addirittura un esplosivo gettatogli in camera, obbligano gli operai a procurargli una spontanea e volontaria scorta che lo accompagna nei suoi vari spostamenti. Padre Jerzy sa benissimo di essere spiato in ogni movimento ed in ogni suo discorso: agenti segreti si celano tra quanti ascoltano le sue prediche e addirittura tra i suoi più stretti collaboratori: un sacerdote e quattro laici a lui molto vicini risulteranno essere informatori della polizia. Eppure non una sua sola parola, e neppure un suo gesto, risulteranno incitazione alla violenza: nelle sue omelie si limita a chiedere il ripristino delle libertà civili e di Solidarnosc. “Poiché ci è stata tolta la libertà di parola, ascoltiamo la voce del nostro cuore e della nostra coscienza a vivere nella verità dei figli di Dio, non nella menzogna imposta dal regime”, ripete senza stancarsi. E non conclude mai le “Messe per la patria” senza chiedere ai fedeli di pregare “per coloro che sono venuti qui per dovere professionale”, mettendo così in imbarazzo gli spioni del servizio di sicurezza che stanno registrando le sue parole. Temuto dalle autorità per l’ascendente che esercita sul popolo, viene arrestato due volte nel 1983 e nella prima metà del 1984, interrogato tredici volte dalla polizia, sottoposto a continua sorveglianza, al punto che il cardinale Glemp gli propone di “cambiare aria” e di trasferirsi per studio a Roma. Si rifiuta, pur sapendo a cosa sta andando incontro e malgrado un incidente stradale, organizzato per farlo fuori, dal quale esce fortunosamente incolume. Durante l’ultima celebrazione religiosa del 19 ottobre 1984 invita a “chiedere di essere liberi dalla paura, dal terrore, ma soprattutto dal desiderio di vendetta. Dobbiamo vincere il male con il bene e mantenere intatta la nostra dignità di uomini, per questo non possiamo fare uso della violenza”. Alcune ore dopo viene sequestrato da tre ufficiali del servizio di sicurezza: lo ritroveranno “incaprettato”, il successivo 30 ottobre nel lago di Wloclawek e scopriranno che gli hanno maciullato la mandibola e sfondato il cranio a manganellate. “Infondeva coraggio ai fedeli, non sobillava rivoluzioni”, afferma il vescovo di Varsavia, riconoscendo che non ha “mai oltrepassato le sue competenze di sacerdote e neppure ridotto la Chiesa e il suo messaggio a strumento di lotta politica”. La gente lo aveva già capito da un pezzo: sia il mezzo milione di persone che hanno partecipato al suo funerale, sia i 18 milioni che in questi anni sono sfilate davanti alla sua tomba. Ora anche la Chiesa lo ha riconosciuto ufficialmente, proclamando beato Padre Jerzy Popiełuszko nel 2010, alla presenza della sua anziana mamma.
Autore: Gianpiero Pettiti
Era nato il 23 settembre 1947, a Okopy, un piccolo villaggio tra le città di Augustow e Bialystok, lungo la strada che attraversava i prati acquitrinosi dell’ampia vallata del Narew, in Polonia ai confini con l’allora Unione Sovietica. Il suo nome “Okopy”, significa trincea. Era abitato da famiglie di umili contadini, dalle mani ruvide e dal cuore ardente. In una di queste famiglie, quella di Vladislaw e di Marianna, quel giorno nasceva Jerzy Popielusko, un bambino fragile, dagli occhi dolci.
Il servo di Cristo
Papà e mamma danno a Jerzy e agli altri tre figli una forte educazione cristiana: Gesù da amare come Maria Santissima, sua e nostra Madre, lo ha amato; ogni scelta di vita come un sì a Dio, totale; lo spirito di sacrificio nelle asprezze della vita che non mancano mai, sostenuto dal Rosario alla Madonna. Jerzy era un ragazzo sereno e felice. Come tanti giovani della Polonia, amava la Madonna e scrutava quali fossero per lui i disegni di Dio. Frequentò la scuola a Suchowola, una località presso Okopy. Una giovinezza intessuta di studi, di lavoro nei campi, di preghiera, di discussioni appassionate con gli amici, con lo sguardo attento agli avvenimenti della sua patria, oppressa dai comunisti di Stalin, eppure così libera in Cristo. In casa, da bambino, aveva sentito parlare del loro Primate, l’Arcivescovo di Varsavia, cardinale Stefano Wyszynski, che mai nessuno aveva fatto tacere, innamorato di Cristo e di Maria, Madre della Polonia martire. Lo sapeva, Jerzy ventenne, che soltanto Gesù, sua Madre e la Chiesa Cattolica, meritano fiducia e dedizione.
