Lo fanno saltare in aria, piazzando un ordigno nel cortile del vescovado; naturalmente azionato a distanza, da vigliacchi qual sono, per evitare ogni rischio. L’esplosione dilania anche un giovane di fede musulmana, che ciò malgrado è molto amico del vescovo cattolico e gli fa da autista: ancora una volta, dunque, sangue musulmano si mescola a sangue cattolico, sempre che davanti al buon Dio abbia ancora senso una tal distinzione, visto che sempre di sangue umano si tratta.
Siamo in Algeria, nel 1996 e, prima di questo musulmano, altri 150 mila suoi fratelli di fede han perso la vita con morte violenta, mentre la serie dei 19 martiri della Chiesa d’Algeria nel periodo 1994/1996 (religiose, religiosi, preti e fratelli, missionari, monaci), beatificati l’8 dicembre 2018, si chiude con lui, il vescovo Pierre Claverie.
Di famiglia francese, trapiantata su suolo algerino da alcune generazioni, cioè un “pied noir”, come sono chiamati i francesi d’Algeria, nasce nel quartiere popolare di Bab el-Oued, ad Algeri, l’8 maggio 1938; respirando l’amore intenso, affettuoso, ricco di delicate sfumature dei suoi genitori, diventa un giovane e un uomo gioioso, generoso e straordinariamente predisposto per le relazioni umane, fino a diventare “martire delle relazioni con l’Islam”.
Dato che, però, è ormai assodato che santi non si nasce, ma lo si diventa, bisogna riconoscere che neanche Pierre fa eccezione. «Non eravamo razzisti, soltanto indifferenti, ignoravamo la maggioranza degli abitanti di questo paese… Ho potuto vivere ventotto anni in quella che io adesso chiamo una “bolla coloniale”, senza neanche vedere gli altri», scrive da uomo maturo, riconoscendo lo sforzo che ha dovuto fare per convertire la mentalità colonialista in cui vive la sua giovinezza, a contatto per forza di cose con i musulmani che gli vivono accanto, ma con la superiorità che gli deriva dalle sue origini francesi.
«Mi sono chiesto perché, durante tutta la mia infanzia, essendo cristiano - non più di certi altri -, frequentando le chiese - come certi altri -, ascoltando dei discorsi sull’amore del prossimo, mai ho sentito dire che l’Arabo fosse il mio prossimo», si lamenta quando ormai ha saputo fare «il grande passo verso l’altro».
Nel 1956 va a studiare matematica, fisica e chimica a Grenoble e questo non aiuta, anzi caso mai accentua la sua estraneità al mondo musulmano, anche perché la Francia non è per niente pronta ad accettare l’indipendenza che la “battaglia d’Algeri” sta cercando di ottenere. Eppure, proprio qui, «l’emergenza dell’altro, il riconoscimento dell’altro, l’aggiustamento all’altro diventano, per me, ossessioni» e comincia a nascere la sua vocazione religiosa, in risposta all’esigenza di «darsi fino in fondo».
Entra dai Domenicani e nel 1965 è ordinato prete, ma la sua “conversione” può dirsi completata solo due anni dopo, quando chiede e ottiene di tornare in Algeria, che ormai ha conquistato l’indipendenza, «per scoprire il mondo nel quale ero nato, ma che avevo ignorato. Ed è qui che è iniziata la mia vera avventura personale, una rinascita».
Il primo passo da fare per entrare in questo mondo ancora per lui “nuovo” è possedere gli strumenti adeguati: Pierre si getta subito nello studio della lingua araba, impara l’islamologia e la cultura araba. La Chiesa algerina sta lavorando molto in quel periodo per aiutare il Paese a vivere nella nuova dimensione dell’indipendenza e Pierre è su questo fronte uno dei più attivi.
Nominato direttore del centro diocesano dei Glycines, in Algeri nel 1972, è l’animatore e il coordinatore di una serie di iniziative, dalla scuola linguistica per l’arabo dialettale e l’arabo classico, alla biblioteca ben fornita sul Maghreb e il mondo arabo, dalle sessioni d’islamologia alle rassegne stampa mensili.
Così, accanto ai preti e alle religiose, che si vogliono addentrare nel mondo algerino, studiano anche gli algerini che vogliono perfezionarsi in lingua araba: un ambiente in cui Pierre si trova pienamente a suo agio, aiutando due mondi a capirsi, ad apprezzarsi, a rispettarsi. «Scoprire l’altro, vivere insieme con l’altro, ascoltare l’altro, lasciarsi anche modellare dall’altro, non significa perdere la propria identità, rifiutare i propri valori; significa concepire un’umanità plurale, non esclusiva».
In questa Algeria «che era il mio paese, ma dove avevo vissuto da straniero tutta la mia gioventù», Pierre, oltre all’arabo, «impara soprattutto a parlare e comprendere il linguaggio del cuore, quello dell’amicizia fraterna attraverso cui comunicano religioni e razze».
