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San Giuseppe Patriarca, figlio di Giacobbe

4 settembre

circa 1700 a.C.

Figlio di Giacobbe e di Rachele, annoverato tra i grandi patriarchi dell’Antico Testamento, divenne il vice del faraone egiziano. La sua festa, traente origine dal Martirologio Gerosolimitano, si celebrava a Gerusalemme il 4 settembre.



«É forse nato uno come Giuseppe? Anche del suo si ebbe cura».
E' questo il breve elogio che l'Ecclesiastico riserva a Giuseppe, figlio di Giacobbe. Nacque appunto da Giacobbe e dalla sua prediletta moglie Rachele quando ancora si trovavano presso Labano, in Haran (Mesopotamia). Dalla madre fu chiamato Giuseppe, nome il cui significato è «Iahweh aggiunga». Rimasto orfano della madre, morta nel dare alla luce Beniamino, Giuseppe, quindicenne, attirò sulla sua persona le attenzioni affettuose del padre. A diciassette anni egli è presentato dal testo sacro come un giovanetto ricco di bontà e timore di Dio. Odia il male in tutte le sue forme e soprattutto lo detesta nei fratelli la cui condotta morale lo scandalizza e disorienta. Sente il bisogno di riferire al vecchio genitore le loro malefatte ed essi, ripresi da Giacobbe, maturano sogni di vendetta contro quel giovane che è un rimprovero vivente alla loro condotta riprovevole. Così Giuseppe, teneramente amato dal padre «perché era il figlio che aveva avuto in vecchiaia e gli aveva fatto una tunica con le maniche lunghe» non solo per distinguerlo, ma forse anche per premiarlo, diventa tra i fratelli oggetto di un odio le cui tragiche conclusioni attendono solo il momento opportuno.

Un giorno che i figli di Giacobbe si trovavano con le loro greggi presso Sichem, Giuseppe inviato dal padre si porta sui loro passi. Raggiuntili a circa 20 chilometri da Sichem, presso Dotaim, l'odierna Tell-Dota, punto di passaggio per il commercio tra la Siria e l'Egitto, viene da loro preso e malmenato. Spogliatolo poi della sua veste, simbolo della predilezione paterna, essi lo gettano in una cisterna. Passando poi di là alcuni mercanti di Madian diretti in Egitto, i fratelli estraggono Giuseppe dalla Cisterna e lo vendono «per venti sicli d’argento agli Ismailiti».
In Egitto Giuseppe viene venduto a Putifar (= «colui che ha dato») capo delle guardie del Faraone. Nella casa di questo personaggio potente le sue tribolazioni non finiscono, anzi, così giovane e di bell'aspetto, attira su di sé le attenzioni della moglie di Putifar che vuole condurlo al peccato. Giuseppe risponde: «Come potrei fare questo grande male e peccare contro Dio?». La percezione del peccato come offesa di Dio è chiara. Egli non tradirà la sua coscienza, la cui purezza cristallina gli ha meritato la fiducia del suo padrone. Sollecitato ripetute volte preferisce fuggire, mentre la moglie di Putifar gli strappa di dosso le vesti per accusarlo presso il marito. Giuseppe viene arrestato e sitato in carcere. «Ma Iahweh fu con Giuseppe, lo rese oggetto di benevolenza e gli fece trovare grazia agli occhi del capo della prigione.
Così il capo della prigione gli affidò tutti i carcerati che erano nella prigione; tutto ciò che si faceva là dentro, era lui che lo faceva». Dopo tante sofferenze ed umiliazioni Giuseppe, nella stessa prigione, ricostruisce pazientemente la sua vita per arrivare, con l'aiuto del Signore, alla dignità altissima di viceré dell’Egitto.

In carcere erano detenuti insieme con lui il coppiere e il panettiere del re. Giuseppe diventa loro amico interpretandone i sogni. Tuttavia, mentre per il coppiere il sogno è un augurio per la sua prossima scarcerazione, che avverrà entro tre giorni, per il panettiere è l'annunzio della condanna a morte. Proprio al coppiere, Giuseppe raccomanda di ricordarsi di lui una volta restituito alla libertà, ma questi, liberato, se ne dimentica e Giuseppe resta in carcere altri due anni.
Due provvidenziali sogni del Faraone però, che nessuno degli indovini riesce a interpretare, segnano la sua fortuna. Tolto dal carcere dietro consiglio del coppiere, svela il significato profetico dei sogni, preannunzio di sette anni di abbondanti raccolti e sette anni di carestia. Il Faraone ammirato, anzi, conquistato dalla sapienza e dalle virtù di Giuseppe lo prepone al vettovagliamento dell’Egitto con una carica assai prossima a quella di un viceré, ed è a questo punto che si chiariscono le finalità della Provvidenza nella travagliata vicenda di Giuseppe: egli dovrà essere il salvatore della sua famiglia.
I fratelli, infatti, costretti dalla carestia si recano in Egitto, dove Giuseppe li riconosce senza essere riconosciuto. Dopo averli sottoposti a varie prove, alla fine si dà a conoscere, li perdona generosamente e fa scendere il padre Giacobbe e tutta la grande famiglia in Egitto assegnando loro la fertile terra di Gessen.

