Nel cuore del Convento dei Frati Minori Cappuccini di Sortino, si conservano le spoglie mortali del Servo di Dio Fra Giuseppe Maria da Palermo (al secolo Vincenzo Diliberto).
Giovane novizio cappuccino la cui fama di santità riecheggia ancora forte, e le cui virtù non ci lasciano indifferenti, nonostante centoventi anni siano trascorsi da quando serenamente si ricongiunse al Padre Celeste.
Vincenzo nacque a Palermo il primo febbraio 1864 da una famiglia benestante. Il Padre Nicolò era ispettore del genio civile, la madre Rosa era casalinga.
La figura di Fra Giuseppe si colloca in un periodo in cui dopo l’Unità d’Italia, la realtà siciliana era al centro dello scontro politico. La città di Palermo se da un lato si presenta come paradiso in terra, grazie alla gentilezza dei suoi abitanti, alla struggente bellezza della natura, al clima, alle magnifiche opere architettoniche di cui si abbellisce e per le quali viene definita come una delle città più belle d’Europa, dall’altro lato offre di sé un altro aspetto: è la città che conserva e protegge i luoghi che hanno visto omicidi, violenze, avvertimenti di prepotenza; luoghi di delitti, di latitanti introvabili solo per le Istituzioni, ma non per i cittadini; luoghi di interessate reticenze o segnali di omertà, che fanno fuggire o assolvere i responsabili di gravi crimini.
Questo stato di cose prolifera facilmente soprattutto perché il governo è impotente: pur essendo gli stessi in Sicilia come nel continente d’Italia, quegli ordinamenti giudiziari e amministrativi che devono assicurare l’applicazione delle Leggi, l’efficacia degli stessi ordinamenti non è la medesima. Infatti, per prevenire i delitti, per punirli, per mantenere l’ordine e l’osservanza delle Leggi, la Polizia, la Magistratura, l’Autorità, hanno bisogno di querele, di denunce, di testimonianze, hanno bisogno della cooperazione dei cittadini. Ma questa è la terra dell’omertà, della paura, del dominio dei forti sui deboli.
Questa visione così pessimistica della società siciliana è attenuata dall’azione di alcuni uomini di pace, i quali mettono in evidenza quell’amor proprio tipico degli isolani, capace di suscitare elementi morali idonei a farli progredire rapidamente, quando le circostanze non vi si oppongono.
Va serpeggiando, ma il cammino è ancora lungo, presso coloro che non si facevano intimorire dagli avvenimenti delittuosi, il desiderio di cambiare.
In questo contesto non dei più facili nasce il giovane Vincenzo.
Durante l’infanzia e i primi anni della fanciullezza il piccolo Vincenzo si mostrò di buon cuore e di buona indole, ma irrequieto fuori dalla norma.
Nell’anno 1873 Vincenzo ed il fratello Enrico furono iscritti all’Istituto Randazzo, per un solo anno.
A dieci anni studiò nelle scuole elementari dell’Istituto Nautico, e appena terminato l’anno scolastico tornò all’Istituto Randazzo, e vi rimase fino al 1877. In questo periodo i genitori cercarono di crescere il figlio alla luce degli insegnamenti della religione, ma con risultati deludenti.
Ad influire negativamente sul carattere oltremodo irrequieto di Vincenzo, fu il contatto con la società corrotta, per niente mediato dall’Istituzione scolastica. A riguardo scriverà il Cultrera, noto biografo di Fra Giuseppe: “Poiché da essa [la scuola] non è solo bandita la religione, unica e vera fattrice di educazione, ma sovente viene insultata e derisa”.
Del resto la classe dirigente locale non era interessata all’istruzione obbligatoria ne alla costruzione di scuole, in quanto temeva un popolo istruito che avrebbe preso coscienza della propria misera condizione.
Il colpo di grazia alle speranze della famiglia di riportare il giovane sul cammino della maturità e dell’ assennatezza, fu inferto dalla prematura e improvvisa morte della madre, nell’aprile del 1877.
Questo triste evento, segna ancora di più il carattere del già irrequieto Vincenzino, che trova sfogo in una serie copiosa di monellerie. In famiglia tutti lo tenevano d’occhio, sia l’impegnatissimo padre Nicolò, sia i parenti tutti, ma egli sapeva scaltramente eludere la vigilanza e per quanto si stesse a sorvegliarlo, raramente si riusciva a coglierlo in flagrante.
