Comunione di vita e di destino
“Quando sentirai che mi hanno ucciso, dirai un requiem per me”. Risponde così padre Ottorino Maule all’amico don Corrado Marangone che lo mette in guardia: attento, in Burundi vai a diventare martire. È il luglio del 1995. Padre Maule torna nel Paese d’Africa, insanguinato da un’infinita guerra civile, dopo aver partecipato in Italia al Capitolo generale dei Saveriani. Saluta la mamma Assunta, ottantanovenne, per l’ultima volta. A settembre è già morto, vittima dell’odio, insieme al confratello padre Aldo Marchiol e alla volontaria laica Catina Gubert. Uccisi da tre soldati che prima li fanno inginocchiare, poi sparano a bruciapelo.
L’ha messo in conto il martirio, padre Maule. E l’ha anche scritto. Il 30 luglio 1995 - due mesi esatti prima della morte - il settimanale della diocesi di Vicenza La Voce dei Berici pubblica un suo articolo. Vi si legge, tra l’altro: “In marzo, in un momento particolare di tensione e di pericolo, il governo italiano ci invitava a rientrare in patria. Alla radio del Burundi avevano parlato di questo invito. Immaginate l’allarme che la notizia aveva portato tra la nostra gente! Un ragazzo mi ha chiesto: È vero che ve ne andate? Gli ho risposto: Noi abbiamo deciso di restare con voi! Dovreste aver visto il sorriso e la gioia sul suo volto! Non è facile elencare i motivi che giustificano la decisione di quasi tutti i missionari, molti volontari compresi, di restare sul posto nonostante i pericoli. Viviamo concretamente e giorno dopo giorno quella comunione di vita e di destino con i fratelli ai quali siamo inviati che fa parte della nostra vocazione missionaria: alleviare le sofferenze, cercare e distribuire aiuti, infondere speranza, dire che è ancora possibile la riconciliazione, il perdono, il vivere assieme.
D’altra parte siamo testimoni scomodi delle continue ingiustizie perpetrate e un po’ tutti abbiamo ricevuto minacce per questo. Se non altro la nostra presenza e la denuncia dell’oppressione e della menzogna hanno impedito o almeno limitato i danni. E di questo la gente ci è riconoscente. In una parola: nel dramma attuale del Burundi sentiamo quanto è importante restare vicini a chi è vittima della violenza, cercare di aiutare materialmente e spiritualmente sia le singole persone (vedove, orfani, perseguitati...) sia le comunità cristiane che portano le conseguenze delle violenze e della divisione.
È questa, secondo noi, la modalità concreta di fare missione che il Signore ci chiede in questo particolare momento”. Vai a diventare martire, dice l’amico prete. Ma padre Ottorino Maule non è tipo da tirarsi indietro. Ha grinta e coraggio da vendere, un duro quando si tratta di difendere il Vangelo e i poveri. È troppo buono e generoso per abbandonare la gente del Burundi al suo destino. Lo condividerà a costo della vita. Abbiamo deciso di restare con voi.
Una famiglia cristiana
È veneto di Gambellara, provincia di Vicenza, Ottorino Maule. Vi nasce il 7 aprile 1942, mentre intorno sono i giorni dell’odio, dell’orrore, dell’insensatezza: la seconda guerra mondiale. Famiglia cristiana sul serio la sua. Oltre a lui ci saranno un fratello missionario e quattro sorelle suore. Il 3 settembre 1959 Ottorino diciassettenne, dopo il ginnasio nel seminario di Vicenza, si presenta dai Saveriani a San Pietro in Vincoli presso Ravenna.
Vuol diventare missionario. Fa la professione religiosa il 3 ottobre 1960. È ordinato sacerdote il 15 ottobre 1967, venticinquenne, mentre tanti suoi coetanei si preparano alla contestazione sessantottina. Un anno di teologia, poi eccolo a Roma, dove prende la licenza in Liturgia. È appena finito il Concilio e certamente il giovane saveriano viene coinvolto negli entusiasmi e nei fervori ecclesiali -a volte anche eccessivi - del tempo.
Scoppia l’inferno
Il suo post-Concilio lo andrà a vivere subito in prima linea. Nel maggio del ‘70 lo destinano al Burundi, uno dei Paesi più poveri del mondo, nel cuore dell’Africa. Ci arriva il 3 settembre, dopo lo studio del francese a Parigi. Ha ventotto anni, tanta voglia di fare, l’allegria e l’ottimismo dei giovani. E lavora subito sodo. Racconta un confratello: “Ricordo la sua disponibilità totale ai lavori umili, e non di rado necessari, che fanno parte della nostra quotidianità. Si trattava di trasportare con la camionetta sassi, terreno, mattoni e lui era perennemente in viaggio”.
Impara la lingua kirundi e nel 1971 è mandato a Rumeza per un anno di apprendistato. Altro spostamento a gennaio del ‘72. Va a Minago, con i padri Pedrotti e Marchetto, poi arriverà anche don Corrado Marangone, prete fidei donum della diocesi di Udine. Dopo tre mesi che è lì, scoppia l’inferno. Le due etnie burundesi, da sempre contrapposte, prendono le armi. Sarà un massacro.
Spiega P. G. Ferrari: “Il Burundi - sei milioni di abitanti in una superficie pari a Lombardia e Liguria - sta vivendo ormai da anni una situazione di conflitto etnico scoppiato poco dopo l’indipendenza (1962). In Burundi infatti sono presenti due etnie, hutu e tutsi, come nel vicino Ruanda. Gli hutu sono la maggioranza (85%), ma fino al 1993 non hanno mai avuto il governo e ad ogni tentativo di chiedere il potere sono schiacciati dall’etnia tutsi (15% della popolazione), che ha sempre dominato, in campo amministrativo e ora soprattutto militare. Nel 1972, in una prima grande repressione, i morti furono trecentomila; Sono poi seguite altre, non meno feroci anche se meno estese”.