L'incontro di Giuseppe con i fratelli raccoglie le pagine più belle della Bibbia per il pathos che le pervade.
Giuseppe morì all’età di centodieci anni e i figli di Israele, allontanandosi dall’Egitto sotto la guida di Mosè, memori del giuramento prestato, trasportarono nella terra dei Padri le ossa del loro grande patriarca. Gli avvenimenti della sua vita sono una tessitura finissima della Provvidenza, la quale, indirizzando le vicende umane, le convoglia al suo ultimo fine. Giacobbe è il capostipite di una grande famiglia, i suoi figli, i rami di un grande albero, il cui frutto più prezioso è il Messia Redentore. Giuseppe è il protagonista involontario, ma cosciente di un dramma inizialmente a carattere familiare e la sua vita profondamente uniformata ai divini voleri, perché a servizio di Dio, prefigura quella dell’omonimo santo sposo di Maria Santissima, anch’egli tanto provato e prezioso strumento della Provvidenza.

Giuseppe è inoltre prefigurazione del Cristo. L’accostamento tipologico già si trova in Tertulliano:
«Ioseph in Christum figuratur». Tale parallelismo, sviluppato da Isidoro di Siviglia nelle sue Quaestiones in vetus Testamentum e da san Pier Crisologo, vescovo di Ravenna, nel suo sermone De Nativitate, è reso popolare nel secolo IX da Rabano Mauro e Walafrido Strabene e nel secolo XIII dalle Bibbie mozarabiche:
«Joseph descendit in Aegyptum et Christus in mundum.
Nudaverunt Joseph fratres sui tunica polymita Iudaei Christum expoliaverunt tunica corporali.
Joseph mittitur in cisternam et Christus descendit in Infemum»
«Joseph exit de cisterna
Christus redit ad superna
Post mortis supplicium».

Giuseppe venduto dai suoi fratelli è Gesù tradito per trenta denari da Giuda; condotto in Egitto, è come il bambino Gesù scampato al massacro degli innocenti; nella prigione in cui Putifar lo fa gettare è tra il coppiere e il panettiere, come Gesù in croce tra il buono e il cattivo ladrone; esce dalla cisterna, poi dalla prigione, come Gesù esce dal sepolcro; procura il grano al popolo affamato e ai suoi fratelli, come Gesù nutre i suoi discepoli col miracolo della moltiplicazione dei pani.
Giuseppe che arriva finalmente agli onori più alti trova per gli esegeti del Medioevo il suo parallelo nella glorificazione e nell’ascensione del Cristo, che dopo le sue sofferenze terrene, sale al Padre.
«Ille post tribulationem pervenit ad honorem
Christus post resurrectionem triumphans ascendit ad Patrem».

Giacobbe sul letto di morte benedice, incrociando le braccia in modum crucis, i due figli di Giuseppe. L’interpretazione simbolica di questo gesto gli ha valso una straordinaria popolarità. Giacobbe che preferisce Efraim, personificazione dei Gentili, a Manasse, rappresentante dei Giudei, è una prefigurazione del Cristo che sostituì a un popolo intestardito nell’errore il nuovo popolo di Dio. E' il simbolo della sostituzione della Chiesa alla Sinagoga, della Nuova all’Antica Alleanza.
La festa del patriarca Giuseppe, secondo il Calendario Palestino-georgiano del Sinaiticus 34 e la sua fonte, il Lezionario gerosolimitano, si celebrava il 4 settembre in Gerusalemme, insieme con quella di Mosè e del martire Giuliano, nel monastero eretto dalla nobile Flavia sul monte degli Ulivi verso il 454-55.
Manca invece ogni traccia di culto nei sinassari bizantini e nei Martirologi occidentali. Gli abissini poi commemorano Giuseppe e sua moglie Aseneth il 26 maggio e il 31 luglio.

Autore: Placido da Sorlino

ICONOGRAFIA
Assai raramente raffigurato come immagine isolata, e quasi sempre in statue sulle facciate delle grandi cattedrali gotiche, unito a patriarchi e profeti, Giuseppe compare nella sua ricchissima iconografia sempre inserito nelle scene della sua vita, narrata con dovizia di particolari. Come giustamente fa notare il Réau l'immagine di Giuseppe non figura nell'arte cemeteriale cristiana, fatto singolare in quanto, come ancora riporta lo stesso autore, molte delle sue vicende avrebbero ben potuto essere utili al simbolismo funerario dei primi cristiani.
L’iconografia di Giuseppe, invece, ha origine e prende sviluppo a partire dal V secolo per continuare ininterrotta, praticamente fino ai nostri giorni. La raffigurazione più antica è probabilmente quella del ms. del Genesi di Vienna, eseguito forse ad Alessandria nel V secolo, seguita da quella del trono in avorio del vescovo Massimiano di Ravenna. Qui in diciassette riquadri sono narrati numerosi episodi della vita di Giuseppe il quale, secondo alcuni autori, non è soltanto prefigurazione di Cristo, ma anche modello di vescovo perfetto. Seguono tra il V e il VI secolo le diciotto immagini della Bibbia di Cotton (British Museum), i quarantacinque episodi dell'Octateuco di Smirne, le quattordici scene del Pentateuco di Ashburnham e dell’Omiliario di Gregorio Nazianzeno.

