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I Santi nell'anno liturgico

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«Il Concilio Vaticano II ha ribadito la centralità che ha la Pasqua nel corso delle celebrazioni dell’Anno liturgico (cf. SC, n. 102), proponendo, quindi, il ricupero del culto dei santi all’interno della prospettiva della centralità del mistero pasquale del Cristo (cf. SC, nn. 104 e 111).
I santi sono proposti all’intera comunità cristiana come coloro che hanno saputo vivere in pienezza il mistero pasquale del Cristo, ed è in tale senso quindi che essi diventano modelli di vita cristiana e validi intercessori del popolo di Dio. Nel Santorale la Chiesa celebra l’unico mistero di Cristo, visto nei suoi frutti, realizzato nelle sue membra meglio configurate a Cristo morto e risorto. Quando la Chiesa venera i santi, riconosce e proclama la vittoriosa grazia dell’unico Redentore e Mediatore, Cristo. Essa ringrazia il Padre per la misericordia donataci in Cristo, divenuta visibile ed efficace in alcuni dei suoi membri, e con ciò nell’intero corpo della Chiesa.
Il santo partecipa della pienezza del mistero pasquale del Signore, e la sua santità esiste in funzione di questa partecipazione. Ciò che la Chiesa considera decisivo è quindi lo slancio con cui ognuno dei santi ha vissuto il mistero pasquale e ha realizzato con il Signore il suo passaggio da questo mondo al Padre. Cristo è l’archetipo di ogni santità, il santo per eccellenza, il “solo Santo”. I santi sono quindi tali nella misura in cui si identificano con Cristo, nella misura in cui vivono in pienezza di comunione con il Cristo della Pasqua. In questo contesto, non c’è da meravigliarsi che sia stato il martire il primo a ricevere culto.
Le liturgie orientali mettono in risalto la contemplazione del santo, come colui in cui si riflette l’icona trinitaria. Le Chiese occidentali si soffermano maggiormente sull’attività del santo, come colui in cui si attua ciò che Gesù incominciò a fare e a insegnare (cf. At 1,1). Conseguentemente, le liturgie orientali sviluppano l’innologia attorno al santo e gli “akatistoi” per facilitare così la memoria liturgica del santo proposto come “icona-modello” al fedele che ne contempla la vita. Le liturgie occidentali sviluppano invece l’eucologia, per mezzo della quale ci si rapporta all’opera del santo, proposto all’imitazione. In ogni caso, tanto l’Oriente come l’Occidente non contemplano la vita e la morte del santo se non all’interno del mistero pasquale di Cristo.
Per l’antica eucologia liturgica romana, il martire è imitator dominicae passionis (Sacraemntario Veronese [= Ve], n. 692). L’aggettivo dominicus, così frequentemente usato nella letteratura cristiana antica, nell’eucologia liturgica è ristretto a queste due espressioni tradizionali: Dominicae Resurrectionis e Dominicae Passionis. Gli antichi testi liturgici del Veronese parlano con termini identici della beata passio del Signore (Ve, n. 941) e della beata passio degli apostoli e dei martiri (Ve, nn. 286, 301, 311, 366). Perciò il martire diventa segno privilegiato di quell’amore che ha spinto Cristo Gesù a donare la propria vita per i fratelli nella glorificazione del Padre. Il Messale Romano [ = MR] attuale, nella colletta della festa di santa Teresa Benedetta della Croce (9 agosto) definisce il martirio come la sublime conoscenza del Figlio di Dio crocifisso e la sua imitazione fino alla morte; e la colletta della memoria di san Massimiliano Maria Kolbe (14 agosto) parla del martirio come conformità al Figlio di Dio fino alla morte. Il centro e il cuore della santità martiriale è l’amore per Cristo e la volontà di seguirne le orme. In tal modo la vita del martire diventa un sacrificio vivente e santo come lo fu quella del Figlio di Dio fatto obbediente fino alla morte di croce, e diventa feconda della stessa fecondità della Croce.
Se originariamente è stato il martire ad incarnare idealmente la perfezione cristiana ed è stato quindi lui a ricevere per primo culto ufficiale, il culto degli altri santi – confessori, vescovi, vergini, ecc. – è sorto in riferimento e come allargamento del culto dei martiri. Ebbene, la forma più antica e sempre tipica del culto dei martiri è la memoria, la loro “memoria” che si inserisce nel cuore della celebrazione del mistero eucaristico. C’è una mirabile corrispondenza tra il mistero pasquale e il dies natalis del martire, tra il memoriale del Signore e l’anniversario o memoria del santo.
L’eucaristia è la sorgente del martirio e di ogni santità. Nel natale dei santi Cosma e Damiano, la secreta del Sacramentario Gelasiano antico [ = GeV] si esprime in questi termini: Sacrificium illud offerimus, de quo martyrium sumpsit omne principium (GeV, n. 1030), testo non accolto dal MR 1570 né da quello del 1962, ripreso invece dal MR 1970. La preghiera sulle offerte dell’attuale memoria di sant’Ignazio di Loyola allarga lo stesso concetto ad ogni tipo si santità.
Una orazione dopo la comunione del Comune dei martiri fuori del Tempo pasquale dell’attuale MR afferma che l’eucaristia trasmette al martire quella forza di animo che gli rende possibile sopportare e superare le difficoltà e affrontare il martirio a difesa della propria fede. Si tratta di una dottrina tradizionale, conforme cioè a quella insegnata ripetutamente dai Padri della Chiesa. Basterà citare qui sant’Agostino, il quale afferma che il mistero del martirio affonda le sue radici nel mistero dell’altare: l’eucaristia è il pane dei forti per la lotta e rende i martiri incrollabili: “Egli [Cristo] è il pane che è disceso dal cielo. I martiri sono forti, i martiri sono saldi nella fede: ma il Pane sostiene il vigore dell’uomo”[1].