Preghiera e fatica
Quella guerra, come tutte, lascia sul terreno distruzione, orrore, odio. I missionari provano a ricostruire case, coltivazioni, rapporti. Testimonia don Corrado Marangone: “Fu in questa situazione che padre Ottorino fu portatore di Buona Notizia e di speranza. Nei giorni della strage, quando non si poteva fare niente, è rimasta proverbiale la sua calma ed il suo modo di sopravvivere psicologicamente ad una situazione impossibile, anche solo da tollerare: leggeva giornalini! Inoltre, non stava mai ad ascoltare discorsi lamentosi che fiaccassero la speranza.
Cercava sempre quel piccolo spiraglio che la vita ti permette per continuare a vivere. Agiva partendo da quello. Se c’era la necessità di trasportare qualche ferito o malato, egli era sempre disponibile. Quando era possibile (in assenza di geremiadi), si metteva insieme alla comunità per giocare a carte. Beninteso che il tempo della preghiera e della Parola di Dio rimaneva il più importante”.
Non si lascia prendere dall’angoscia, padre Maule. Prega e fatica. E quando serve gioca a carte e si rilassa con i fumetti. Ma lavora per ridare vita, speranza e dignità alla povera gente. Capisce che bisogna partire dall’economia. Fonda una cooperativa. Gli scopi: far tornare le persone a lavorare, renderle padrone del loro destino, aiutarle a vivere nell’onestà e nella collaborazione, promuovere un commercio equo. Un successo: tutti corrono a farsi soci. E le cooperative si moltiplicheranno.
Poi pensa alla scuola. Cancellata dalla guerra e dalla paura, perché chi ha un titolo di studio ed è dell’etnia sbagliata viene eliminato per primo. Ricorda ancora don Marangone: “A Minago erano quasi tutti sbagliati. Bisognava provvedere ad un minimo di istruzione per i ragazzi. Così la missione organizzò la scuola per i figli dei cristiani. Tutti i ragazzi venivano alla missione e vi risiedevano una settimana al mese, a turno. Scuola, giochi, preghiera, cinema, tutto contribuiva ad un’aria di festa indescrivibile. Padre Ottorino con una suora ne era il responsabile felice. Quando aveva qualche cruccio andava a farselo passare lì. La simpatia nata da quella scuola durata alcuni anni è ancor oggi cemento di unione fra quella gente”.
Quella scuola si chiama in lingua locale indaro. Padre Maule ne parla in un articolo per il giornale Missionari Saveriani dell’aprile 1974: “Indaro in kirundi vuol dire alloggio. Nel nostro caso si tratta di un internato particolare. Credo che si potrebbe definire in un senso più completo: scuola di preparazione alla vita. Abbiamo quattro gruppi di persone che frequentano l’indaro: due di ragazzi e due di ragazze, divisi soprattutto secondo l’età. Ogni gruppo è composto da un centinaio di ragazzi divisi in tre classi. Programma: religione, lettura, scrittura, calcolo, igiene e formazione morale, civica, sociale. Scopo: formare futuri cristiani adulti, sfruttando il contatto personale che si può avere dopo una conoscenza e un’amicizia realizzate in quattro-cinque anni di frequenza. La permanenza di una settimana al mese serve a formare un senso sociale tra i ragazzi, una conoscenza reciproca. Di tanto in tanto si offrono occasioni propizie. Un esempio: alcuni ragazzi avevano picchiato ed insultato un loro compagno accusandolo ingiustamente di aver rubato cinque franchi. Era di sabato pomeriggio e poco dopo doveva esserci la celebrazione penitenziale. Abbiamo sfruttato il fatto per spiegare come il peccato ci separi anche dagli altri e come sia necessaria la riconciliazione. In chiesa abbiamo invitato i colpevoli a uscire e tre l’hanno fatto spontaneamente (nessuno era stato chiamato) e hanno chiesto scusa all’accusato. Durata: per il momento si pensa ad un ciclo di quattro anni, secondo la formula tradizionale del catecumenato. Di fatto diventeranno almeno cinque. Vengono a otto anni come per le scuole statali, fino al termine del ciclo. Ogni anno si pensa di farli venire 9-10 settimane. In pratica l’indaro rimarrà chiuso in luglio e agosto. In una visione d’insieme, vorremmo dare a tutti, per quanto è possibile, un’educazione cristiana di base, consistente nell’istruzione religiosa, alfabetizzazione, formazione umana e una spinta verso lo sviluppo e il progresso. Questo è lo scopo sia dell’indaro che del foyer e del catecumenato. Ognuna di queste tre attività ha elementi comuni, anche se con specializzazioni diverse. Riflettendo, vorremmo vedere se è possibile una certa fusione per semplificare il lavoro, dato che ognuno di questi elementi è necessario per la formazione globale della nostra gioventù. Ma siamo ancora sul piano delle idee. Nel nostro piccolo, vediamo che il lavoro non manca. Peccato che si viva nell’incertezza a causa della situazione politica e dell’avvicendamento dei Saveriani!”.
Aiutarsi fra poveri
Nello stesso articolo padre Maule informa sulle altre attività a Minago, denunciando che “nelle difficoltà politiche attuali non ci è possibile riorganizzare i vari gruppi di attività. Sarebbero subito interpretati come movimenti a carattere politico. Visitiamo regolarmente anche le succursali, cercando di curare in modo particolare la gente che ha lavorato con tanto impegno e sacrificio alla costruzione o alla risistemazione delle cappelle. Curiamo il catecumenato e cerchiamo di incoraggiare la gente a far parte della Caritas, l’unica associazione che ci è possibile tenere in piedi. Lavora molto bene e abitua i nostri cristiani all’aiuto reciproco. Ogni associato versa la sua offerta in una cassa comune. Sono tutti veramente poveri, ma si tassano ogni mese, di 5 o 10 franchi, per questo aiuto fraterno. La seconda domenica di ogni mese poi si radunano e destinano le offerte raccolte ad alcuni poveri veramente bisognosi, scelti senza distinzione di razza o di religione”.