A Riguardo scrive ancora il Cultrera: “ Una volta fu visto saltare dalla ringhiera della terrazza di casa, e, poggiando i piedi sulle grate sporgenti delle camere sottostanti scendere in giardino, e poi con nuovo ardimento risalire, appoggiandosi all’inferriate delle finestre. Talvolta i suoi giochi erano più pericolosi. Arrampicandosi sulle persiane dei balconi, già ben disposte, saliva su piano piano, come fossero una scala finchè arrivava sul tetto di casa. E qui il rischio era evidente, perché, se si fosse spezzata qualche stecca, precipitando sull’inferriata sottostante, si sarebbe addirittura tagliato in due. Un giorno prende una scala a pioli, l’osserva e pensa come potersene servire. Salirvi sopra, poggiandola semplicemente alle pareti era cosa usuale, egli invece voleva esercitarsi nello straordinario e nell’ardimentoso. Pensa di trasportarla sulla terrazza e la poggia al muro ed invece di salirvi regolarmente dalla parte anteriore, vi si arrampica dalla posteriore, e tutto lieto di aver trovato anche là di esercitare il suo ardimento e l’ingegno, sale frettoloso, facendola traballare continuamente; ma essendo il pavimento di mattoni lisci, quand’egli era già in cima, la scala scivolò, ed egli sbatte sul suolo, rimanendo malconcio e insanguinato. A questa scena dolorosa aveva assistito la sorella Concettina, alla quale, appena caduto, non potendo parlare per lo stordimento, aveva fatto segno di stare zitta e non chiamare nessuno, ma siccome la bambina corse dai parenti, che insieme con le cure non gli risparmiarono i rimbrotti, egli, adirato, le disse: “Non dubitare, morrai inforcata!”. Ma i pericoli sembravano fatti per eccitare maggiormente la sua temerità.
Da queste monellerie che rientrano nella sfera della fanciullezza, Vincenzo passerà a quelle della gioventù.
Cresceva in lui una smisurata passione per la ginnastica che a nulla avrebbe nociuto se non l’avesse distolto ulteriormente dagli studi. Trascorreva poco tempo in famiglia, e quando era presente si irritava facilmente con tutti, e maltrattava i fratelli, le sorelle e la matrigna.
Sui compagni pretendeva di imporsi, anche a costo di “venire alle mani”, a tutti voleva far sentire la sua superiorità, anche quando era dalla parte del torto. Era insomma uno di quei caratteri irrequieti che raramente danno pace, a chi li circonda.
Anche a scuola, molto svogliato, era appagato quando riusciva a far scoppiare disordini, i compagni e i maestri erano davvero stanchi di lui, per questo fu cacciato una prima volta dall’Isituto Randazzo.
A poco o a nulla valsero i tentativi del padre a farlo rinsavire e, nonostante le punizioni da lui inferte erano davvero esemplari, Vincenzo le accettava con rassegnazione e senza mai mancare di rispetto al padre, ma subito dopo ritornava alla stessa condotta.
Dopo essere stato riammesso per una seconda volta all’Istituto Randazzo, a causa della cattiva condotta viene, nuovamente e definitivamente, espulso.
Ma il padre non si arrende ma si convince ancora di più che l’unico rimedio efficace è l’educazione religiosa. Pensò allora di mettere il figlio nelle mani del sacerdote Giuseppe Colavincenzo, la cui fama di severità era ben nota, e per tale motivo il giovane Vincenzo fu iscritto al convitto S. Rocco, di cui il Colavincenzo era direttore.
Al convitto S. Rocco Vincenzo a causa della sua fama, che non gli faceva di certo onore, venne isolato da tutti, compagni ed educatori. E questo naturalmente non l’aiuto a cambiare la sua condotta, ma a peggiorarla.
Il direttore lo sorvegliava e spesso lo sottoponeva a castighi, che il giovane accettava con la rassegnazione di sempre. Il padre Colavincenzo, pensò che il metodo migliore da adottare era quello di isolarlo. Mentre per tutti aveva parole dolci, nei confronti di Vincenzo si dimostrava austero e indifferente, lo stesso Colavincezo affermerà: “Io lo trattavo sempre con serietà e qualche volta con durezza perché per indole restio all’adempimento dei suoi doveri, e questo nel primo anno”.
