I disegni di Dio sono imperscrutabili. Egli coglie liberamente i fiori nei più svariati giardini per poterli tenere con sé in Paradiso e non si può fare un ragionamento logico su questa scelta.
Tutti siamo chiamati sin da piccoli a puntare alla santità, come è da piccoli che si inizia a costruire l’avvenire; se poi succede che nel piano di Dio, incomprensibile e a volte assurdo per noi, si è chiamati alla Casa del Padre in un “prima del tempo” secondo i calcoli dell’uomo, allora ognuno ricerchi, alla luce della fede, una possibile risposta.
Se questa considerazione è applicabile a tutte quelle morti di ragazzi, adolescenti e giovani – che quotidianamente avvengono per i più svariati motivi come malattie, incidenti, tragedie e che sono dure da accettare –, tanto più incomprensibili al momento sembrano quelle di giovani anime che avevano risposto generosamente alla chiamata di Dio ad una vita consacrata.
Se il Signore li aveva già scelti per essere suoi ministri in mezzo agli uomini, perché la loro preparazione è così bruscamente interrotta? Non è facile rispondere, perché tutte le faville partono da un crepitante fuoco per innalzarsi verso l’alto, ma ci sono quelle che si spengono prima o che ricadono nel fuoco che l’aveva generate, quasi per ubbidire a un silenzioso richiamo, e vanno ad alimentare di nuovo quella fiamma ardente.
Nel campo religioso vi sono state tante di queste faville ardenti, che sono ritornate al Padre (il fuoco divino) prima del tempo, ma il loro breve brillare ha prodotto altri fuochi e altra luce nelle tenebre dell’umanità.
Ricordiamo alcuni di questi giovani votati al sacerdozio e prematuramente scomparsi, che hanno lasciato una scia luminosa nella società e nella Chiesa: San Luigi Gonzaga (1568-1591) chierico gesuita di 23 anni; San Giovanni Berchmans (1599-1621) chierico gesuita di 22 anni; Servo di Dio Antonino Pisano (1907-1927) novizio mercedario di 20 anni; Beato Domenico del SS. Sacramento (1901-1927) giovane Trinitario spagnolo di 26 anni; Venerabile Francesco Maria Castelli (1752-1771) chierico barnabita di 19 anni; Servo di Dio Girolamo Tiraboschi (1733-1753) novizio camilliano di 20 anni; Servo di Dio Luigi Lo Verde (1910-1932) chierico francescano di 21 anni; Venerabile Maggiorino Vigolungo (1904-1918) aspirante paolino di 14 anni; Servo di Dio Raffaele Mennella (1877-1898) chierico dei Missionari dei Sacri Cuori, di 21 anni; San Stanislao Kostka (1550-1568) novizio gesuita di 18 anni; e tanti altri.
A questo incompleto elenco bisogna aggiungere il giovane seminarista della diocesi di Torino, Cesare Bisognin, ordinato sacerdote a 19 anni, poco prima di lasciare questa terra.
Nacque a Torino il 6 giugno 1956, primogenito di Andrea Bisognin, torinese, e di Agnese Frigeni, della provincia bergamasca; fu battezzato quattro giorni dopo. Crebbe nel fervente e religioso clima familiare, dove ogni sera si recitava il rosario; spesso era lui, bambino di 7-8 anni, a guidare la preghiera mariana. Lo faceva anche fuori casa durante l’estate, quando si recavano in vacanza a Celana, paesino d’origine della mamma. Lì i contadini del posto si radunavano la sera nella piccola cappella campestre dedicata alla Madonna del Carmine.
A nove anni, il 1° maggio 1965, fece la Prima Comunione e ricevette la Cresima, insieme al fratello minore Carlo, nella loro parrocchia dei SS. Pietro e Paolo. Frequentò le scuole elementari a Torino e poi fu iscritto alla scuola media “Alessandro Manzoni” della stessa città.
Nei delicati anni della preadolescenza e dell’adolescenza, Cesare si dimostrò un ragazzo vivace, fermo di carattere anche se un po’ puntiglioso, e stava volentieri in compagnia dei coetanei. Era appassionato di calcio, Aspirante di Azione Cattolica, capogruppo dei chierichetti della parrocchia, e uno studente diligente.
Decisiva e provvidenziale si rivelò in quegli anni la guida spirituale di don Pino Cravero, allora viceparroco della chiesa dei Santi Pietro e Paolo, oggi parroco in altra zona. Fu vicino a Cesare per i 10 anni che intercorsero dalla Prima Comunione alla morte. Cesare era così convinto della preziosa opera della guida di don Pino, che a una domanda su cosa consigliare agli adolescenti per la loro formazione rispose: “Credo che per un adolescente siano due le cose necessarie: un sacerdote amico e la preghiera”.