Nell'VIII secolo dall'Oriente o dai luoghi che con l’Oriente erano in stretto contatto, l’iconografia di Giuseppe si diffonde rapidamente anche in Occidente e Roma, dagli affreschi di santa Maria Antiqua, ai mosaici del Lacerano, di santa Maria Maggiore, dell’antica basilica di san Pietro, la figura di Giuseppe troneggia tra quelle dei grandi patriarchi e profeti. Nel XII secolo le cupole del nartece di san Marco a Venezia si arricchiscono degli sfarzosi mosaici il cui modello furono, probabilmente, le scene della vita di Giuseppe narrate dall’antico ms. Cotton: il sogno delle stelle, Giuseppe estratto dalla cisterna e venduto agli Ismailiti, Giuseppe accusato dalla moglie di Putifar, Giuseppe che raccoglie il grano nei silos che, stranamente, hanno la forma delle piramidi d’Egitto.

Alle statue, nelle grandi cattedrali gotiche, si aggiungono le vetrate e i bassorilievi dei portali in cui le narrazioni delle vicende di Giuseppe si susseguono (Rouen, Chartres, Bourges, Auxerre); e mano mano l’iconografia si fa più ricca, i particolari più precisi, le scene più spettacolari. Sempre meglio gli artisti sentono il grande pathos che pervade le pagine del Genesi, che narrano dei fatti di Giuseppe e sempre più i tempi e gli spiriti sono maturi per cogliere quanto nella vita di quest’uomo, divenuto quasi un eroe da romanzo, vi sia di spettacolare, di sorprendente, adatto ad eccitare la fantasia di un artista.
Nella chiesa serba di Sopocani un ignoto artista del XIV secolo raffigura Giuseppe con ricchezza e preziosità di particolari, dall’orrore della cisterna alla gloria della corte faraonica. Raffaello nelle Logge Vaticane narra i sogni dei covoni di grano e delle stelle, descrive le tentazioni da parte della moglie di Putifar. Antonio del Castillo (secolo XVII) in sei quadri al Prado, descrive in una lussureggiante scenografia spagnolesca la castità di Giuseppe, la sua interpretazione dei sogni del Faraone, eccetera; Rembrandt dipinge il sogno delle stelle, Giacobbe riverso alla vista della tunica insanguinata di Giuseppe (Leningrado, Hermitage), la moglie di Putifar che denuncia Giuseppe al marito (Berlino, Museo), Giuseppe piangente alla sepoltura del padre (Montreal, Museo).

Soprattutto gli artisti fiamminghi e quelli spagnoli sentirono vivamente la drammaticità di queste figure, da Velazquez a Murillo, da Giovanni Victors ad Ilario Poder che, nella chiesa di santo Stefano a Tolosa, diede a Giuseppe trionfante alla corte del Faraone, le sue proprie sembianze.
Né al fascino di questa grande figura biblica si sottrassero le arti minori dall’arazzeria (tappezzeria tedesca del XV secolo, Maihingen, Coll. del principe Oettingen-Wallerstein), all’oreficeria, alla miniatura (Salterio di san Luigi, Parigi, Biblioteca Nazionale).
Sarebbe evidentemente troppo lungo citare tutte le opere d’arte che durante quindici secoli si sono ispirate alla figura di Giuseppe. La rassegna può comunque concludersi con il grandioso e particolareggiatissimo ciclo di affreschi eseguito nel secolo scorso dalle confraternite dei Nazareni tedeschi, a Roma, nella casa del console Bartholdy, ed oggi trasferiti alla Galleria Nazionale di Berlino.
«E fattili giurare dicendo: - Quando Dio vi visiterà, portate con voi le mie ossa - morì in età di centodieci anni e, imbalsamato, fu riposto in una cassa in Egitto». Questa cassa di Giuseppe, secondo la tradizione musulmana, fu gettata nel Nilo e Mosè la ritrovò su indicazione di una vecchia per riportarla con sé nell'esodo. Non vi sono, nell'iconografia di Giuseppe, tracce di quest’ultimo avvenimento, forse perché, con la morte di Giacobbe, la figura di Giuseppe si inserisce nell’iconografia di quest’ultimo senza spezzare quella soluzione di continuità che caratterizza nell’arte di tutti i tempi le narrazioni ispirate alla Bibbia.

Autore: Maria Chiara Celletti
 


Fonte:
Bibliotheca Sanctorum

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Aggiunto/modificato il 2018-03-06

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