Fu quella solitudine che iniziò a piegare l’animo ribelle del giovane.
La Provvidenza si servì di un episodio alquanto singolare per dare inizio ad una nuova e più ricca fase della vita di Vincenzo.
Accadde che in seguito ad una esposizione di quadri realizzati dai convittori, il quadro del convittore Antonio Piraino, raffigurante un volto di Cristo venne trovato sfregiato dalla lama di un coltello. La cosa destò grande scalpore e rammarico. Tutti i sospetti caddero sui più scapestrati, ma in modo particolare su chi tra di loro primeggiava: il nostro Vincenzino.
Ad alimentare i sospetti su di lui, contribuì il fatto che egli non si recò a vedere il disegno sfregiato.
E se ufficialmente nessuno lo accusò, alle spalle crebbero le voci che lo volevano a tutti i costi colpevole. Finchè un giorno uno dei convittori ebbe l’ardire di rinfacciargli pubblicamente il misfatto. Vincenzo che di certo non sarebbe rimasto inerte a tale accusa, rispose con un pugno contro l’accusatore. Ma presto dentro di se sentì il peso dell’insano gesto che aveva compiuto, chiese perdono all’accusatore. Scrisse poi una lettera affettuosissima all’autore del disegno, affermando che di certo non era stato lui a rovinare il quadro.
Questo è l’inizio dell’amicizia profonda che nascerà tra i due, che il Piraino ricorderà con queste parole: “Tanta verità traspariva da quello scritto che non esitai un momento a crederlo. Quando venne a me, terminato lo studio, e con le lacrime agli occhi mi chiese se avessi potuto accettarlo come amico, io non potei fare a meno di abbracciarlo, e quel dì segnò il principio della nostra amicizia che io mai ebbi l’uguale”.
La fine di quella solitudine, il calore di quella amicizia, schiude il cuore di Vincenzo, che per troppo tempo ormai era rimasto privo di amore.
Ora sentirsi amato, corrisposto da un amico lo sollevò moralmente, e lo spinse sulla via del cambiamento: Vincenzo passò dall’apatia all’entusiasmo.
Fino a questo momento, l’amicizia tra i due non si basava su fondamenta religiose, delle quali il caro Vincenzo nonostante l’educazione religiosa impartitagli dal Padre, era fortemente carente. Lo stesso Antonio riferirà: “Fino ad allora nel suo animo non si affacciava alcuna preoccupazione delle cose di Dio, ma aveva un fine puramente umano. I nostri discorsi in collegio sulle prime erano di materie scientifiche, essendo egli appassionato per la meccanica”. Era nota la negligenza di Vincenzo nelle cose riguardanti la fede e Dio, e del fatto che egli non nutrisse molte simpatie nei confronti dei sacerdoti. Ma non poteva esimersi in virtù del regolamento alle varie azioni liturgiche che si celebravano nel collegio.
Così come una goccia a lungo andare perfora la roccia su cui cade, allo stesso modo la parola di Dio faceva breccia nel cuore e nell’animo di Vincenzo, il quale incominciava a dimostrare sempre più interesse per tutto ciò che riguardava Dio e la religione.
Correva l’anno 1880, e Vincenzo iniziava il terzo anno nel convitto S. Rocco aveva ormai sedici anni.
Era il mese di maggio e scrisse al padre: “Il diciotto maggio 1880, commisi un peccato di lussuria per il quale fui assalito da un dolore di testa, da una mollezza e da una malinconia.”, “ In quei dolorosi momenti, cercai conforto, ma invano, poiché il rimorso della coscienza per la cattiva vita passata mi fece accrescere la malinconia”, “Iddio vedendomi in quel misero stato, ed avendo compassione di me, illuminò la mia debole mente, e mi fece comprendere che solo nella religione può trovarsi conforto e diletto e non nelle stolte passioni, nelle vanità del mondo”.
Fu da quel giorno che Vincenzo iniziò la sua vera conversione.