Terminata positivamente la scuola media nel luglio 1970 a 14 anni, la mamma gli domandò se avesse deciso cosa fare in seguito. Lui, in piena sintonia con quel cuore che l’aveva educato, rispose: “Lo sai, mamma, quello che voglio fare”. Non c’era bisogno di aggiungere altro, non ne avevano mai parlato, ma tutto era chiaro: in quella famiglia cattolica era toccato il dono di Dio di avere un figlio sacerdote.
Cesare entrò nel Seminario Minore di Bra (Cuneo) il 5 ottobre 1970 e contemporaneamente si iscrisse alla prima classe dell’Istituto Magistrale. Dai suoi scritti si apprende che il periodo trascorso a Bra lasciò in lui un ricordo indimenticabile, soprattutto della vita di preghiera. L’amore alla preghiera, che l’aveva caratterizzato da fanciullo e ragazzo, aveva trovato in Seminario, con la sua distribuzione lungo l’arco della giornata, l’espressione più alta e diventava esperienza meravigliosa d’incontro con Colui che l’aveva chiamato.
Nell’estate del 1971, il Seminario Minore venne trasferito da Bra a Torino, al Monte dei Cappuccini; Cesare continuò comunque a frequentare anche le Magistrali prima a Grugliasco dai Fratelli delle Scuole Cristiane e poi alla Scuola di Corso Trapani a Torino.
Da studente si faceva notare, sia nel Seminario che nella scuola magistrale, per la sua schiettezza, la memoria pronta e la vivace intelligenza. Dotato di un forte carattere, era facile alla discussione, ma pronto a ristabilire per primo l’amicizia. Negli studi era volenteroso e positivo.
In parrocchia faceva il lettore, l’organista, preparava i chierichetti e dava ripetizioni ai ragazzi delle medie. Ogni settimana come volontario andava a prestare con amore i più umili servizi agli ammalati del “Cottolengo”. Si concedeva ogni tanto diverse gite in montagna con gli amici, o partecipava a manifestazioni culturali in centri d’arte.
Nel luglio del 1974, Cesare Bisognin conseguì il diploma magistrale e dopo tre mesi, il 7 ottobre 1974, entrò nel corso di Teologia presso il Seminario Maggiore di Torino. Ormai giunto alla prima giovinezza, il suo ideale di diventare sacerdote si era rafforzato nell’entusiasmo tipico della gioventù; tutto sembrava più bello e raggiungibile. L’idea del celibato non lo spaventava, come pure era cosciente che la strada da percorrere nella vita, alla conquista di un ideale o di una missione, è essenzialmente in salita e richiede perseveranza e pazienza.
Studiava e sognava di portare la Parola di Dio a quanti la Provvidenza avrebbe voluto fargli incontrare. Ma l’uomo propone e Dio dispone; è vero la chiamata c’era stata, ma come raggiungere la meta era tutto da scoprire. Gesù non aveva detto solo “Vieni”, ma anche “Seguimi”, ossia “cammina con me”, perché le Sue vie non sono le nostre vie.
Agli inizi di settembre 1974, al termine del soggiorno con la famiglia a Celana, Cesare avvertì un dolore lancinante al ginocchio sinistro che cercò di lenire con delle pomate. Tornato a Torino riprese gli studi regolarmente, ma il male non diminuiva: quando si alzava da sedere avvertiva un cedimento, poi si riprendeva. In dicembre il ginocchio prese a gonfiarsi e Cesare si recò in ospedale per più approfonditi accertamenti radiografici.
Gli venne diagnosticato un osteosarcoma al terzo inferiore del femore sinistro; in altre parole un tumore osseo maligno. Una cappa di sconforto cadde sull’angosciata famiglia, ma soprattutto Cesare – che aveva letto per primo la terribile diagnosi e l’aveva interpretata bene – sentì crollare in un attimo tutti i suoi sogni. Si ritrovò sperduto, mentre tutto – casa, amici, programmi, attività – diventavano lontani ed estranei.
Ma Cesare era fatto di buona pasta, e una volta che fu passato il comprensibile momento di abbattimento, seppe vincere la disperazione con la luce della sua genuina fede, accettando la croce che gli era stata offerta. Fu lui stesso a comunicarlo al suo amico sacerdote don Pino Cravero, che incredulo prese a dargli conforto e sostegno morale e spirituale.