E spiega ancora cos’è il foyer di cui ha fatto un accenno: “Per preparare alla vita le adolescenti è stato istituito il foyer sociale, diretto dalle suore. Ci sono quattro giorni di insegnamento, in due gruppi distinti, ogni settimana. Il programma comprende religione, lettura e scrittura, igiene e formazione umana, preparazione della donna con cucito, cucina e lavanderia. È in programma anche un breve corso di agricoltura, che mira soprattutto alla preparazione e alla coltivazione di un orto familiare. Purtroppo, data la ristrettezza degli ambienti e del personale, non è stato ancora possibile accettare tutte le domande ricevute”.
Sempre nello stesso articolo, padre Maule spiega ancora che “per risollevare dalla miseria queste popolazioni e aiutarle a progredire sulla via di un sano progresso abbiamo dato vita ad alcune cooperative. Le prime esperienze in questo campo sono molto positive, sia per i frutti che si raccolgono, sia per la collaborazione che la gente del luogo dà. Pare che comincino a rendersi veramente conto della utilità di unire le forze per progredire insieme. La cooperativa che fino ad oggi ci ha dato le maggiori soddisfazioni è stata quella della pesca. Il lago Tanganika è molto pescoso e gli sforzi congiunti dei cristiani ci hanno permesso di migliorare i mezzi di cui disponiamo e hanno già dato a parecchie famiglie una casa migliore e una vita più serena. Speriamo di ottenere presto l’autorizzazione dello Stato a sviluppare maggiormente questa e altre attività, come riparazioni di orologi, radio, macchine da cucire...”.
Alla scuola del fondatore
Evangelizzazione e promozione umana: padre Ottorino Maule prende alla lettera le nuove parole d’ordine della Chiesa post-conciliare, anzi le realizza prima che siano pronunciate e codificate in tanti documenti. Poco più che trentenne ha già ben chiaro cosa vuol dire fare il missionario alle soglie del Duemila. Viene dalla scuola del Conforti, il vescovo che quasi un secolo prima ha lanciato i suoi figli spirituali, nel nome di san Francesco Saverio il grande apostolo della missione, nell’avventura della testimonianza del Vangelo ai popoli che ancora non lo conoscono. Dal fondatore aveva imparato che “la sovranità di Cristo non si limita al santuario della coscienza, all’ambito della famiglia, ai confini di una nazione, essa si estende a tutto il mondo; essa trascende tutti i diritti nazionali, tutte le ragioni di stato, tutte le esigenze politiche. A Lui dal Padre suo celeste furono date in eredità tutte le genti”. E nello stesso discorso pronunciato a Palermo nel 1924 e che aveva avuto un plauso scritto anche da Mons. Roncalli, il futuro Giovanni XXIII, Conforti aggiungeva: “Milioni di fratelli soffrono sete di giustizia, di verità, di pace, di amore”. E ancora: “In questo mondo egli (Gesù) si trova non solo nell’Eucaristia, ma ben anche nella persona dei poveri, degli afflitti, dei derelitti”. È lo stesso mandato di Gesù ai dodici: “Andate, predicate, guarite”. Venti secoli dopo il giovane Ottorino Maule fa proprio così, fa ancora così. Cambiano i gesti e le parole, ma il messaggio è sempre quello risuonato un giorno nelle contrade della Palestina.
Continua don Marangone, sullo stile umano e missionario di padre Maule: “Penso a quegli anni come alla maniera ideale di fare comunità. Persone che mettono a disposizione una dell’altra esperienza, riflessione, tempo, fede. Si comunicava: cioè le idee passavano dall’uno all’altro, senza competizioni. Eravamo capaci di parlare per cinque ore di seguito: alla fine non erano le idee di partenza né dell’uno né dell’altro che facevano prendere le decisioni. Erano decisioni nuove, generate dalla comunione, col contributo di ricerca, passione, interesse degli interlocutori. E dopo aver preso le decisioni insieme, ognuno operava nel campo della sua responsabilità senza interferenze. Era capace di donarsi, capace di sorridere, capace di amare; ma in maniera virile, cioè nell’assumersi responsabilità, nel prendere decisioni soppesate e maturate da tutti, nello stimolare ognuno ad assumersi le proprie senza sostituirsi alle altrui, sia della gente che dei confratelli. Bonario, pacato, riflessivo, colto: parlare con lui era arricchirsi. Parlargli era un piacere. Sapeva ascoltare”. A fine ottobre del 1975 chiedono a padre Maule di andare per un po’ ad aiutare la missione di Murago. Da lì, dopo quattro mesi - febbraio 1976 - lo mandano a fare il responsabile di quella di Rumeza, sua prima sede nel 1971. I suoi collaboratori sono i confratelli padre Giuseppe De Cillia e padre Sergio Marchetto e il missionario fidei donum trentino don Ruggero Fattor. Ci resta tre anni.
Una missione, 140 colline
Non si sa granché di quel periodo. C’è una sua lettera al Superiore generale del 1° aprile 1978 nella quale fa un po’ il bilancio dell’esperienza: “A Rumeza va bene, e i due anni passati qui sono volati via. Con padre Bepi De Cillia e don Ruggero si lavora molto e di comune accordo.
Don Ruggero è stato preziosissimo e impegnatissimo. Padre Bepi, poi, lo conosci bene: safari e costruzioni non gli lasciano un momento libero. Nel 1977-’78 ha seguito la costruzione di quattro scuole a Rukina, quattro a Kizuga, una chiesa a Gasaro nuova succursale (verso Muyama) e tanti altri lavoretti. Per quest’anno vorremmo dare inizio ad un settore a parte della parrocchia con centro a Kanyiunya. La zona si è sviluppata molto in questi ultimi dieci anni: ci sono 6000 cristiani, circa 750-800 catecumeni e tante famiglie giovani. Non si tratta di una nuova parrocchia, non spaventarti! Vorremmo costruirvi una casetta decente e poi, con l’aiuto della gente e di qualche anima buona, qualche sala per riunioni, animazione sociale, sperando di farvi arrivare anche le suore, almeno per qualche giorno al mese. Per la fine di aprile speriamo di terminare i ritiri pasquali al centro e nelle succursali, per iniziare poi il giro delle comunità sulle colline, che sono attualmente 140. Buona parte del nostro lavoro è speso per la formazione dei responsabili di tali colline, nel visitare le comunità e preparare le loro riunioni mensili. Vediamo che ne vale la pena. C’è un buono spirito nella gente e, dove i manama funzionano, le comunità vanno bene. Si rendono più indipendenti e così tante cosette le risolvono tra loro senza venire sempre qui.
