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Beato Giuseppe Guardiet y Pujol Sacerdote e martire

3 agosto

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Manlleu, Barcellona, Spagna, 21 giugno 1879 - Barcellona, Spagna, 3 agosto 1936

José Guardiet y Pujol era un sacerdote dell’Arcidiocesi di Barcellona. Ricevuto l’incarico di rettore della parrocchia di San Pedro a Rubí, s’impegnò a fondo per la sua gente, organizzando pellegrinaggi e iniziative culturali e nutrendo una grande devozione per la Madonna di Montserrat.
Con l’insorgere della guerra civile, si mantenne saldo nelle proprie posizioni, giungendo in contrasto con le autorità civili. Assalito da alcuni manifestanti il 20 luglio 1936, fu costretto ad assistere al rogo della chiesa parrocchiale e, poco dopo, tradotto in carcere. Morì per fucilazione il 3 agosto 1936, presso la località detta “El Pi Bessó”, a Barcellona. Papa Francesco, con decreto del 3 giugno 2013, ha autorizzato la sua beatificazione, avvenuta il 13 ottobre 2013 a Tarragona, insieme a quella di altri 521 martiri della guerra civile. È la prima beatificazione di un sacerdote dell’attuale Diocesi di Tarrasa.



José Guardiet y Pujol nacque il 21 giugno 1879, memoria di san Luigi Gonzaga, nell’operosa cittadina di Manlleu, vicino Barcellona, dove suo padre lavorava come farmacista.
Entrato nel Seminario di Vic, si addottorò in Teologia presso l’Università Pontificia di Tarragona. Nel 1902, a Barcellona, ricevette l’ordinazione sacerdotale.
Negli anni fra il 1902 e il 1905 esercitò il ministero come vicario nelle parrocchie di Ullastrell, Olesa de Montserrat e Argentona. Nel 1912 venne assegnato alla chiesa di Santa Maria del Pi a Barcellona e, dal 1914 al 1916, fu economo della parrocchia del Santo Espíritu a Tarrasa. Un giorno, durante una gita con i suoi giovani, passando per la città di Rubí, esclamò: «Rubí, Rubí, che qualcuno possa vivere nel tuo paese e dare per te il suo sangue!». I giovani risposero: «Lo sa che questo è un paese molto cattivo?». Ribatté: «Nessuno è buono del tutto; io sento questo desiderio apostolico». Poco dopo, nel 1917, venne nominato rettore della parrocchia di San Pedro, proprio a Rubí.
Instancabile predicatore e catechista, e allo stesso tempo austero e servizievole, era chiamato “il parroco del sorriso”, per il suo senso dell’umorismo e la sua affabilità, divenuta proverbiale. Casa sua era sempre aperta, con un continuo viavai di persone, che a volte gl’impedivano perfino di mangiare: «Il pasto può attendere, ma il fedele no», affermava.
La sua attività prediletta era la preparazione dei bambini alla Prima Comunione. La gioia dei suoi piccoli era da lui spiegata con un curioso paragone: «Un bambino che riceve la Comunione è più felice di san Giuseppe che lo [Gesù] tiene fra le braccia, perché è meglio mangiarsi una mela che tenerla in mano».
Animatore di svariati pellegrinaggi a Lourdes e verso altri santuari mariani, accolse l’iniziativa del Servo di Dio Manuel Irurita Almándoz, Vescovo di Barcellona, impegnandosi con entusiasmo nell’organizzazione di un’importante manifestazione catechistica interdiocesana, svoltasi a Montserrat il 25 giugno 1933.
Pochi anni dopo, iniziò la prima fase della persecuzione religiosa causata dalla guerra civile spagnola. Con il sorgere della Repubblica, il municipio di Rubí vietò che si suonassero le campane. La creatività di don José produsse una soluzione ingegnosa: illuminare i finestroni del campanile con luci di vari colori, a seconda della festa o dell’evento da annunciare. Se c’era un battesimo, la luce era bianca; se c’era un matrimonio, rosa; se stavano per tenersi le esequie di un bambino, azzurra; se si trattava di quelle di un adulto, viola. Per le solennità, la luce era rossa, mentre per le feste era verde.
I suoi parrocchiani apprezzarono la forzata novità a tal punto da arrivare a riconoscere gli eventi meglio che dal suono delle campane. L’idea ebbe risonanza internazionale, a tal punto da essere presentata su di una rivista cattolica inglese diretta da Gilbert Keith Chesterton, che l’elogiò col suo abituale stile.
Aggirato quell’ostacolo, ebbe ugualmente contrasti con le autorità civili. Il primo problema da affrontare fu quello a riguardo delle sepolture religiose: nonostante i fedeli, infatti, rilasciassero dichiarazioni in vita per essere sepolti cristianamente, venivano trovati dei difetti di forma, al punto da obbligare i sacerdoti a sciogliere il corteo funebre. Il parroco non si scompose e rimase sulle sue posizioni.
In seguito, il sindaco proibì la tradizionale processione mariana per la conclusione del mese di maggio, per motivi di ordine pubblico. Don José ubbidì e soppresse anche la processione del Corpus Domini, ma in una lettera che trapelava ironia espresse i suoi sentimenti: «Quest’anno Gesù resterà all’interno della chiesa, per il timore che, se uscisse, perturberebbe l’ordine pubblico, Lui che è la pacificazione degli spiriti e dei popoli».