Si abbandonò da subito ad intensi e pesanti esercizi di penitenza, spesso rinunciava al cibo e al sonno, infatti non era raro che passasse la notte in preghiera, stando molto attento a non essere notato, per evitare che potesse apparire singolare agli occhi dei convittori. Tra le varie penitenze, soleva mettere gli sportelli di un armadio o una tavola da disegno sotto le coperte e vi si distendeva come su di una croce. E quando i professori gli ricordavano che prima di tutto veniva lo studio il quale era anche preghiera, lui rispondeva che in matematica cambiando l’ordine degli addendi il risultato rimaneva invariato e quindi se studiare è come pregare, a sua volta pregare è come studiare, e quindi non si sarebbe mai stancato di pregare e fare penitenza, sempre sotto lo stretto controllo e la più totale obbedienza al direttore spirituale.
E nonostante le penitenze a cui si sottoponeva lo esponevano alla derisione di alcuni compagni, egli non si perdeva d’animo e con tenacia si sforzava di parlare a tutti della bontà di Dio, della vanità del mondo, della brevità della vita, dell’importanza del pentimento.
Erano molti i compagni e i docenti che lo guardavano ormai con grande ammirazione, e lo stile di vita che conduceva gli valse il titolo, quasi profetico, di: “Il cappuccino”.
Esauriti gli studi al convitto S. Rocco, Vincenzo trascorse un periodo in casa per approdare poi al seminario arcivescovile di Palermo.
L’ingresso del nostro Vincenzo presso il seminario, non fu senza ostacoli, riportiamo parte della lettera che scrive al padre, per ottenere il permesso tanto agognato: “O padre,o padre mio,vengo a parlare con la presente […] della salvazione dell’anima mia. […] Ora voglio palesarle la causa della mia conversione. Lei ben si rammenta che prima di entrare in collegio ero molto avverso ai doveri religiosi; ebbene, entrato quivi, rimasi con i medesimi stolti principi. Però volere o non volere ero costretto ad ascoltare la messa, a confessarmi, a farmi la comunione. […] Quindi a poco a poco mi andavo assuefacendo a quella maniera di vita, che del resto non mi riusciva tanto incomoda. Le continue e sante prediche del direttore, senza accorgermene facevano breccia nel mio cuore, e mi istillavano dei sentimenti giusti e santi. Quindi quell’avversità e quel disprezzo che avevo contro la religione e i suoi ministri, a poco a poco si andava cambiando in amore. […] Quindi lei sarebbe stolto e crudele se osasse opporsi alla mia vocazione. […] Dunque per conchiudere le ripeto, per una seconda e ultima volta, non mi neghi questa grazia, poiché ciò potrebbe essere causa della dannazione dell’anima mia”.
Quando finalmente otterrà il tanto anelato permesso, Vincenzo penserà di aver ricevuto la grazia più grande, per la quale non si sarebbe mai stancato di ringraziare il Signore.
Era il giorno di Pentecoste, il cinque giugno 1881 quando entrò in seminario, la sua fama l’aveva preceduto, e tutti i seminaristi lo aspettavano trepidanti di curiosità. Volevano conoscere quel giovane convertito che già al S. Rocco aveva fatto molto parlare di sé.
Il giovane Vincenzo, per questi motivi aveva sempre l’attenzione di tutti i compagni i quali stavano ben accorti a non perderlo d’occhio, nelle varie ore ed attività della giornata.
La vita del seminario con i suoi orari ben scanditi e ben organizzati, lo soddisfaceva pienamente, pur rimanendo sempre gioviale e allegro con tutti, non rinunciava ai suoi duri esercizi di penitenza, rinvigoriti dallo smisurato amore per l’Eucaristia. Coglie tutte le occasioni per stare dinanzi al tabernacolo, per trattenersi a lungo e solo in chiesa, per abbandonarsi a dolci dialoghi con il Padre Celeste. Vincenzo capisce che il centro della sua vita è l’Eucaristia, e attorno ad essa deve ruotare tutta la sua giornata.
Un giorno scopre casualmente nello stanzino della fisica una finestra nascosta comunicante con la chiesa, dalla quale si poteva scorgere il Tabernacolo del SS. Sacramento, e grazie al suo ingegno escogita un sistema di specchi che gli permette di riflettere l’immagine del Tabernacolo nella stanzetta. In questo modo, avendo avuto il permesso dei superiori, poteva adorare il SS. Sacramento anche nelle ore notturne senza essere disturbato e fuori da ogni sguardo indiscreto.
