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Venerabile Felice Maria Ghebreamlak (Abba Haylemariam) Cistercense

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Giufa, Etiopia, 23 giugno 1895 – Sora, Frosinone, 8 giugno 1934


Origini e studi
L’istitutore del monachesimo cattolico etiopico, nacque il 23 giugno 1895 nel villaggio di Giufa, nel territorio eritreo di Boggù, da Idris e da Hiwetà, due vedovi risposati.
Il 23 giugno, nella liturgia ge’ez, è la festa della Vergine Maria venerata con il titolo di “Patto di Misericordia”, riferendosi all’arcobaleno biblico, nel quale la spiritualità alessandrino-etiopica ha visto l’immagine di Maria Vergine, strumento della vera alleanza tra il cielo e la terra, tra Dio e l’uomo.
E per questa coincidenza, i religiosi genitori imposero al nascituro il nome di Haylemariam “Potenza di Maria”; e il bambino crebbe e visse con la convinzione di una missione affidatagli sin dalla nascita con quel nome.
Quando Haylemariam aveva quattro anni, la mamma si ammalò gravemente di malaria e poco prima di morire si convertì al cattolicesimo insieme al marito, a cui espresse il desiderio di vedere il figlio avviato al sacerdozio.
Rimasto orfano, il fanciullo si avvicinò sempre più alle suore di Keren e al parroco, anche perché il padre, nella necessità di accudire la famiglia e di lavorare i campi, si risposò con una donna cattolica, ma la sua presenza in casa fu accettata da Haylemariam solo in parte, trascorrendo quindi la maggior parte del suo tempo dalle suore.
La frequenza assidua alle celebrazioni liturgiche e la preghiera fervorosa, lo attrassero sempre più alla sfera spirituale, suscitando in lui il desiderio di consacrarsi al Signore.
A 12 anni, nel gennaio 1907 entrò nel Seminario di Keren, accolto dal superiore padre Michele di Carbonara; per la povertà della sua famiglia, poté sostenersi negli undici anni di studi, quasi interamente sulla carità dei benefattori della missione cattolica e poi dalla generosità della Congregazione di Nayszombat.
Il giovane seminarista Hayle, con la guida dei padri Cappuccini e di sacerdoti come padre Luigi Lanzo, futuro vescovo di Saluzzo e padre Angelico da None, Servo di Dio, acquisì, coltivò e perfezionò la sua spiritualità, espressa in un amore profondo per l’Eucaristia, per la Vergine Maria e per la devozione al Cuore di Gesù.
Nel 1910, a 15 anni venne ribattezzato con il rito cattolico e il 9 giugno ricevé la Prima Comunione e nel 1911 la Cresima; Haylemariam Ghebreamlak con la sua innata umiltà, mansuetudine, bontà d’anima e sentita carità, si impose all’attenzione dei superiori e dei compagni di studio; tanti erano i gesti concreti del suo donarsi agli altri; lavava di nascosto gli abiti dei seminaristi malati, accudiva ai lavori di cucina e alla pulizia della casa, trasportava dal fiume otri pieni di acqua caricandoseli sulle spalle, soccorreva i bisognosi spesso cedendo loro la sua razione di cibo, negli incarichi di responsabilità, mai si imponeva sugli altri, curava con gioia la preparazione delle celebrazioni liturgiche, inoltre nelle vacanze lavorava nei campi per aiutare il padre.
Il 21 settembre 1918 ricevé nella chiesa di San Michele di Keren, il suddiaconato e il diaconato e il 22 settembre a 23 anni, venne ordinato sacerdote: abba Haylemariam.