Qui viene qualcuno di tanto in tanto, quando sulla collina o alla succursale non sanno che fare. Speriamo di avere imboccato la strada giusta. C’è il pericolo che dando responsabilità sia più difficile imporre soluzioni (quasi impossibile) o correggere deviazioni, ma vale la pena correre il rischio e fare sì che prendano in mano la vita della loro comunità. Scusami se ti faccio perdere tempo prezioso con le mie chiacchiere: volevo solo dirti in breve cosa facciamo a Rumeza dove ti ricordano ancora, soprattutto a Horezo dove la chiesa che hai costruito tiene ancora. Quello che desidero è di poter continuare in questo lavoro che mi fa sentire al mio posto e utile alla Chiesa”.
Come una croce: il rientro
Teme che lo richiamino in Italia, padre Maule. Accade sei mesi dopo. Risponde così il 1° novembre ‘78 al padre Trettel della Direzione generale: “Ho ricevuto giorni fa la tua lettera e i due numeri di Comunicazioni. Ho portato tutto con me in succursale e oggi pomeriggio mi sono divertito a leggerne un po’ in fretta il contenuto. È come leggere cose a cui non si pensa mai, che interessano gli altri, lontane, lontanissime, e che sono così complicate da far perdere il filo. Mi sento completamente estraneo, abituato come sono a problemi più semplici, a esprimermi in un linguaggio abbordabile per i nostri semplici cristiani. I miei problemi formativi - e ne ho - sono totalmente diversi: formazione dei catechisti, di animatori delle piccole comunità (le nostre colline) e dei vari Movimenti. E poi ci sono i safari. Mi chiedi del mio rientro. Non ci penso mai e continuo per la mia strada. A dire la verità, ci penso di tanto in tanto, ma come qualcosa che verrà a rompere un lavoro e che sarà una croce. E siccome non ho bisogno di aggiungere croci a quelle che ho già, cerco di continuare nel lavoro come se non ci fosse nulla che lo interromperà. Ora poi che padre De Cillia è in vacanza siamo in due a tirare la carretta, don Ruggero Fattor e il sottoscritto. Ciao, allora, e buon lavoro!”.
La croce gli arriva addosso ad aprile del 1979. Deve tornare in Italia. Obbedisce. È già in patria da due mesi quando viene espulso dal Burundi: è tra i settanta missionari cacciati dal dittatore Bagaza. I superiori l’hanno richiamato per affidargli la formazione dei giovani futuri missionari. Va a Zelarino, presso Venezia, insegnante per l’anno scolastico 1979-’80, rettore dall’81 all’84. Ma il suo cuore è rimasto in Africa. Il Superiore generale gli scrive il 2 aprile 1982: “Ti spero bene e sempre al tuo lavoro, che non è facile, e che so che tu stai facendo molto bene. Sento echi favorevoli a destra e a sinistra. Il tuo impegno e il tuo lavoro, fecondati dalla lontananza certamente dolorosa dalla missione, vanno a beneficio della santa Chiesa molto prima che dei Saveriani. Sentiti quindi al tuo posto nell’attività missionaria anche se sei a Zelarino, invece che in missione”.
30 aprile 1984: padre Ottorino Maule viene eletto dai confratelli Superiore Regionale d’Italia, cioè responsabile di tutti i Saveriani e di tutte le comunità del Paese. Alla scadenza del mandato, nel 1987, è rieletto per un secondo triennio. In quei sei anni visita, incoraggia, conforta e ammonisce. Non sono tempi facili: “La situazione sociale e religiosa dell’Italia - spiega padre Renato Trevisan - stava mettendo in crisi gli ambienti tradizionalmente ricchi di vocazioni. Si viveva nell’incertezza. Le case di formazione andavano svuotandosi. Era realmente difficile gestire quella nuova situazione, cercare non solo il rinnovamento delle strutture, ma anche quello delle persone che fossero disposte a lavorare in quelle condizioni. Qualcuno definisce quegli anni come il periodo della decadenza nell’impegno missionario-vocazionale a tutti i livelli. Padre Ottorino percorre l’Italia da cima a fondo, partecipa alle programmazioni delle comunità, incontra i confratelli, propone, discute, e, qualche volta, proprio per il suo carattere deciso, trova anche delle opposizioni. Chi lo conosce sa della sua rettitudine e non si meraviglia se, dopo una discussione anche accesa, egli ritorna con estrema facilità alla serenità, distinguendo sempre la persona dal problema”. Aggiunge padre Marini, Superiore generale: “Pochissimi avevano come lui la capacità di una lettura rapida e precisa delle situazioni, di trovare la soluzione appropriata e di portarla a compimento con decisione e coerenza”.
