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Venerabile Giovanni Bruni Sacerdote passionista

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8 agosto 1882 - 12 dicembre 1905


A decidere furono i soldi. Almeno apparentemente. “L’opera di un soldo” (un libro dallo strano titolo, bevuto tutto d’un fiato), lo immerse nel mondo missionario. Gli schiuse orizzonti sconfinati, lo confermò nella vocazione al sacerdozio. Con gli occhi pieni di sogni, fissi oltre l’Adriatico, rincorreva paesaggi mai visti accarezzando il sogno di annunciare la salvezza a gente ancora pagana. La somma di 500 lire impossibile per le sue tasche lo svegliò dal sogno richiamandolo alla realtà. Bruscamente si chiudeva una porta creduta spalancata. Improvvisa se ne aprì un’altra. E così Giacomo Bruni si trovò tra i Passionisti. Aveva 14 anni.

Il sogno del moretto

Era nato a san Benedetto del Tronto (Ascoli Piceno) da Giuseppe e Maria Antonia Marconi. Genitori a dir poco esemplari: Giuseppe, di mestiere fabbro ferraio, è iscritto a due confraternite parrocchiali e ne osserva fedelmente gli impegni; la sera in famiglia guida la recita del rosario. Maria Antonia è stimata “come una santa” ed ogni giorno partecipa alla messa. Giacomo è l’ottavo di nove figli: cinque di essi muoiono in tenera età; la primogenita Maria si farà suora nell’istituto delle Dorotee.
Nasce l’8 agosto 1882; battezzato il giorno successivo gli viene dato il nome del nonno materno. La cresima appena un anno dopo. A tre anni l’asilo presso le suore Vincenziane. Subito si accorgono che è sveglio, vivace, allegro. Un giorno per uno strano ordine del sindaco portano via dalla nicchia la statua della Madonna; le suore per non estrometterla del tutto la collocano dietro una colonna in mezzo alla sala.
Giacomino (chiamiamolo così anche noi, come fanno tutti in casa ed in paese), commenta: “Ha fatto bene il sindaco. Così è più vicina a noi e la possiamo vedere meglio”. A scuola ottiene anche la medaglia d’argento. In casa si addossa e spesso gli addossano anche colpe non sue prendendosi i relativi rimproveri e castighi.
Aperto all’amicizia è protagonista delle solite birichinate che tessono una infanzia normale. Si abitua al lavoro nella piccola ed annerita bottega paterna. Fa parte della banda comunale dove suona il clarinetto.
Don Francesco Sciocchetti lo iscrive tra i “Luigini” (pia unione nata in onore di san Luigi Gonzaga). In chiesa durante le funzioni “era un piacere stargli vicino”, ricorderà il sacrestano Gian Battista Massetti. Il canonico don Pietro Panfili per quasi tre anni durante il giorno lo ospita nella sua casa insieme ad altri ragazzi che mostrano propensione per la vita sacerdotale. Don Pietro segue ed aiuta la loro preparazione scolastica impartendo nozioni anche di latino. Giacomino deve fare progressi consistenti se il parroco lo nomina - ragazzo appena dodicenne - insegnante supplente nelle scuole serali per adulti istituite in canonica.
Tra i ragazzi ospitati da don Pietro, Giacomino è quello che manifesta più chiari i segni della vocazione. A dieci anni ne ha sentito l’invito durante un pellegrinaggio al santuario della Madonna di Loreto. Lui stesso più tardi ricorderà: “Mentre pregavo dinanzi all’altare mi sono inteso chiamare alla vita religiosa ed ho risposto di sì”.
Intanto guidato da don Pietro cura la preghiera e la vita di grazia con la confessione settimanale fin dai sette anni. Non solo; si fa apostolo dei suoi compagni invitando anche loro alla confessione. Lui vi si accosta compunto, preciso, devoto.