A vent’anni, lo chiamarono a prestare servizio militare. Dovunque, ma ancora più sotto i comunisti, è un’esperienza delle più dure. Non era facile, tuttavia, piegare alla volontà altrui un giovane come Jerzy. Nella caserma di Bartoszyce si distinse per il coraggio della sua fede e della sua testimonianza. Un giorno, un ufficiale lo vide con il rosario tra le mani, mentre pregava la Madonna. Lo derise, lo rimproverò, lo minacciò: «Buttalo a terra e calpestalo. Se non schiaccerai quello strumento, io schiaccerò te». Jerzy si rifiutò. Fu percosso duramente e rinchiuso per un mese in cella di punizione. Non si piegò, anzi la sua fede, come quella dei suoi amici cattolici – molti erano seminaristi –, né uscì più ardente, più gagliarda.
Già, nel 1965, era entrato nel seminario di Varsavia, quando da noi, nell’Occidente libero e assetato spesso solo di piacere, i seminari cominciavano a svuotarsi (oggi sono vuoti), i martiri dell’Est Europa continuavano a testimoniare Cristo, e i giovani di quelle terre oppresse dal comunismo numerosi salivano l’altare come sacerdoti di Cristo! Nel 1972, don Jerzy Popielusko, con il cuore in festa, era consacrato sacerdote dal cardinal Wynszynski. Da quel giorno, 28 maggio 1972, non ebbe altro sogno che quello di identificarsi con Gesù Sacerdote per la gloria di Dio e la salvezza dei fratelli.
Fu destinato alla parrocchia di Zabki, un quartiere periferico di Varsavia, poi alla parrocchia del Bambino Gesù di Zoliborz, dove un giorno era passato anche san Stanislao Kostka; poi ancora alla parrocchia universitaria di Sant’Anna. Infine don Jerzy si ammalò. Dopo una lunga degenza all’ospedale, il cardinal Wyszynski lo destinava alla pastorale degli ospedali nella sua arcidiocesi. Fragile nel fisico, don Jerzy non si arrendeva mai: sempre sulla breccia, mobilitato da Gesù, sempre con una nuova iniziativa di evangelizzazione e di carità. Sentiva ciò che noi spesso non sentiamo più: di dover moltiplicare talenti ed energie per portare Gesù ai fratelli, a questo povero mondo.
Nello stesso tempo, lavorava a Varsavia, nella parrocchia di San Stanislao: né parroco né viceparroco, aiutava nelle Confessioni, nelle omelie, visitava i malati. Era a suo agio con tutti e sapeva mettere a proprio agio tutti. Studiava, pregava, parlava con tutti, sempre attento ai fatti della sua terra, della Chiesa, in Polonia e nel mondo.
Il 16 ottobre 1978, festa di santa Edvige, regina della Polonia, mentre il sole tramontava, una notizia folgorante giunse a Varsavia: il cardinal Karol Wojtyla, arcivescovo di Cracovia, era stato eletto papa, con il nome di Giovanni Paolo II: “Jan Pawel”! Il 22 ottobre, domenica piena di sole, il giovane Pontefice aveva gridato al mondo: «Aprite, anzi spalancate le porte a Cristo! Permettete a Cristo di parlare all’uomo. Lui solo ha parole di vita, sì, di vita eterna!».
Per don Jerzy era l’inizio di una più intensa dedizione a Gesù e alla sua Chiesa. Ora dove lo voleva Dio? Dove lo mandava Maria, la Regina della Polonia fedele?
Il testimone di Cristo
E venne l’estate di Solidarnosc. Agosto 1980. A Danzica, a Stettino, a Huta Warszawa, gli operai delle officine incrociarono le braccia davanti ai dirigenti comunisti per rivendicare la loro dignità, la dignità dell’uomo calpestata nelle loro esistenze. Gli operai di Huta Warszawa chiesero un prete che stesse in fabbrica con loro. Il cardinal Wyszynski mandò don Jerzy. Aveva solo 33 anni, ma era un capo. In mezzo agli operai celebrava la Messa, li confessava, li ascoltava, calmava e indirizzava gli animi, era un vero padre.
Noi, gente dell’Occidente, abbiamo visto con stupore quegli operai in sciopero, raccolti attorno ai loro preti in preghiera, in ginocchio a confessare i loro peccati, stretti intorno al crocifisso, appeso ai cancelli dei cantieri di Lenin! Era una nuova “rivoluzione proletaria” – quella vera – che rifiutava il comunismo ateo e oppressore dell’uomo, perché essa scaturiva dal Cuore del “divino Operaio” di Nazareth, Gesù, Liberatore unico dell’uomo dal peccato e dalla morte e Datore della vita divina, la vera Vita.