Per fedeltà
Esaurito il mandato, il 26 aprile 1990 padre Ottorino Maule è destinato di nuovo alla missione, di nuovo al Burundi. Passa un anno di studio a Parigi. Poi, il 7 settembre 1991, arriva a Buyengero. Ha quarantanove anni. Gli domanda prima della partenza un giornalista della Voce dei Berici: “Perché torna in Africa alla sua età? Perché non resta qui, dove c’è tanto da fare?”. E lui: “È ciò che mi chiedono in molti. La risposta è semplice: nella Chiesa ci sono tante vocazioni. La mia è quella di partire, di annunziare Cristo altrove dove non è ancora conosciuto, dove la Chiesa è ancora agli inizi o non esiste, di testimoniare tra quelle popolazioni l’amore di Cristo, vivendo con loro, condividendo gioie e sofferenze. Riparto con un atteggiamento di spirito diverso da quello di ventuno anni fa: allora avevo l’entusiasmo della giovinezza, ora invece è per fedeltà alla vocazione missionaria che ho chiesto di riprendere il cammino”. Abbiamo deciso di restare con voi, dirà al ragazzo burundese quattro anni dopo. Ecco perché: per fedeltà. Fino alla morte, fino al martirio, se necessario. Con lui a Buyengero c’è padre Modesto Todeschi. Che fa questo bilancio della presenza di padre Maule: “Ripensando e direi meditando sugli anni passati con padre Ottorino nel campo della formazione, prima quando era Superiore regionale in Italia e poi come suo collaboratore per quattro anni in Burundi, sento che è stato un dono grande. Mi manca per la sua serenità anche nelle situazioni più drammatiche, per la sua stima-amicizia sincera che esprimeva con una delicatezza tutta sua e una finezza che lo caratterizzava. Sono stati anni vissuti in una santa emulazione nello zelo pastorale, nell’amore alla gente, nella gioia di celebrare con loro, nell’essere disponibili il più possibile ed utili anche socialmente. Era unico per quanto riguarda la capacità di organizzare anche i lavori materiali, con le équipe che sapeva formare da maestro pur non essendo costruttore. Ha avuto certamente un record assoluto in tutta la storia della Chiesa cattolica in Burundi per aver costruito in pochi anni sia la chiesa parrocchiale che le altre nove delle succursali, e inoltre aule scolastiche, dispensario, strade, ecc.
Viene da pensare che un’attività così intensa l’ha voluta realizzare perché sentiva che aveva poco tempo da vivere. Io mi dicevo spesso che non poteva resistere fisicamente ed infatti ne aveva risentito. Aveva molto buon gusto nel preparare e discutere i piccoli o grandi progetti delle diverse opere. Li disegnava con precisione come fosse stato un architetto, si appassionava nel completarli, abbellirli e rifinirli. Sono e saranno certo il ricordo più duraturo, o meglio, il più visibile. Ma era soprattutto un organizzatore intelligente e tenace della pastorale. Curava la preparazione dei formatori, e cioè dei catechisti impegnati nell’alfabetizzazione (una ventina), di quelli domenicali per gli scolari (una novità studiata e realizzata insieme: sono 120 e più), dei diversi responsabili dei movimenti di Azione Cattolica. Organizzavamo tre sessioni di due giorni ciascuna in tre periodi dell’anno. Passavano così al centro 340-350 fra giovani e meno giovani. È stata l’opera più importante già sperimentata da lui a Rumeza nei tre anni passati là dal ‘76 al ‘79. Importantissima e capillare poi fu l’impostazione delle comunità di base e delle succursali, come aveva fatto anni prima a Rumeza. Quando arrivò a Buyengero trovò 9 succursali: alla sua morte ne lasciò 20, tutte con la loro chiesetta e scuoletta in mattoni, con le fondamenta e i pilastri in cemento. Ne andavamo fieri, anche se ci erano costate tanto lavoro, perché avevano trovato la collaborazione entusiastica da parte della gente”.
Formare leaders
Per fedeltà, padre Ottorino Maule ormai cinquantenne si lancia senza riserve nella nuova avventura missionaria nel Burundi, dall’odio e dalla povertà che sembrano irredimibili. E nel marzo del 1992 può già scrivere al Superiore generale: “Sono arrivato quasi sei mesi fa e mi sento ormai a mio agio e abbastanza reinserito nel nuovo ambiente: nuovo per modo di dire, perché ho incominciato a conoscerlo più di vent’anni fa. Ero un po’ preoccupato prima di venire e mi domandavo come sarebbe stato l’impatto con la realtà africana dopo tanti anni di assenza. È stato più facile del previsto, eccetto la lingua che non è ancora ritornata del tutto, ma riesco ad esprimere tutto quello che voglio e a tenere le sessioni di formazione. La nuova parrocchia del Buyengero, dove mi trovo col padre Modesto, sta organizzandosi e prendendo la sua fisionomia. Ha poco più di un anno di vita e sta crescendo anche come territorio. Proprio in questi giorni una parte della parrocchia di Rumonge è venuta a completare il territorio della nostra missione. Ci siamo dati un programma di massima e le mete che vorremmo raggiungere d’accordo con il vescovo che è venuto in visita pastorale nel mese di novembre. Ecco il programma: rilancio delle comunità di collina. Pensiamo di visitarle tutte durante la stagione secca, per ora abbiamo incontrato i responsabili. Formazione dei leaders, dei responsabili dei movimenti e dei ministeri, nel tentativo di moltiplicare i ministeri all’interno della comunità cristiana perché diventi sempre più soggetto responsabile di se stessa. Attenzione alla gioventù, in particolare agli scolari. Anni fa avevamo corsi molto seguiti di alfabetizzazione, ora si sono moltiplicate le scuole elementari e la maggioranza dei ragazzi le frequenta.
Per assicurare la loro formazione religiosa, dato che la mezz’ora settimanale di religione che ricevono a scuola ci sembra insufficiente, abbiamo lanciato la proposta, accolta dai genitori e da un buon gruppo di cristiani, di far dare loro una lezione di catechismo da catechisti volontari alla domenica, dopo la messa o dopo il servizio domenicale.
Ne abbiamo un numero sufficiente (112), due a due per classe in ogni succursale (uno per i ragazzi e una per le ragazze). Ora si tratta di seguire e formare questi nuovi catechisti, ma la cosa, iniziata dopo le vacanze di Natale, sembra prendere piede ed essere avviata bene. Per la formazione dei responsabili abbiamo già tenuto tutta una serie di sessioni (10) che ci hanno visti impegnati per cinque settimane tra gennaio e febbraio con un totale di 394 partecipanti.