“Formò la mia compiacenza” dirà don Pietro. Ed uno dei confessori testimonierà: “Non mi sono mai più incontrato con un fanciullo che si confessasse come Giacomino. Se un giorno questo giovinetto riceverà l’onore degli altari vorrei essere io il primo a prostrarmi davanti all’amabile sua immagine che non si è mai cancellata dalla mia mente”. A 12 anni nel 1894 fa la prima comunione pensando sempre alla vita sacerdotale e missionaria. Ma incontra non pochi ostacoli a cominciare dai suoi famigliari.
Conosce la congregazione dei missionari del Sacro Cuore e legge con interesse il loro mensile “Annali di Nostra Signora del Sacro Cuore”. Come pure avidamente legge “L’opera di un soldo”, che esorta ad offrire qualcosa per i missionari. Comincia a chiedere a tutti quel soldo che può essere utile per i missionari della Nuova Guinea diventata ormai la patria dei suoi desideri. Decide di entrare tra i missionari del Sacro Cuore.
Prega insistentemente don Pietro di aiutarlo tormentandolo con il solito ritornello: “Ma don Pietro, mi faccia entrare in religione”. Il sacerdote, sicuro della sincerità del ragazzo, va addirittura a Roma per parlare con il superiore della casa religiosa.
Quando arriva la risposta, Giacomino sente il sapore amaro di una speranza infranta; il mondo sembra crollargli addosso. Per l’accettazione viene chiesto il versamento di 500 lire, somma ragguardevole e decisamente sopra le disponibilità economiche della famiglia Bruni. Il sogno dunque svanisce per sempre?
Eppure è certo che quella è la sua strada. Lo indirizzano verso il seminario diocesano dove è già entrato un suo cugino. Non se ne parli neppure. Lui desidera unicamente il convento: questa e non altra è la sua vocazione. Il passionista padre Basilio Viti, presente a San Benedetto per una predicazione, viene a sapere del fatto e taglia corto: “Datelo a noi questo ragazzo. E non si parli di soldi”. Per Giacomino l’orizzonte torna sereno ed ormai non pensa ad altro che ai Passionisti. Chiede e legge la biografia di san Paolo della Croce.
Gli altri sperano che la conoscenza della vita penitente ed austera dei Passionisti gli allontani l’idea del convento. Invece avviene proprio il contrario. Per convincere gli scettici che il suo non è un capriccio raddoppia le penitenze e comincia a vivere da passionista. “Questo figlio mi muore, piange mamma Maria Antonia; fa penitenza, dorme sulle tavole, mette le spine dentro il cuscino... Se gli dico di non farlo risponde che deve provare per vedere se riesce a diventare passionista”.
Tutti si convincono che fa sul serio e si abituano all’idea di vederlo partire. Viene fissata la data dell’addio. Lo accompagnerà lo stesso don Pietro che lo ha seguito con amore ed affetto. Il sacerdote però qualche settimana prima della partenza si ammala.
Il ragazzo scalpita e non lo si può trattenere. “Fatemi due bisacce, supplica; metteteci dentro un pezzo di pane che io me ne andrò da solo a Roma”. Sembra ormai un esule; un uccello in gabbia che sospira di volare lontano.
Parte insieme a don Pietro alle ore 22.00 del 29 maggio 1896. Mentre lo accompagnano alla stazione corre in chiesa. Trovandola chiusa si inginocchia sul gradino a pregare; bacia tre volte la porta quasi per salutare e ringraziare il Signore.
Si fa promettere dalla cugina Benedetta che si farà suora e poi via verso Roma.
All’arrivo il giorno seguente lo accoglie il superiore generale, il beato Bernardo Silvestrelli che lo amerà sempre di particolare affetto. Il padre Bernardo vedendo quel ragazzo quattordicenne sorridente e dagli occhi vivaci, lo chiama affettuosamente “il moretto di San Benedetto”.