Il tempo passava in seminario, più di tre anni erano trascorsi dal suo ingresso, e Vincenzo aveva compiuto vent’anni, durante questo tempo si era fatta strada dentro di lui in maniera sempre più forte un desiderio di deserto e di vita eremitica, per questo motivo chiese e ottenne il permesso di fare una esperienza estiva, di solitudine e raccoglimento nel convento allora abbandonato di Baida.
Durante questo periodo, in cui vive nell’assoluta solitudine, austerità, e profonda preghiera, in Vincenzo si fa sempre più chiara l’idea di voler abbracciare un ordine religioso.
Al ritorno da Baida entrando nell’ufficio del suo direttore spirituale, incontra un giovane frate cappuccino, che aveva da poco finito il noviziato nel paese di Sortino, Vincenzo non ebbe dubbi: era quello l’ordine che voleva abbracciare.
Dopo un lungo braccio di ferro col padre, ottiene anche questa volta il permesso, e dopo un periodo passato a casa, nel quale si dedicò anima e corpo al servizio degli ultimi e dei sofferenti, accompagnato dal fratello Silvestro giunge alla porta del convento di Sortino, era il gennaio del 1885.
Giunti a Sortino vennero accolti da Padre Eugenio Scamporlino, una figura molto nota in quei tempi, che godeva di una grande stima in tutta la Sicilia.
Il Padre Eugenio dal sottile fiuto, interrogò il giovane, sulle motivazione che lo avevano spinto ad abbracciare questo ordine religioso. E Vincenzo rispose subito e senza esitare: “Per salvare l’anima”. E dopo averlo messo in guardia sui rigori che la sua scelta comportava si sentì rispondere con fermezza: “Questo è quello che io cerco”.
Il giorno 14 febbraio 1885 fu il giorno della sua vestizione, prese il nome di Fra Giuseppe Maria da Palermo. Quel giorno scrisse al padre: “In quel momento provai una gioia più grande di quanto ne provano gli uomini quando indossano i loro abiti più eleganti, giacchè il mio corpo rivestito di una povera tunica, vesto l’anima di un abito elegantissimo qual si è appunto quello della virtù delle povertà”.
Inizia da subito una vita molto umile e austera. Sceglieva sempre gli incarichi più umili, che svolgeva con gioia e dedizione. Mortificava gli occhi riducendo all’essenziale il campo visivo, pane poco o niente affatto, sempre ubbidiente non solo ai comandi ma anche ai consigli. Portava il cilicio sulla nuda carne, provocandone il sanguinamento. La notte spesso non dormiva perché intento a pregare. Durante le torride giornate estive, quando era concesso anche il vino egli non beveva, preferiva un solo abito, mentre ne erano concessi due e un solo paio di sandali.
E’ vero, è probabile che oggi tutte queste penitenze e mortificazione possano apparire ai nostri occhi esagerate e anacronistiche, incomprensibili. Dobbiamo innanzitutto contestualizzarle, di fatto è solo dopo il Concilio Vaticano II che c’è stato un recupero delle realtà terrene, riconoscendo una dignità maggiore anche al corpo. Tenendo presente questo, non dobbiamo neanche demonizzarle tali penitenze e mortificazioni, in quanto Fra Giuseppe aveva ben compreso, lui che l’aveva sperimentata la dissolutezza, l’importanza di “tenere a freno” quel fratello corpo che con facilità poteva riportarlo alle antiche e stolte passioni. E soprattutto il grande amore per Cristo, lui che per noi ha donato la sua vita fino al sacrifico più grande sulla croce, meritava un po’ di quella sofferenza, e vi assicuro che l’amore per Cristo rende dolci tutte le penitenze e mortificazioni.
Fra Giuseppe in convento era un po’ un modello per tutti. Un teste afferma: “Fra Giuseppe Maria era la meraviglia della fraternità, l’esempio per tutti”. Padre Eugenio conferma: “Non appena fra Giuseppe Maria da Palermo indossò l’abito religioso da novizio cappuccino, diede prove innegabili, chiare ed evidenti di tutte le virtù”. Padre Innocenzo da Sortino riconferma: “Nel tempo del noviziato il Servo di Dio esercitò tutte le virtù cristiane e religiose con la massima perfezione”.
Le continue penitenze e mortificazioni ben presto lo costringeranno a letto. Nel 1885 infatti Fra Giuseppe avverte i primi sintomi del male che lo porterà alla tomba: tosse, febbre, dolori acuti al cuore. Dopo una prima ed apparente guarigione alla fine di dicembre venne colpito da un nuovo attacco di febbre altissima, al quale non potè resistere.