Cesare riprese a suonare in chiesa e cercò di sollevare dall’incubo i poveri genitori e il fratello minore, certo che il Signore, che l’aveva chiamato al sacerdozio, non l’avrebbe abbandonato, ma aiutato.
La diagnosi fu confermata al C.T.O. di Torino durante il suo ricovero, iniziato il 27 dicembre 1974 e terminato il 15 gennaio 1975, quando venne dimesso come incurabile. L’anno 1975 lo vide spostarsi da un medico all’altro, da un ospedale all’altro, provando varie cure anche tra le più invasive e dolorose. Andò due volte a Lourdes, in aprile e in agosto, e dal 3 al 24 dicembre si recò a Roma per il Giubileo dell’Anno Santo.
In tutto ciò, ci fu un’alternanza di piccoli miglioramenti e di violente vittorie del male, che inesorabilmente avanzava e durò in tutto 19 mesi. All’inizio, il problema era situato nel femore della gamba sinistra, poi scese alla tibia e dopo si diffuse in tutto il corpo.
Cesare tuttavia, pur sofferente, non volle mai rinunciare alla sua vocazione sacerdotale, continuò a tenersi in contatto con la Facoltà di Teologia del Seminario e riuscì perfino a sostenere due esami.
Giovani, ragazzi e sacerdoti, affluivano ogni giorno nella sua stanza a fargli visita, mentre la sua vita spirituale si affinava sempre più nella preghiera e nell’adesione sempre pronta e generosa alla volontà di Dio. Scrisse: “La malattia ti aiuta a maturare, esercitando la pazienza e a saper trattare con gli altri, a donare un sorriso, perché chi ha bisogno sono gli altri che ti stanno attorno”.
Il suo calvario e il suo desiderio di essere sacerdote erano noti nella Curia torinese. Così, il 31 marzo 1976, il cardinale arcivescovo, Michele Pellegrino, chiese personalmente a papa Paolo VI l’autorizzazione ad ordinarlo sacerdote, ottenendo la dispensa per la sua giovane età di 19 anni.
Poi, nelle tre settimane di aprile 1976 – settimana di Passione, Settimana Santa, ottava di Pasqua – gli eventi si succedettero incalzanti, più densi di dolore e di gioia: venerdì 2 aprile il vescovo ausiliare monsignor Maritano conferì a Cesare gli Ordini Minori; sabato 3 aprile venne ordinato diacono; infine, domenica 4 aprile, il cardinal Pellegrino lo ordinò sacerdote.
La cerimonia si svolse in casa sul letto del giovane ammalato, fra la comprensibile emozione dei familiari e dei tanti amici assiepati anche lungo le scale, mentre nella vicina chiesa parrocchiale altre duemila persone seguivano raccolte e in preghiera la straordinaria celebrazione.
Don Cesare Bisognin aveva detto: “Se così vuole il Signore, morirò da sacerdote: porterò sull’altare le mie sofferenze e le unirò a quelle di Gesù sulla Croce”. Amorevolmente assistito dal suo amico don Pino, poté nei giorni seguenti celebrare 17 Messe, 12 a casa e cinque all’ospedale, dove fu ricoverato di nuovo negli ultimi giorni.
La sera del 6 aprile, sentendosi indebolire sempre più, chiese al suo confessore il Sacramento dell’Unzione degli Infermi. La sua stanza divenne meta di una continua processione di fedeli che venivano a baciargli le mani consacrate.
Arrivò una marea di lettere, specie dopo l’intervista televisiva trasmessa la sera di venerdì 9 aprile nella rubrica “Stasera G7”, vista da milioni di persone, che poterono così conoscere e ascoltare il giovanissimo sacerdote morente. L’indomani, migliaia di lettere furono scritte da tutta Italia, a testimonianza della fede suscitata in tanti cuori.
Sentendosi avvicinare alla fine, don Cesare chiese a don Pino e ai familiari di riportarlo a casa dall’ospedale; fu accontentato lunedì 26 aprile. A casa fu un susseguirsi di saluti e raccomandazioni per tutti i presenti e di amorevoli espressioni per la sua dolente mamma, perché rimase lucido fino alla fine.
Serenamente, come se si fosse addormentato, morì all’1.40 di mercoledì 28 aprile 1976. I funerali si svolsero il 30 aprile con la partecipazione di oltre cinquemila persone, in maggioranza giovani, alla presenza del cardinale Michele Pellegrino.
Aveva detto al suo direttore spirituale: “È un gran dono il sacerdozio. Ho solo paura di non essere capace di viverlo bene. Dillo ai giovani: vale la pena buttarsi per questa strada!”.
Autore: Antonio Borrelli
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