“Vado a vedere la Madonna”
Nel seminario passionista di Rocca di Papa, sui colli romani, Giacomino inizia una nuova vita. Dopo un anno, il 9 giugno 1897 si trasferisce a Soriano nel Cimino (Viterbo) per il noviziato. Veste l’abito il successivo 21 giugno e cambia il nome in Giovanni. Vive un impegno totale. Il rigore non lo spaventa. La preghiera è la sua gioia. Lavora per rendere più docile il carattere, più forte la volontà, più umile il comportamento.
Il maestro scriverà di lui al termine del noviziato: “Di questo ottimo giovanetto che ho diretto in tutto l’anno di noviziato posso attestare di non aver avuto altro motivo che di lodare e benedire Dio per l’esemplarissima condotta”. Compiuti i sedici anni richiesti dalle norme canoniche, emette la professione religiosa il 10 agosto 1898 a Moricone in provincia di Roma.
Riprende gli studi per prepararsi al sacerdozio. Potrebbe passare subito allo studentato filosofico-teologico; ma per uno sbaglio dei superiori vi arriva quasi un anno dopo. Lui non fa storie e non si lamenta. Dimora in varie case religiose per completare il corso scolastico: a Moricone nel 1898, a Sant’Angelo in Pontano (Macerata) nel 1899, al santuario della Madonna della Stella (Perugia) nel 1901, a Roma nel 1903. Ha una intelligenza pronta e versatile, una memoria definita “prodigiosa”, una parola facile e pronta.
Ama lo studio e riesce bene. Guardandolo dentro lo si trova ancora migliore e più luminoso. Le lodi dei testimoni sembrano un fiume in piena. Ricorderanno: “Giovane di una purezza singolare: l’anima sua poteva rassomigliare a un tersissimo cristallo.
Impegno non ordinario per l’acquisto della perfezione. Dedito assai all’orazione e al raccoglimento di spirito. Amantissimo della ritiratezza. Affabilissimo. Non una virtù mancava in Giovanni. Mai fu visto melanconico... esercitava la virtù in maniera amabilissima. Nulla di esagerato, niente di affettato, ma tutto in lui era naturale, spontaneo. La sua fede appariva così viva e semplice come di un uomo più celeste che terrestre... Nella carità fraterna tenero ed affettuoso, della mortificazione molto amante.
Dove era più ammirabile era nell’umiltà e nell’amore di Dio... Era in intimo, abituale raccoglimento. La preghiera fu il perno della sua vita.... In tutte le virtù era molto al di sopra del comune; lo vedevo progredire costantemente, senza alternative di fervore”.
I processi per la beatificazione sintetizzeranno: “La voce comune lo dichiarava un santo simile a san Luigi Gonzaga, a san Gabriele dell’Addolorata, a san Giovanni Berchmans”.
Si prepara così al sacerdozio ed alla vita missionaria.. Peccato quella salute così precaria e preoccupante. Giovanni è attentissimo a non chiedere dispense e particolarità. Ma il volto, sia pure sereno e dolce, parla chiaramente e vieta di illudersi.
I genitori un giorno lo vanno a trovare a Sant’Angelo in Pontano. Vedendolo sciupato manifestano tutta la loro preoccupazione. Lui assicura: “Sto bene, non mi manca nulla”.
Ed in realtà sta bene, ma solo interiormente. Ma è quello che lui brama di più. Nella visita militare del 1902 lo dichiarano rivedibile per debolezza di costituzione e l’anno successivo lo giudicano definitivamente inabile. La tubercolosi polmonare che esploderà di lì a poco in tutta la sua gravità, lo sta già uccidendo. E’ malato, ma segue a puntino la vita comune. Il direttore, uomo colto ma poco sensibile, sembra non accorgersi di niente. Anzi giudica male alcuni atteggiamenti del giovane. Una vera umiliazione per Giovanni che alla malattia fisica deve aggiungere una grande sofferenza interiore. Spesso nel salire le scale è costretto a fermarsi per riprendere fiato e per riposarsi.