Nella notte del 31 dicembre, Padre Eugenio trovandolo peggiorato nel male, ma cosciente di mente gli disse: “ Fra Giuseppe Maria, lo Sposo Celeste vi chiama alle nozze eterne; non sentite la sua voce? Adesso vuol darvi nel SS. Viatico il suo ultimo amplesso per trasportarvi in Paradiso”.
Dopo essersi comunicato e dopo aver emesso la professione religiosa, con la serenità di sempre andava incontro a sorella morte, della quale non aveva nulla da temere.
“Mantenne costante il volto sereno e quasi gioioso, segno di intima comunione mistica con Dio”, testimonia Fra Giuseppe da Modica suo compagno.
Fu cosi che Fra Giuseppe Maria si spense il venerdì, primo gennaio 1886 alle ore 0:30, con la corona del rosario in mano e assorto in preghiera.
Alla notizia della morte, numerose persone accorsero in convento, per rendere omaggio a quell’umile frate che tanto odorava di santità.
Il corpo di Fra Giuseppe, vista l’affluenza ininterrotta di gente, rimase esposto nella chiesa del convento per due giorni, molte persone cercavano di ritagliare pezzetti di abito per averne una reliquia.
Il volto del giovane frate era roseo, e nessuno sentiva cattivi odori o segni decomposizione.
I funerali vennero celebrati giorno due gennaio, ai quali accorsero numerosi preti, religiosi e numerose persone, anche dai paesi vicini.
La santità di Fra Giuseppe era riuscita a superare le mura di una cella convenutale, come un fiore profumato che se anche posto in un luogo chiuso, riesce ad emanare i suoi meravigliosi profumi.
Il trasporto al cimitero avvenne la domenica, giorno tre. Quello stesso pomeriggio Padre Eugenio si reca nuovamente al cimitero insieme al custode fra Francesco da Sortino e al barbiere il signor Francesco Blancato.
Dopo aver recitato il De profundis, dopo essersi accostato al feretro P. Egenio intima al frate orami morto da tre giorni, di essere obbediente anche dopo la morte, e così dicendo presogli il braccio al taglio di una vena sgorgo sangue caldo e rosso, che cadde su pavimento.
Altro fenomeno straordinario era la flessibilità delle ossa almeno fino a otto giorni dalla morte, e il profumo di zagara che emanava il suo corpo.
Dal quel momento i fedeli non hanno cessato di invocarlo: sono numerose le grazie ottenute per l’intercessione del nostro servo di Dio Fra Giuseppe Maria da Palermo.
Oggi la devozione verso questo Servo di Dio è ancora presente, anche se molto si deve operare per far conoscere questa figura ai più lontani.
Si conservano nella chiesa del convento dei frati Cappuccini di Sortino le spoglie mortali di Fra Giuseppe, custodite in un sepolcro monumentale. All’interno del convento è presente, trasformata in piccola cappellina, la celletta dove lui visse, insieme ad una teca con un alcuni effetti personali. Inoltre a maggio si suole commemorare il Servo di Dio con un triduo di preparazione e una solenne concelebrazione che generalmente avviene la seconda domenica dello stesso mese.
Questo umile e piccolo frate oggi parla ai nostri cuori, ci insegna che la santità è una vetta alla quale tutti possiamo e dobbiamo tendere, egli stesso scriveva nel suo diario: “Io sento in me un ardente desiderio di farmi santo: io ho fame e sete della giustizia […] io sento in me un non so che di presentimento che abbia a farmi finalmente santo; […] o mio Dio, ho un ardente desiderio di dedicami tutto a voi, senza alcuna riserva”.
Fra Giuseppe ha avuto solo coraggio, il coraggio di cambiare, il coraggio di andare controcorrente, il coraggio di farsi ultimo, anche se questo costa fatica e ci rende più deboli agli occhi degli uomini.
Anche noi se apriamo davvero il nostro cuore alla voce del Padre, se ci lasciamo lavorare da lui come creta nelle mani del vasaio, solo allora potremmo far parte insieme a Fra Giuseppe di quel giardino profumato, lassù in cima alla vetta della santità.
Per visitare il sito curato dalla Vicepostulazione andare a: www.fragiuseppemaria.it .
Autore: Fra Vittorio Midolo
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