Un buon numero di partenza. Non mancano evidentemente le altre attività normali. Vorremmo però incentrare i nostri sforzi sulla formazione dei leaders e, al tempo stesso, far sì che le comunità diventino missionarie, attente ai non cristiani ancora numerosi in questa regione dove i cattolici sono solo il 30% circa dell’intera popolazione e dove fioriscono Chiese e sette”.
Casa mia, le loro case
“Il lavoro non manca e mi trovo veramente bene. C’è sempre l’interrogativo dell’avvenire, soprattutto di quello politico, come il prossimo referendum sulla Costituzione, le elezioni politiche e amministrative che seguiranno, la democratizzazione del Paese. Sono ottimista e credo che tutto si risolverà bene. Dal lato sviluppo, almeno nella nostra regione, la gente si dà da fare per migliorare l’habitat, ottenere acqua potabile, migliorare l’agricoltura, anche se la povertà rimane sempre tanta. Ho poi trovato la Chiesa locale di Bururi totalmente cambiata. Il clero locale si è rafforzato ed ha in mano l’organizzazione della diocesi e la direzione della maggioranza delle parrocchie. A prima vista si potrebbe dare ragione a quanto scrivete nella relazione della visita fatta dal 3 al 15 gennaio 1992: Nel giro di pochi anni i preti locali prenderanno il nostro posto, ma di fatto non è ancora così immediata la realizzazione della vostra convinzione. È chiaro che il clero locale è in aumento, ma è ancora insufficiente e il vescovo monsignor Bududira stesso sta cercando altri preti (in Zaire, mi diceva ultimamente) perché ci sono parrocchie scoperte, altre con personale insufficiente e zone non ancora evangelizzate. Da noi poi solo un terzo della popolazione è cattolico eci sono le comunità cristiane da costituire. I danni del periodo Bagaza si notano: mancanza di formazione, defezioni, relativismo religioso. Ci sono poi tante cose da fare: traduzioni, sussidi, formazione... e non tutti sono all’altezza di poterlo fare. Non va dimenticato infine il senso profondo di una nostra presenza missionaria, che tenga viva in questa Chiesa l’urgenza dell’evangelizzazione dei non cristiani qui e altrove”.
Il 16 ottobre del ‘92, sette mesi dopo, padre Maule scrive ancora al Superiore generale e gli confida la sua gioia: “Ad un anno abbondante dal mio arrivo mi sembra di vedere la benedizione di Dio sul nostro lavoro e di aver portato avanti le priorità fissate dal vescovo per questa parrocchia. Da mesi ormai stiamo visitando le 86 piccole comunità che la formano. Finiremo la settimana prossima perché il programma è stato ritardato dalle misure prese in occasione dell’epidemia di meningite. Sono incontri indimenticabili: cinque-sei ore passate insieme (preghiera, Parola, scambio di riflessioni, Penitenza, Messa e pranzo comunitario). Queste visite ci permettono di incontrare la gente nelle loro case o nei luoghi della riunione mensile. Inoltre, non poche volte, vi partecipano battezzati che hanno abbandonato la Chiesa o vivono ai margini della comunità. Così ci sentiamo missionari e non solo pastori del gregge affidatoci. La gioia della gente è tanta, è la sagra della comunità cristiana della collina. Quando, finiti gli incontri, ci prepariamo ad andare in un’altra comunità, ringraziandoci ci chiedono di tornare l’anno prossimo”.
Non solo pastore
Ha il chiodo fisso della missione padre Maule. Non vuol essere solo pastore, ma missionario. Il pastore guida il suo gregge, il missionario va in cerca di tutte le pecore. Lui ha quest’ansia nel cuore. Testimonia il confratello padre Mario Pulcini che ha vissuto con lui per qualche mese: “Padre Ottorino amava il Burundi e la gente e tutto il tempo che aveva lo dedicava a loro. Incominciava la giornata al mattino presto e la concludeva alla sera tardi, dopo innumerevoli attività e molteplici incontri. Sembrava temesse di non avere tempo sufficiente per fare tutto quello che aveva in testa. E di cose ne aveva sempre tante! Si faceva fatica a conoscerle tutte, e forse nemmeno lui le programmava. Aveva un dono particolare nel saper leggere i piccoli e grandi fatti che succedevano e, di conseguenza, inventare nuove iniziative e nuovi progetti. Forse è esagerato dirlo, ma, secondo me, aveva qualche cosa del profeta, del vero profeta che non si accontenta del poco che si può realizzare, ma, a suo rischio e pericolo, cerca nuove strade e nuove esperienze per rendere sempre vera e coraggiosa la presenza della Chiesa tra la gente”. Evangelizzazione e promozione umana: i due compiti del missionario.
Ma lui ripete ai corsi di formazione per catechisti e animatori: “Prima la pastorale, poi il sociale”. E i frutti di quest’idea si vedono: “Catechisti, capi comunità, responsabili di movimenti giovanili e non - elenca padre Pulcini - sono una ricchezza voluta e ottenuta da padre Ottorino con sacrifici, preparazione, dedizione, fiducia negli altri. Amava incontrare la gente nelle piccole comunità, nelle succursali e sulle colline, nelle loro capanne e all’ombra dei bananeti. Non aveva mai fretta di tornare a casa. Si sentiva a casa sua tra la gente. Parlava volentieri e loro lo apprezzavano e lo amavano”.