Il 4 luglio del 1904 a Roma ha una violenta emottisi. Adagiato premurosamente sul letto ai confratelli costernati bisbiglia: “Vado a vedere la Madonna”. Viene trasferito a San Marcello (Ancona) dove il clima è più favorevole alla sua salute. Si riprende, quasi per miracolo. Nell’ottobre del 1904 ha recuperato forze sufficienti e può continuare gli studi alla Madonna della Stella.
Qui il 4 dicembre successivo è ordinato sacerdote: ha solo 22 anni e 4 mesi ed è stata necessaria una particolare dispensa del papa. Indicibile la sua gioia. Da quel giorno al sacrificio della messa unisce anche il sacrificio della sua vita appesa ad un filo sempre più sottile. La messa gli diventa conforto e sostegno. Ogni tanto Giovanni sembra rifiorire e rifiorisce anche la speranza di tutti. Ma sono fugaci bagliori e niente più. Lui non si fa illusioni.
Nel giugno del 1905 dopo nuove ed abbondanti emottisi viene trasferito ancora a San Marcello. Il male diventa sempre più acuto e lui tutto accetta con disarmante serenità. A don Francesco Sciocchetti, il prete che lo ha visto bambino, scrive: “La speranza non abbandona mai i malati: questo mio desiderio di guarire però è conforme alle disposizioni di Dio su di me? In tale incertezza dopo aver sperato e pregato mi getto nelle braccia della divina Provvidenza certo che essa disporrà per il mio maggior bene”.
Dirà un testimone: “Era edificante e commovente vederlo ilare ed allegro... e perfino scherzare sulle caverne” nei suoi polmoni. Ai primi di ottobre del 1905, ultimo trasferimento: è accompagnato a Moricone dove in un clima più mite avrebbe trascorso l’inverno. Vi arriva spossato. Il giorno seguente è costretto ad interrompere la celebrazione della messa ed a mettersi a letto. Vinto ormai per sempre, nel fisico.
Alla sorella suora ha scritto che la sua fine è ormai sicura e che vi ha sempre pensato; anzi in tutta la sua vita non ha pensato che a ben morire. “Sto facendo la volontà di Dio... Sto bene, tanto si soffre per il paradiso”, confessa a chi lo visita.
E’ abitualmente in preghiera rivolto alle immagini del Crocifisso e della Madonna che ha voluto di fronte al suo letto. Un giorno lo trovano che piange. Possibile? Cosa sarà mai successo? “Non piango per me, ma per il fastidio che vi arreco”, si affretta a spiegare all’infermiere. Dopo inevitabili colpi di tosse, implora il superiore: “Mi perdoni, sono di peso... Babbo mio, come farò per ricambiarla di tanta carità?”. “Preghi per me
in paradiso”. “Sì, pregherò”, conclude Giovanni. “Bisogna ricevere i sacramenti”, gli dicono. “Finalmente”, risponde il malato con gli occhi innocenti e puri che brillano di festa. Sentendo prossima la fine chiede che gli leggano la vita di san Paolo della Croce e precisamente il capitolo che tratta dell’amore di Dio.
Così il moretto venuto dal mare, naufrago felice nell’amore di Dio, approda alla vita eterna. Sereno e finalmente appagato. E’ il 12 dicembre 1905. E’ trascorso appena un anno dall’ordinazione sacerdotale. Sepolto nel locale cimitero, nel 1932 le sue spoglie sono esumate e trasferite nella chiesa delle monache passioniste di Ripatransone (Ascoli Piceno). Il 9 giugno del 1983 viene dichiarato venerabile. Dal 27 gennaio 1985 riposa nella chiesa abbaziale di San Benedetto del Tronto. Qui Giovanni, missionario come aveva sempre sognato, parla al cuore dei suoi devoti ed attende la glorificazione.

 


Autore:
Pierluigi Di Eugenio


Fonte:
Sotto la Croce appassionatamente

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Aggiunto/modificato il 2011-02-19

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