Era difficile la missione di don Jerzy tra gli operai in quel momento storico, ma egli non si arrese, neppure dopo il 13 dicembre 1981, giorno del “colpo di stato” del generale Jaruzelski, quando la Polonia sembrò precipitare di nuovo nel più cupo inverno, per causa di coloro che a parole sono il partito operaio, ma in pratica sparano con i fucili alla schiena degli operai, come avvenne proprio in Polonia nel dicembre 1970! Ma è nell’ora difficile che la testimonianza non solo è possibile, ma è più splendida: essa è martirio e al martirio spesso conduce. Così aveva insegnato Gesù.
Nel febbraio 1982, nella parrocchia di San Stanislao, toccò a don Jerzy continuare la celebrazione della Messa mensile “per la patria”, alla quale prese a partecipare presto tanta gente. I primi furono gli operai di Huta Warszawa, poi non si poté più dire da dove venisse tanta gente. Don Jerzy parlava chiaro: «Tutto ciò che è grande e bello nasce dalla sofferenza, dal dolore, dalle lacrime e dal sangue del 1970 [anno dell’insurrezione di dicembre, repressa dai comunisti con numerosi morti], è sorto un nuovo impeto patriottico» (giugno 1982). «Il fondamento della nostra servitù sta nel fatto che accettiamo ancora il dominio della menzogna, che non la smascheriamo e non protestiamo ogni giorno contro di essa. Il coraggio di testimoniare la Verità è la via maestra che conduce alla libertà» (ottobre 1982).
Ci furono delle provocazioni. Si tentò di trasformare le riunioni di preghiera in manifestazioni politiche. Non riuscirono. Una parola di don Jerzy bastava. Un giorno una mano cattiva buttò un sasso nella camera di don Jerzy: da qual momento gli operai si prestarono a fargli da guardie del corpo. Nel 1983 si tentò di incarcerarlo, ma non ci riuscirono, tutto era limpido in lui.
Che cosa diceva don Jerzy? Parlava di Dio, della Madonna, della gente sofferente. Diceva che l’odio è sconosciuto al Cattolicesimo. Quando la chiesa veniva circondata dalla polizia con gli idranti, ripeteva: «Scambiatevi un segno di pace e non lasciatevi mai guidare dall’odio...». «Bisogna aver paura solo di tradire Cristo per alcune monete di una sterile tranquillità». Le parole forti delle sue omelie erano citazioni del Magistero del Papa e della Chiesa.
Il martire di Cristo
«Era l’uomo più affabile del mondo – dice di lui un operaio –. Ma ci parlava come uno che deve guidare e non farsi guidare. Nelle ore più buie ci fece sentire forti. All’altare affermava di essere pronto a dare la vita per la Verità e la libertà vera». Zelante, pieno dello Spirito di Dio, innamorato di Gesù Cristo – testimonia il suo parroco don Bogucki – non incitava all’odio e alla vendetta. Invitava tutti all’amore e al perdono».
Benché fragile di salute, don Jerzy era instancabile, mobilitato dentro dalla sua grande affezione a Gesù e sostenuto dalla Madonna: popolarissimo in tutta la Polonia, lo chiamavano da ogni lato a parlare di Gesù con la sua parola divina, convinta, calda, suadente... ma uno come lui, come i martiri antichi, doveva essere tolto di mezzo.
Il 19 ottobre 1984, in viaggio a Bydgoszcz. Nella notte fonda, in un luogo dove la strada passava in un bosco, “alcuni” lo rapirono con mano sacrilega. Quello che capitò a don Jerzy, lo rivela il suo corpo martoriato, ritrovato nelle gelide acque del lago Wlockawek: lividi terribili dappertutto, le mani coperte di ferite, la bocca maciullata, il cuoio capelluto strappato, il ventre dilaniato. Tutto simile al Martire divino del Calvario e ai martiri dilaniati dalle belve nel circo dei primi secoli cristiani.
Dal 3 novembre 1984, don Jerzy Popielusko riposa nella chiesa della sua parrocchia, presso l’altare dove ogni giorno innalzava al cielo Gesù Vittima d’amore: ostia con Gesù-Ostia. I suoi assassini, arrestati poco dopo, furono condannati ad alcuni anni di carcere. Nell’aula del tribunale, la sua mamma si alzò a chiedere una cosa sola ai giudici: «Abbiate pietà di coloro che hanno ucciso mio figlio. Lui farebbe così» (solo la Chiesa Cattolica ha persone come don Jerzy e sua madre!).
Il 6 giugno 2010 la Chiesa ha elevato con la solenne beatificazione il martire don Jerzy Popielusko, di 37 anni appena, alla gloria degli altari. Che il suo sangue, intriso di fedeltà alla Verità, di dedizione totale a Gesù e alla sua Chiesa, spinga molti giovani d’oggi a fare di se stessi un’offerta viva, un sacrificio di amore a Colui per il quale più che mai vale donare la vita.
Autore: Paolo Risso
Note:
Per approfondire: www.popieluszko.net.pl
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