A misura d’uomo
Giornate piene a Buyengero per padre Ottorino Maule. Padre Maestrini, suo successore, racconta: “Posso testimoniare l’enorme mole di lavoro sia pastorale che sociale che riusciva a portare avanti, nonostante le sue forze fossero state intaccate da una grave epatite virale che lo costringeva ad una determinata dieta e a rallentare gli sforzi. Non aveva mai tempo per riposare. Saltava da un cantiere all’altro. Seguiva i falegnami, i saldatori, i muratori, gli idraulici, trasportava materiale per i cantieri e nello stesso tempo non toglieva nulla alla pastorale. Ritiri, preparazione degli incontri, momenti di formazione dei responsabili di comunità e dei settori della vita cristiana (catechisti, capi comunità, responsabili della Caritas e dei movimenti di Azione Cattolica, responsabili dell’Eucaristia nelle succursali, dei presidenti delle assemblee domenicali, preparazione dei sussidi per le celebrazioni festive, amministrazione dei sacramenti, catecumenato ecc.) avevano sempre la precedenza. Tutta questa mole di lavoro lo occupava fino al punto che diverse volte ci vedevamo solo al mattino e alla sera. Nonostante tutto ciò, non dava mai a vedere di essere stanco e aveva sempre quel suo sorriso tanto caratteristico. Aveva avuto la felice idea di suddividere le varie succursali in comunità ecclesiali di base à taille humaine per facilitare loro la vita cristiana. Fu così che poté ricuperare alla pratica cristiana non pochi che, a causa della lontananza dalla chiesa o per altre ragioni, l’avevano abbandonata. Il fatto poi d’aver formato comunità cristiane ad una dimensione più umana ci permetteva di andare più in profondità nella formazione e nella catechesi. Si diceva che avesse un carattere un po’ duretto ed energico e forse l’avrà anche avuto, ma nel mese che ho passato insieme a lui ho notato solo attenzioni verso di me. Quando tornava dai safari o mi vedeva un po’ giù di corda portava in tavola un buon bicchiere del Gambellara bianco e mi diceva: Bevi che ti tira su”.
Così fanno i profeti
I profeti hanno tutti un carattere “un po’ duretto”. Ma il cuore, no. E così padre Maule quando vede un confratello in pena stappa per lui il vino buono. E quando vede i burundesi assaliti dalla fame, dalle malattie, dalla guerra e dall’odio si china a curarne le ferite poi indica loro la strada della pace, della giustizia, della libertà, del progresso.
Così fanno i profeti. Così fa lui, come ricorda padre Mario Pulcini: “Padre Ottorino sapeva fare di tutto. Non aveva fatto il muratore, ma ha formato muratori, non aveva fatto il falegname, ma ha formato falegnami e così per tanti altri mestieri. Portava avanti diversi cantieri, proprio per la capacità organizzativa e per l’intelligenza che lo assisteva. Formava gente capace di lavorare da sola e lui seguiva e consigliava. Le costruzioni realizzate nei quattro anni della sua permanenza a Buyengero sono scuole, chiese, dispensari, centri di formazione per ragazze ecc. Sono strutture semplici, costruite con la collaborazione e partecipazione entusiasta della gente e con l’aiuto di innumerevoli amici italiani. Non ha costruito niente che oggi la gente locale non sia in grado di gestire e portare avanti senza difficoltà. Anche questo è segno di grande senso pratico. Ma soprattutto voglio sottolineare che in questi quattro anni di costruzioni egli ha dato la possibilità di lavorare, imparare, mangiare, avere un futuro a moltissima gente e a numerose famiglie. E penso che questo possa essere uno dei motivi della sua uccisione”. La strada del profeta porta spesso al martirio. Padre Maule lo sa. Ma non rinuncia alla profezia. Che per il Burundi vuol dire prima di tutto pace tra le due etnie. Lui aiuta tutti, ma certo gli hutu sono più numerosi. E perseguitati. Così per alcuni tutsi diventa un nemico. Da far fuori. Anche perché lui non tace davanti all’ingiustizia, all’odio, al sangue. Come i profeti della Bibbia alza la voce in difesa dei deboli. Non è solo un pastore: è un missionario, e la missione esige di gridare la verità dai tetti.
Andare in profondità
Racconta ancora l’amico don Marangone: “Nel ‘91 lo vedo arrivare a Buyengero, la nuova missione confinante con la mia, costruita con il sudore ed i soldi del padre De Cillia. Arriva sfiancato dall’esperienza italiana e si mette subito con l’instancabile padre Modesto a visitare una ad una le innumerevoli colline della sua parrocchia: visite che anni prima sarebbero terminate con l’espulsione, ma che anche in anni diversi sono sempre guardate con attenzioni particolari. Fanno un lavoro di animazione straordinario. Nascono gruppi di preghiera, di catechisti volontari, di formazione alla Parola di Dio. È davvero un cantiere dello Spirito. Con calma, senza chiasso, senza agitarsi troppo, ma con un disegno chiaro e costante, i due padri stanno arando in profondità il loro campo. E giungono ad una constatazione micidiale: amare significa impegnarsi per gli altri. Impegnarsi significa limitare le ingiustizie, prima di ogni altra cosa. Significa preparare dei cristiani per amministrare la cosa pubblica. Inevitabile a questo punto è la parola proibita: il cristiano deve fare politica. Quando ho sentito padre Ottorino pronunciare questa parola ad una riunione di preti a Bururi, ho avuto paura”. Lui, invece, non ha paura di parlare di politica. Sogna la nascita di un partito che rappresenti e difenda la maggioranza perseguitata. “Se in un Paese un gruppo forma l’85% della popolazione, quel Paese è suo”, dice una volta. Idee rivoluzionarie. Anche per una Chiesa intimorita come quella burundese. Padre Maule spera nelle prime elezioni democratiche del giugno 1993, alle quali partecipa come osservatore, cioè controllore del loro regolare svolgimento. Naturalmente vince la maggioranza hutu. Ma tre mesi dopo si ripiomba nel caos: assassinato il Presidente della Repubblica, riprende la guerra civile, i morti sono 100.000, diverse centinaia di migliaia i profughi. Nel ‘94 viene eletto e subito ucciso un altro Presidente hutu. E scorre anche il sangue di preti e suore, che l’ex dittatore Bagaza tornato dall’esilio ricomincia a perseguitare.