Nel luglio 1936, da semi-occulta, la persecuzione divenne sanguinaria. Lo stesso don José rischiò la vita e in molti, incluse persone di idee opposte alle sue, si offrirono di dargli rifugio. Ad esempio, il medico cittadino, il dottor Parellada, il mattino del 19 luglio corse dal parroco, che stava tenendo una riunione della Gioventù Cattolica Femminile, per avvisarlo che alle tre del pomeriggio sarebbe stata chiusa la frontiera e che avrebbe fatto bene a venire con lui. Il sacerdote ringraziò e declinò l’invito: «Il mio posto è vicino ai miei fedeli».
Lunedì 20 luglio aprì la chiesa e distribuì la Comunione ogni quarto d’ora, come faceva sempre. Ma, all’arrivo della notte, alcuni malintenzionati circondarono la parrocchia. Il vicario, don José Tintó, testimone oculare degli eventi che ebbe salva la vita, raccontò l’accaduto.
A mezzanotte, uno sparo fu il segnale convenuto per l’attacco: alcuni momenti dopo, un gruppo di persone armate si presentò alla casa canonica, reclamando le chiavi della chiesa e la presenza del “signor” Guardiet. Il sacerdote, accompagnato dal vicario, uscì e venne obbligato ad aprire la chiesa e ad accendere la luce. I manifestanti erano rimasti in maggior parte colpiti dalla serenità del parroco, ma, istigati dal loro capo, irruppero all’interno. Don José riuscì, per concessione del capo, a mettere in salvo il Santissimo Sacramento in casa propria, poi si ritirò e si mise a guardare da una finestra cosa accadeva.
I rivoltosi non si limitarono solo a saccheggiare la chiesa: impilarono le panche e diedero loro fuoco con del liquido infiammabile. Sconvolto, il sacerdote trascorse quattro ore davanti all’Eucaristia, preparandosi ad affrontare il martirio.
Giunto il mattino di martedì 21, scese in piazza da solo, con un secchio d’acqua, allo scopo di salvare il salvabile. Andò e tornò due volte, finché un rivoltoso che passava di là lo convinse amichevolmente che era nell’interesse di tutti che tornasse alla canonica. Lo stesso giorno venne arrestato e condotto al carcere di Rubí, dove trascorse quindici giorni pregando e confortando gli altri detenuti.
Il 3 agosto, alle 15, alcuni miliziani forestieri lo tirarono fuori dal carcere e, con altri due cittadini di Rubí, lo condussero lungo la strada detta Arrabassada, che porta da San Cugat al monte Tibidabo. Durante il tragitto, i soldati si tenevano a rispettosa distanza, come se si vergognassero di fronte alla gente. Don José disse loro: «Potete venire con me. Non affliggetevi. In fondo, se fate questo siete obbligati”.
Giunti in un luogo detto “El Pi Bessó” (“Il pino gemello”, segnalato da due alberi che erano cresciuti insieme fino a formare un tronco unico), il sacerdote perdonò i suoi uccisori. Sei dei carnefici, dall’emozione, si lasciarono cadere di mano i fucili, ma il settimo osò sparare sul parroco e sui due fedeli.
Mercoledì 5 agosto il suo corpo venne prelevato dall’ospedale per essere sepolto nel cimitero sud-ovest di Barcellona, sul Montjuic. Era accompagnato, tra gli altri, dalla nipote Magdalena, che custodiva due fazzoletti macchiati col sangue dello zio.
Nel 1939, sul luogo del martirio, venne eretta una stele, che negli ultimi anni è stata più volte profanata e, altrettante volte, rimessa in ordine dagli zelanti membri dell’associazione “Amics del dr. Guardiet” (in Catalogna, i parroci hanno il titolo di “doctor”). Nel 1945 i resti mortali del sacerdote vennero traslati nella chiesa di San Pedro a Rubí, presso l’altare della Madonna di Montserrat, alla quale fu molto devoto.
La causa canonica per accertare il martirio di don José Guardiet y Pujol venne aperta nella diocesi di Barcellona il 12 febbraio 1959, ma ottenne il nulla osta solo trent’anni dopo, l’11 dicembre 1989, perché nel 1964 le cause dei Servi di Dio morti durante la guerra civile vennero fermate. L’inchiesta diocesana venne quindi ripresa il 30 novembre 1992 e chiusa il 5 luglio 1994. Il decreto per la validità dell’inchiesta giunse il 29 gennaio 1999, mentre la “Positio super virtutibus” venne presentata a Roma nel 2002.
Nei giorni 3 e 4 luglio 2013, il vescovo della Diocesi di Tarrasa (suffraganea dell’Arcidiocesi di Barcellona, nel cui territorio si trova Rubí), monsignor Josep Àngel Sáiz Meneses, ha presieduto la riesumazione e il riconoscimento dei resti mortali del sacerdote, posti nuovamente nella parrocchia da lui tanto amata e servita.
L’indomani, 5 luglio, papa Francesco ha firmato il decreto che sancisce la beatificazione di don José. La celebrazione è avvenuta a Tarragona il 13 ottobre 2013, unitamente a quella di altri cinquecentoventuno martiri della guerra civile spagnola.


Autore:
Emilia Flocchini

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Aggiunto/modificato il 2013-08-13

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