Il ministero sacerdotale
Dopo l’ordinazione, abba Haylemariam esercitò il suo ministero sacerdotale, prima a Keren e poi fino al 6 marzo 1920 nella tribù Cunamà. Richiamato a Keren, fu assegnato come insegnante ed assistente nel suo ex seminario, dove restò fino all’ottobre 1925, quando partirà per Roma.
Restando saldamente ancorato al Signore, abba Haylemariam si dedicò in quei sette anni di sacerdozio fra il suo popolo e fra i giovani studenti, ad un attivo e prodigioso apostolato, che fece dire al superiore: “Fa più lui che tutti noi”.
Si impegnò, con spirito di sacrificio, in una convinta opera di pacificazione tra le famiglie delle diverse tribù; la formazione spirituale dei giovani e il ministero della confessione, furono i campi in cui infuse impegno e carità senza limiti.
Fu sempre attento a cogliere le necessità del suo popolo; mancando i testi scolastici, tradusse e stampò in lingua locale, tigrè, un sillabario, una grammatica, un vocabolario e un compendio di diritto canonico per i sacerdoti etiopi, umilmente su questi testi non mise neanche la sua firma.
La preghiera era molto intensa, tanto che alcuni testimoni affermarono che durante la celebrazione della Messa, egli si sollevò da terra; abba Haylemariam si rese subito conto di quanta influenza ed attrattiva esercitava sulla popolazione locale, perché egli era un sacerdote indigeno, e il rispetto era maggiore di quello suscitato dai missionari stranieri; inoltre egli notava quanta venerazione il popolo nutriva per i monaci copti.

L’idea di un monachesimo cattolico in Etiopia; la sua partenza per Roma
Nacque così in lui, l’ispirazione di un monachesimo cattolico etiopico da affiancare all’opera apostolica; questa idea persistente diventerà lo scopo della sua vita.
La cosa non era facile, perché in Etiopia non esistevano monasteri cattolici, pertanto si rese conto che era necessario andare fuori dalla sua patria, alla ricerca di una Congregazione disponibile ad assumere questo difficile impegno missionario; nel contempo era certo che sarebbe stato seguito da molti giovani.
L’attesa di uno spiraglio, trascorsa nella preghiera, alla fine fu premiata con un’inattesa nomina a direttore spirituale e insegnante della lingua liturgica ge’ez, nel Pontificio Collegio Etiopico in Roma.
Così nell’ottobre del 1925, abba Haylemariam Ghebreamlak, partì per Roma, fra il rammarico di tutti e con la benedizione del vecchio padre.
Era l’Anno Santo 1925, ed egli prima di tutto partecipò ai pellegrinaggi prescritti alle quattro Basiliche Patriarcali, poi si mise al lavoro con gli studenti del Collegio Etiopico, ricevendone grande stima; nell’anno successivo, da luglio a settembre, prese a far visita insieme ai seminaristi, a diversi luoghi e città italiane, annotando con meticolosità in un diario, le impressioni ricevute.
Ma il suo desiderio monastico non lo lasciava, per cui con una certa insistenza, prese a scrivere al Prefetto della Sacra Congregazione per le Chiese Orientali, chiedendo di essere esonerato dall’insegnamento e di ritirarsi in un chiostro; nelle varie lettere egli riferì, del consiglio di vari monaci e abati di non disperdere gli abissini fuori della loro patria, e che era più conveniente istituire un monastero con una comunità locale, come esempio trainante per i loro connazionali.
Contattò vari Ordini come gli Antoniani, i Camaldolesi, i Maroniti, incontrando difficoltà, ma insisté nella ricerca, incoraggiato dall’abate e futuro beato Idelfonso Schuster, alla fine la Sacra Congregazione gli accordò il permesso di entrare fra i Benedettini e il 13 marzo 1927, fu accolto nell’abbazia di San Paolo fuori le Mura.