Nel discorso pronunciato nella festa di san Lorenzo, Agostino spiega che l’eucaristia è il fondamento della grazia del martirio, perché il mistero dell’Ultima Cena dispiega tutta la sua efficacia quando noi diamo il nostro proprio sangue per colui di cui abbiamo bevuto il sangue: “Ivi [Lorenzo] fu ministro del sacro sangue di Cristo: ivi, per il nome di Cristo, versò il proprio. Si era accostato con discernimento alla mensa del Potente” [2].
Diversi Autori si fanno eco del problema sollevato da alcuni testi eucologici dei libri liturgici romani, antichi e moderni, nei quali si afferma che il Sacrificio è offerto pro nataliciis (Ve, n. 48), pro commemoratione (GeV, n. 845; MR 1970, pp. 681 e 685), pro sanguine (GeV, n. 881), pro passionibus (MR 1970, p. 680), ecc. del martire. Una possibile risposta la diede già Odo Casel e l’hanno ripresa poi altri Autori[3]: non ci sarebbe difficoltà nell’affermare che il Sacrificio viene offerto per i martiri come per gli altri defunti, dato che si offre pro dormitione dei martiri e, invece, pro remissione peccatorum dei defunti in genere. Sia nel caso dei defunti che in quello dei martiri, il sacrificio eucaristico è sempre la sorgente della loro santificazione e glorificazione. Notiamo che il MR 1970 nella sua versione italiana ha aggirato il problema con delle traduzioni molto libere dei testi di cui sopra.
Il martirio ha una dimensione ecclesiale; mostra a tutti gli uomini la forza vittoriosa di Cristo che ha superato la morte, e l’eminente potenza del suo Spirito che anima e sostiene il suo corpo mistico, la Chiesa, nella lotta contro le potenze delle tenebre e del male. Il martire non è soltanto “imitatore di Cristo”; egli è anche membro della Chiesa, Sposa di Cristo. In questa prospettiva, il sacrificio del martire si manifesta come la risposta della Chiesa alla carità del suo divino Sposo: il sangue versato dal martire è il sangue stesso della Chiesa. Così si esprime un prefazio del Veronese quando afferma che per mezzo dei suoi martiri la Chiesa offre il suo proprio sangue: obsequium proprii cruoris exhibuit (Ve, n. 818). Celebrando la memoria dei santi, la Chiesa entra in comunione con essi e partecipa misticamente al loro destino.
La venerazione dei santi si colloca nell’ambito del mistero della Chiesa. In concreto, poi, il “luogo” proprio in cui si esplicita primariamente il loro culto è la comunità cristiana locale in cui i singoli santi furono storicamente inseriti. Quindi la funzione “esemplare” del santo e il suo ruolo di “intercessione” sono da situare anzitutto nel contesto delle diverse Chiese locali.
Finché rimasero strettamente congiunti sepolcro e festa locale nell’anniversario, il martire fu visto del tutto naturalmente nella sua funzione di modello e tutore della comunità che cresceva sotto la sua protezione. Dall’epoca merovingia in poi si avverte un sensibile scadimento e impoverimento nel culto dei santi per l’accento smisurato posto sul loro potere taumaturgico e quindi sul ricorso talvolta interessato alla loro intercessione. Da quando si consolida la prassi della canonizzazione papale (secoli XII-XIII) con l’esame sempre più minuzioso delle “virtù eroiche”, si accentua l’aspetto “morale” della santità e ci si sforza di proporre il santo come modello di vita cristiana. In un certo senso, si può affermare che la santità non è più vista in stretta connessione col mistero di Cristo, ma appare per lo più come un insieme di virtù, di regole spirituali e di pratiche ascetiche[4].
Con il Vaticano II e il conseguente periodo di riforme, si è tentato di realizzare un serio sforzo di approfondimento teologico che intende tornare ai valori migliori della tradizione. Il nuovo prefazio nella solennità di Tutti i Santi del MR 1970, celebra questi membri eletti della Chiesa che Dio ci ha dato come “amici e modelli di vita” (adiumenta et exempla).
Nella prassi pastorale il culto dei santi dev’essere un’occasione per maturare e approfondire un’autentica spiritualità cristiana in cui Cristo Gesù e il suo mistero pasquale siano veramente il centro e l’obiettivo costante di tutta quella tensione di fede che il culto dei santi è riuscito ad esprimere e a sprigionare nella storia della spiritualità cristiana. La santità non è altro che lo sviluppo supremo della grazia battesimale. Essa è dunque comunione con Cristo nell’atto stesso della sua morte e risurrezione, nella sua Pasqua. Ecco quindi che tutte le forme di espressione della santità cristiana si modellano sull’esempio di Cristo morto e risorto, del Cristo del mistero pasquale[5]. Questo mistero è anche e soprattutto la sorgente di ogni santità, come precisa l’Istruzione Inter Oecumenici della Sacra Congregazione dei Riti, quando afferma, al n. 6, che tutto lo sforzo pastorale deve tendere a far vivere il mistero pasquale, “nel quale il Figlio di Dio, incarnatosi e fattosi obbediente fino alla morte di croce, è talmente esaltato nella risurrezione e nella ascensione, da poter comunicare al mondo la sua vita divina, affinché gli uomini, morti al peccato e configurati a Cristo, ‘non vivano più per se stessi, ma per colui che è morto ed è risuscitato per loro’ (2 Cor 5,15)”».