Immediati i progressi che si notano in lui: la sua cordialità si fa più squisita e aumenta la sua disponibilità all’ascolto, come dimostra la porta del suo ufficio sempre aperta, e la possibilità di incontrarlo senza appuntamento e senza fare anticamera. Diventa, poco a poco, un ponte tra due religioni e due culture, un interlocutore prezioso e un tessitore di amicizie solide e durature con il mondo musulmano.
È forse anche per questo che nel 1981 viene nominato vescovo di Orano e l’ovazione degli amici musulmani nella cattedrale di Algeri, subito dopo la sua ordinazione episcopale, risuona ancora nelle orecchie e nel cuore di chi è presente quel giorno. La diocesi che gli è affidata è molto piccola: appena 1.500 cattolici su oltre 5 milioni di abitanti, con 10 parrocchie, 9 sacerdoti diocesani, 13 sacerdoti religiosi e 45 suore.
In continuo movimento da una zona all’altra, esercita un ministero di consolazione e di comunione, confortando, incoraggiando, visitando le comunità più isolate, mettendo in contatto i cristiani e la società algerina, perché, dice, «il dialogo è la sola possibilità di disarmare il fanatismo, in noi e nell’altro… perché è attraverso il dialogo che siamo chiamati a esprimere la nostra fede nell’amore di Dio, che avrà l’ultima parola su tutte le potenze di divisione e di morte».
Qualcosa in Algeria infatti sta mutando, con ondate di fanatismo e di intolleranza sempre più preoccupanti, che tuttavia non fanno mutare la strategia pastorale di Pierre Claverie, che continua a ripetere che «la parola d’ordine della mia fede è il dialogo; non per una tattica opportunista, ma perché è costitutivo della relazione di Dio con gli uomini e degli uomini tra di loro»; e anche se, come scrive, «non abbiamo ancora le parole per il dialogo, bisogna cominciare col vivere insieme, creare luoghi umani dove si mettano in comune le rispettive eredità culturali che fanno la grandezza di ognuno».
Il fanatismo fa i suoi primi martiri, uccidendo preti e religiose, spesso anziani, sempre inermi, tutti con alle spalle una vita di servizio disinteressato per l’Algeria. La reazione di Pierre è durissima, quasi rabbiosa: «Che prendano me come bersaglio, questo lo capirei... essendo vescovo, forse rappresento agli occhi di certe persone un’istituzione aborrita o pericolosa... ma attaccare questi anziani missionari, io non capisco».
Poi nel mirino finiscono gli algerini stessi, quelli che si battono per un’Algeria aperta e plurale; a cadere sono soprattutto scrittori, artisti, intellettuali, donne, poliziotti, tante persone umili che hanno rifiutato di piegarsi agli ordini dei gruppi armati, oltre a 99 imam che si sono rifiutati di giustificare la violenza.
La voce del vescovo Pierre tuona ancora, con lo stesso coraggio e la stessa veemenza: per esprimere loro solidarietà, ma soprattutto per denunciare la vigliaccheria degli assassini, il cinismo dei leaders islamici che li guidano o li comandano dai loro esili dorati di Londra, Bonn o Washington.
È pienamente cosciente del rischio che corre e a chi gli chiede perché resti ancora in Algeria ricorda che «La Chiesa adempie alla sua vocazione e alla sua missione quando è presente nelle divisioni che crocifiggono l’umanità nella sua carne e nella sua unità».
A chi, anche tra i confratelli, ha più di un dubbio che serva a qualcosa mettere a repentaglio la propria vita, ripete che «siamo qui come al capezzale di un amico, di un fratello malato, in silenzio, stringendogli la mano, asciugandogli la fronte», mentre spiega a chiare lettere che egli resta in Algeria «a causa di Gesù, perché è lui che sta soffrendo qui, in questa violenza che non risparmia nessuno, crocifisso di nuovo nella carne di migliaia d’innocenti», dal momento che «la parabola del chicco di grano che muore è l’asse centrale di tutta la mia vita cristiana».
Spiace dirlo, ma un uomo così bisogna a tutti i costi farlo esplodere, altrimenti davvero può insegnare agli uomini a dialogare tra loro. E ciò accade nella tarda serata del 1° agosto 1996, al ritorno da una celebrazione per i sette monaci trappisti del monastero di Tibhirine, in cui il vescovo, come al solito, ha tuonato contro i loro barbari uccisori.
Poche settimane prima aveva anche avuto il tempo di lasciare un messaggio al vecchio continente: «L’Europa cambierà volto: dovremo dunque vivere insieme e se possibile mantenere uno spazio che non sia monopolizzato da una religione, da una cultura, da un tipo di ideologia». Profetico, non vi sembra?
Autore: Gianpiero Pettiti
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