L’esperienza benedettina
In realtà egli non fu un benedettino, ma un’ospite gradito che vivendo per due anni nella Comunità di San Paolo fuori le Mura e poi nell’abbazia di Farfa (Rieti), poté assimilare la spiritualità benedettina e la millenaria esperienza monastica,; agli abati ed ai monaci, espresse le sue motivazioni, per un monachesimo cattolico da impiantare in terra abissina.
A Farfa trovò nel giovane Licinio Vestri, un’anima a cui confidare il suo programma e questo giovane scriverà poi tutti gli ostacoli che gli furono frapposti per realizzarlo, la sofferenza interiore che ne ebbe e la esemplare speranza che abba Haylemariam, nutriva per uno sbocco favorevole della vicenda.
In realtà, fino a quel momento egli aveva potuto ottenere solo il permesso di entrare in un Ordine monastico, ma dopo due anni fra i benedettini, fu informato alla fine che l’Ordine non era disposto ad intraprendere l’istituzione di una comunità monastica in Etiopia, ritenendo che lo stile di vita benedettino, troppo corrispondeva alla civiltà e psicologia latina e quindi inopportuno per mentalità e civiltà come l’abissina.
Preso atto di ciò, a malincuore Haylemariam, lasciò Farfa il 19 novembre 1929 e ritornò ai suoi compiti originari nel Collegio Etiopico di Roma.

La svolta decisiva; cistercense a Calamari
Nel 1930, a livello della Sacra Congregazione dei Religiosi, furono effettuate varie visite ricognitive e informative in Etiopia, per valutare la possibilità di una vita monastica cattolica locale.
Il visitatore apostolico mons. Alexis Henri Lépicier, poi cardinale e Prefetto della medesima Congregazione, attestò la volontà e il desiderio del clero locale di avere una comunità monastica in Etiopia.
Lo stesso cardinale, amico e frequentatore della Comunità Cistercense di Casamari (Frosinone), nel luglio 1930, prospettò ai superiori questa possibilità; la proposta fu accettata con entusiasmo e senza dubbi; dopo vari contatti con l’Autorità ecclesiastica d’Etiopia, alla fine il 3 settembre 1930, giunse a coronamento l’assenso e la benedizione di papa Pio XI, il papa delle Missioni.
Ad abba Haylemariam, la notizia arrecò grande gioia e così il 16 ottobre 1930, primo etiope, poté entrare nella storica abbazia di Casamari, appartenente all’Ordine Cistercense, fondato da san Roberto di Molesmes nel 1098 a Citeaux (Francia), il cui nome latino era Cistercium; Ordine che ebbe il più grande sviluppo e regolamentazione nel 1109, con il terzo abate generale s. Stefano Harding (1060-1134).
Presentatosi all’abate e alla comunità, egli venne ospitato nel noviziato come postulante; dopo appena due mesi fu ammesso ad indossare la tonaca dei novizi, con grande raccoglimento e sentendosi profondamente rinnovato.
Nel contempo cambiò anche il nome, indicante una svolta decisiva della propria vita personale e spirituale; non più Haylemariam ma Felice Maria, a cui si aggiunge nella nostra narrazione il cognome di nascita Ghebreamlak.
Don Felice Maria iniziò così l’anno di noviziato, sotto la guida del padre maestro don Pio Cassoni, anch’egli divenuto monaco proveniente dal clero secolare, quindi con un’esperienza adatta a guidare e formare il sacerdote etiope.
Don Felice Maria non mancò di ringraziare con una lettera affettuosa il cardinale Lépicier, realizzatore della sua scelta personale e dell’avvio del suo desiderio di un monachesimo in Etiopia.
Il periodo del noviziato era considerato da lui come una palestra di lavoro spirituale, in cui esercitarsi per il raggiungimento di un sempre maggior grado di santità.
Dietro sua richiesta, non fu esentato da nessun lavoro umile, non considerando la sua dignità sacerdotale; nonostante che il suo gracile fisico africano mal si adattava al clima più rigido e le sue mani soffrivano i geloni e sanguinavano, egli rinunciando all’uso dei guanti, continuava nei servizi dei novizi, senza lamentarsi per il freddo a cui era particolarmente sensibile.
Quel monaco proveniente da un Paese coloniale, divenne da subito un esempio trascinante di vita monastica per tutta la comunità di Casamari; dalla sua persona e dai suoi modi, traspariva un candore, che suscitava una profonda venerazione verso di lui dall’abate e dall’intera comunità; il fascino della vita interiore dava di lui un concetto non di uomo terreno, ma di un santo.
Il suo trascinante esempio in Etiopia, cominciò a dare i suoi frutti, dopo qualche mese, con sua grande gioia, arrivò a Roma un altro sacerdote abissino, abba Kefleyesus e il 19 maggio 1931, giunse a Casamari un primo gruppo di 12 aspiranti e poi ancora il 12 ottobre altri 10 giovani, il sogno di abba Haylemariam si realizzava; ai giovani egli insegnava la loro antica lingua abissina e ogni domenica parlava loro di argomenti spirituali.
Quella piccola prima comunità di origine abissina, capeggiata da don Felice Maria Ghebreamlak, ebbe la gioia di essere ricevuta in udienza privata da papa Pio XI, in occasione dell’inaugurazione a Roma del nuovo Collegio Etiopico.
Si giunse così all’8 dicembre, festività dell’Immacolata e don Felice fece la professione religiosa temporanea, insieme al connazionale abba Kefleyesus che aveva preso il nome di don Frumenzio; nel contempo quattro giovani etiopi presero l’abito dei novizi conversi, con i nomi di fra Candido, fra Michele, fra Domenico, fra Giorgio; la comunità etiopica dei cistercensi prendeva ormai forma, a premio della tenacia di don Felice.

