Stanislao passò otto anni – più di metà della sua vita – nel collegio salesiano Manfredini di Este, lo stesso che hanno frequentato come alunni altri cinque suoi fratelli. Dovevano essere dei tipi in gamba i Gasparetto, se lui meritò di essere ritratto subito dietro a Domenico Savio, nel soffitto della cappella, e a quattro dei suoi fratelli l’onore di posare come portatori del baldacchino che accompagnava Pio XI in sedia gestatoria in occasione della canonizzazione di Don Bosco. Era, Stanislao, un ragazzo d’oro, come si usava dire: un giovane buono, docile, limpido e fresco come acqua di ruscello. Non creava problemi, semmai aiutava a risolverli. L’educazione materna aveva plasmato in lui un piccolo santo, il collegio continuò e completò questa educazione, tanto che Stanislao era considerato da compagni e superiori uno dei migliori alunni in assoluto. Non per nulla, quando si trattò di scegliere il gruppo che potesse rappresentare il collegio a Roma, per la canonizzazione di Don Bosco, egli fu tra i primi a essere scelto. Fu proprio a Roma che conobbe e fece amicizia con Emilio Katlchua, un ragazzo indiano dell’Assam anche lui nella città eterna al seguito di monsignor Mathias, per la stessa occasione. Il suo cuore già formato alla carità dalla carità della mamma, divenne ancor più pronto e generoso: quindi si intensificarono i piccoli sacrifici per risparmiare così da poter inviare i soldi alle missioni. Del resto, slancio nel bene e generosità crescevano in lui a vista d’occhio. Non dimenticava mai di fare qualche fioretto, soprattutto nel mese di maggio. Nei suoi libri e nei quaderni scriveva qua e là frasi come “Dio ti vede”, “Fuggi i cattivi compagni”. Né mai dimenticava la sua buona azione: spesso si recava all’asilo annesso al collegio per portare ai bimbi le patate dolci di casa sua. Seguiva alla lettera le esortazioni della mamma, che poi ella lasciò anche come testamento: “Figli, continuate ad amare Dio e nella fede troverete il sollievo di tutte le avversità”. Margherita fu una donna impareggiabile, amatissima da Stanislao, dai suoi cinque fratelli e dalle sei sorelle. Lo caratterizzavano una pietà sincera ma senza affettazioni, uno slancio spontaneo ma anche convinto verso il bene. Pochi erano come lui. Quando, nel 1934, dopo qualche mese dalle celebrazioni di Roma fu colpito da appendicite, affrontò con serenità il disagio. Poi l’appendicite si trasformò in peritonite, che allora voleva dire la morte tra atroci dolori. Non si abbatté nemmeno allora: sul letto della sua sofferenza, vicino ormai alla fine, lo affliggevano di più le lacrime della mamma che i suoi propri dolori. E ancora una volta meravigliò e commosse tutti per la bontà e la forza d’animo, quando chiese una penna per scrivere – quasi un testamento – che i suoi risparmi (si trattava di 300 lire) andassero per l’educazione del suo amico assamese conosciuto a Roma, poi rincontrato al Manfredini. L’ultima settimana di vita ogni giorno chiedeva a mamma Margherita che lo assisteva affranta dal dolore: “Mamma, che giorno è oggi?”. “E’ mercoledì, figlio mio!”. “Ah, c’è ancora tempo”. Così fino a venerdì. Aveva chiesto alla Vergine di morire di sabato, giorno della sua memoria, ed era sicuro che Ella l’avrebbe esaudito. Morì sabato 17 novembre 1934. Aveva soltanto 14 anni, ma per il cielo era maturo da tempo.
Autore: Serena Manoni
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