NOTE
[1] “Ipse est panis qui de caelo descendit. Fortes sunt martyres, firmi sunt martyres, sed panis confirmat cor hominis” (Agostino, Serm. 333, 1: NBA ; PL 38, 1464).
[2] “Ibi sacrum Christi sanguinem ministravit: ibi pro Christi nomine suum sanguinem fudit. Ad mensam potentis prudenter accesserat” (Agostino, Serm. 304, 1: NBA ; PL 38, 1395).
[3] Cf H. Hild, Le Mystère des saints dans le Mystè Chrétien, in LMD n. 52 (1957) 8-10; B. De Gaiffier, Réflexions sur les origines du culte des martyrs, in LMD n. 52 (1957) 38-39.
[4] La decretale di Alessandro III che riserva le canonizzazioni a Roma è del 1171 (cf P. Molinari, Criteri di canonizzazione, in Aa.Vv., Santità e agiografia. VIII Congresso di Terni, Marietti, Genova 1991, 89-112).
[5] Cf P. Massi, Il mistero pasquale nella vita della Chiesa. Saggi di teologia ecclesiale e liturgica (Chiesa viva 8), Sales, Roma 1968, 153-171; P. Sorci, La Chiesa celebra la pasqua del suo Signore, in Aa.Vv, La celebrazione liturgica a 30 anni dalla ‘Sacrosanctum Concilium’ (Nuova Collana Liturgica – seconda serie 11), O.R., Milano 1993, 35-65.


Autore:
Matias Augé

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Aggiunto/modificato il 2016-05-21

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