Il declino fisico, il calvario del sanatorio, la fine
Alla sua granitica forza spirituale, si affiancava però una fragile costituzione fisica, messa anche a dura prova dalle continue mortificazioni e dall’operosità ininterrotta.
Don Felice cominciò a deperire sempre più, tormentato da una insistente tosse; avvertì un malessere generale, ma per non gravare sul monastero con spese extra, soffriva in silenzio; ma i superiori ed i confratelli, allarmati dal progressivo dimagrimento, lo fecero visitare dal medico nel gennaio 1933.
Dagli accertamenti clinici, venne la conferma che si trattava della tubercolosi, così diffusa all’epoca e purtroppo già in stato abbastanza avanzato; furono subito intraprese le cure necessarie, anche se con pochissime speranze.
Don Felice Ghebreamlak, accettò con serenità l’evidenza del male; già in passato in Etiopia, aveva assistito da vicino qualche ammalato di tisi confortandolo fino all’ultimo; si racconta che aveva sempre desiderato morire allo stesso modo, cioè della malattia che aveva posto fine alla vita di s. Luigi Gonzaga e di santa Teresa di Lisieux, santi che aveva eletto a suoi protettori.
Più che lui, erano i suoi confratelli desiderosi di vederlo guarito; nel febbraio 1933 fu mandato a Roma nella clinica Morgagni per tentare la prova del pneumotorace, ma dopo un mese fu di ritorno a Casamari senza alcun miglioramento.
Si tentò con il cambio d’aria, trasferendolo al monastero di Latiano (Brindisi) ma senza giovamento; poi fu portato al sanatorio Cesare Battisti di Roma. In questo calvario di sofferenza, l’ancor giovane monaco (aveva 38 anni), si dimostrò esemplare ed eroico, cercando di aiutare e confortare quanti come lui erano ricoverati; dalle suore e dal personale medico e infermieristico, era chiamato “il moretto santo”.
Purtroppo tutte le cure si dimostravano vane, per cui i superiori pensarono di farlo partecipare ad un pellegrinaggio a Lourdes, nella speranza di un miracolo per intercessione della Beata Vergine, alla quale don Felice Maria era profondamente devoto sin dalla nascita.
Con gioia partì con il treno bianco del 25 agosto 1933; durante il viaggio fu l’angelo consolatore degli altri ammalati pellegrini; celebrò la Messa nella Grotta della Apparizioni chiedendo alla Madonna, la piena disponibilità alla volontà di Dio e la perseveranza finale, nel contempo si offrì come vittima di olocausto per la nuova Istituzione.
Al suo ritorno, non guarito ma rinfrancato nello spirito, padre Felice scrisse in una struggente lettera al suo abate, di lasciar stare le ormai inutili cure e medicine e di trovare “un posticino nel mio caro monastero, dove aspetterei contento la chiamata del Signore”.
Ma non poté essere accontentato, a causa del pericolo di contagio; a Casamari si fermò solo poche ore, durante una sosta del viaggio di trasferimento dal sanatorio Cesare Battisti di Roma a quello di Sora (Frosinone); il 3 gennaio 1934, senza poterli accostare per il contagio, parlò commosso ai quindici fra novizi ed aspiranti etiopi, vestiti dell’abito cistercense, esortandoli a pregare e a perseverare nella vocazione, usò espressioni di commiato che equivalevano ad un testamento spirituale.
Nel sanatorio di Sora, continuò a curarsi con obbedienza ed umiltà, ricevendo spesso il conforto dei confratelli dei vicini monasteri di San Domenico e di Casamari e dello stesso vescovo di Sora, mons. Agostino Mancinelli che restava edificato dalla sua spiritualità.
Nell’ultimo periodo, gli fu proibito celebrare la Messa nella Cappella del sanatorio; il suo dolore era grande, per cui il medico curante prof. Tito Tronconi, gli fece allestire un piccolo altare nel suo reparto, riportando a lui e a quanti lo desideravano gioia e conforto.
Dietro sua insistenza, l’abate gli concesse di fare la professione religiosa, mentre egli era ancora del tutto cosciente, sebbene tanto sofferente, e il 4 aprile 1934, don Felice professò solennemente, diventando monaco definitivamente.
Scriveva molto a superiori e confratelli, ringraziando per quanto gli veniva concesso, assicurandoli della sua totale adesione alla volontà di Dio, recitando una giaculatoria fatta da persone devote:
“Ciò che tu vuoi, o Signore,/ ecco lo voglio anch’io:/
pene, dolore e morte, / tutto per te mio Dio”
L’8 giugno 1934, festa del Sacro Cuore di Gesù, di cui era devotissimo e che aveva invocato assiduamente negli ultimi giorni, don Felice morì, circondato da suore, monaci, dottori ed infermieri, commossi per le sue lucide parole di ringraziamento e scusa per il disturbo arrecato; il vescovo di Sora gli aveva portato la speciale benedizione del papa.
Il giorno dopo, la salma rivestita dell’abito monastico e dei paramenti sacerdotali di rito orientale, fu esposta nella camera ardente del sanatorio, adornata da ceri e fasci di fiori, offerti dal popolo al “moretto santo”.
Il 10 giugno la salma fu portata a Casamari, dove dopo aver ricevuto l’omaggio commosso di tutta la Comunità Cistercense e dei rappresentanti del Pontificio Collegio Etiopico, fu tumulata nel cimitero dell’abbazia.
Nel trentennale della sua morte, il 10 ottobre 1934, i suoi resti mortali furono traslati nella chiesa abbaziale di Casamari, vicino al tumulo che ricorda i sei monaci martiri dell’Eucaristia, uccisi nel 1799.
L’opera da lui tenacemente voluta ed iniziata, continuò dopo la sua morte; la Congregazione Cistercense aprì un primo monastero ad Asmara in Etiopia; i monasteri sono attualmente sei, con un centinaio di monaci divisi fra Eritrea ed Etiopia, dove vivono, lavorano e pregano, secondo gl’insegnamenti della Regola di san Benedetto.
La fama di santità del primo monaco cattolico abissino, crebbe man mano, sostenuta da grazie ottenute per sua intercessione; per cui nel 1955, il vescovo di Sora diede inizio alla Causa per la sua Beatificazione.
Causa che è giunta alla penultima tappa presso la Congregazione delle Cause dei santi in Vaticano; presto un’altra stella di santità, risplenderà nel firmamento luminoso della Chiesa d’Africa.


Autore:
Antonio Borrelli

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Aggiunto/modificato il 2007-03-06

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