Chiesa non solo di mattoni
Padre Maule costruisce la chiesa parrocchiale di Buyengero. “Quella fu opera totalmente sua - ricorda don Marangone - dal progetto alla realizzazione, dall’impasto dei mattoni all’ultima rifinitura, dalle campane al crocifisso: tutto è nato dal suo cuore e dalla sua fede. Un’epatite A sembrava volerlo fiaccare. Semplicemente, quando aveva crisi, specie di stanchezza, si fermava in attesa che passassero per poi riprendere con la sua metodicità”. Ma c’è un’altra Chiesa che vuol costruire, nelle coscienze e nei cuori dei burundesi. Per questo è lì, missionario e profeta, per questo dice a quel giovane: Abbiamo deciso di restare con voi. Anche a prezzo del martirio. Restare in Burundi vuol dire schierarsi dalla parte dei deboli. Contro i prepotenti e i violenti. Dalla parte della giustizia e della pace, contro l’ingiustizia e la guerra. “Quando i militari commettevano qualche ingiustizia - ricorda padre Todeschi - noi non facevamo finta di niente, ma andavamo a chiederne spiegazione e questo li urtava. Varie autorità militari, sapendo che eravamo chiari e non lesinavamo critiche, ci avevano presi di mira e cercavano di tenerci buoni. Una frase che padre Ottorino diceva spesso come uno slogan pesava loro terribilmente: Volete la pacificazione?, togliete i militari, la gente di qui non ha ucciso nessuno, se ci sono stati dei morti è stato solo per opera dei militari”. A novembre del ‘94 c’è un’assemblea sulla pacificazione. Padre Maule è presente e ripete le sue accuse all’esercito. Da lì parte un appello al Presidente della Repubblica perché sposti i soldati. Quarantott’ore dopo a un posto di controllo fermano padre Maule e padre Todeschi. Li fanno scendere, perquisiscono la macchina, la tirano per le lunghe. Passa qualche giorno, padre Maule sta trasportando un ragazzo malato alla missione. I militari lo fermano, trattengono il ragazzo, lo bastonano fino a farlo impazzire. La notte tra il 14 e il 15 novembre, uccidono cinque mandriani, tra cui due giovani tutsi, figli di un soldato.
Per mascherare l’accaduto, rastrellano e uccidono quindici uomini. E raccontano alla radio una storia di comodo: c’è stato un attacco di terroristi, nello scontro sono caduti anche i due giovani figli del militare. I padri non stanno al gioco: “Sostenemmo che potevamo testimoniare che non c’era stato nessun attacco e nessun combattimento, ma che erano stati uccisi degli innocenti”, dice padre Todeschi.
Troppo bravo, attivo, generoso
Passano altre quarantott’ore e i militari tengono una sorta di processo ai padri, assenti perché non invitati. Ce l’hanno soprattutto con padre Maule. Si chiede la sua espulsione al governatore di Bururi. Nessuno lo difende. Ma non succede niente e torna la calma. Ricorda ancora padre Todeschi: “Con il padre Ottorino si parlava abbastanza spesso dell’eventualità di una vendetta. Ci si scherzava sopra. Eravamo d’accordo che se questo fosse successo si preferiva essere sepolti poveramente come i burundesi”. Perché tanto odio contro padre Maule? Perché accanirsi contro un profeta della pace? Si potrebbe semplicemente rispondere: ènelle cose. Non può che essere così. Prendere sul serio il Vangelo in una terra come quella vuol dire finire, prima o poi, nel mirino dei signori della guerra. L’ha detto chiaro Gesù ai discepoli: “Vi mando come agnelli in mezzo ai lupi”. Ma padre Maule ci ha messo del suo. Spiega padre Todeschi: “Può darsi che l’impatto della sua attività sociale abbia dato fastidio a qualche personaggio locale. Il suo dinamismo straordinario per la costruzione di scuole, chiese, il dispensario di Muzenga, i ponti, la strada di Zingati, la vendita delle lamiere per i tetti, se per un verso era encomiabile perché rassicurava, dava lavoro ed era segno evidente di progresso, per un altro verso poteva essere visto di malocchio, specialmente per le opere non strettamente religiose, perché poteva togliere a qualcuno che sapeva i trucchi del mestiere l’occasione di fare lauti affari”. Insomma, padre Maule è troppo bravo, attivo, generoso. È anche un duro, un uomo coraggioso. Va fatto fuori, prima o poi.
Con loro, una leonessa
A metà gennaio del 1995 padre Modesto Todeschi, che è anche Superiore regionale dei Saveriani del Burundi, si trasferisce a Bujumbura, la capitale. A sostituirlo arriva un friulano sessantacinquenne, un po’ acciaccato e stanco, ma pieno di voglia di fare. È padre Aldo Marchiol, da diciassette anni in Burundi.
Coi capelli bianchi, il dolce sorriso e gli occhiali dalla montatura pesante, viene a condividere gli ultimi nove mesi di vita di padre Maule. Insieme a loro c’è la volontaria laica dell’associazione LVIA di Cuneo, Catina Gubert, “una leonessa” la definisce in una lettera padre Maule, settantatreenne, nata a Fiera di Primiero in provincia di Trento l’8 dicembre 1921. Lei pure ha i capelli bianchi e il sorriso pronto. Lei pure dice a parenti e amici: “Se muoio, lasciatemi laggiù”. Una breve parentesi in Italia, nel maggio 1995, per il XIII Capitolo generale e centenario dell’Istituto saveriano, un saluto all’anziana mamma, che sarà l’ultimo, e padre Ottorino a luglio è già di nuovo in Burundi. Il 21 agosto è riunito con i confratelli a Bujumbura ad affrontare il tema “Perché restare?”. Ma quel titolo non gli piace e lo dice subito: “È sbagliato mettere il punto interrogativo. Non dobbiamo mettere in discussione se restare, ma solo il modo di restare”. E confida a un amico: “È vero. Una sana igiene mentale consiglierebbe ogni tanto di staccare la spina, di uscire dal Paese e, per un po’ di tempo, di pensare ad altro. Ma come si fa? Loro non possono permetterselo, perché dovremmo permettercelo noi?”.
“Non c’è perdono per il bene”
Abbiamo deciso di restare con voi. La scelta è fatta. Consapevole. Padre Maule sa di essere in pericolo. Tuttavia all’amico don Marangone che lo avverte: “Guarda che non te la perdoneranno mai, il male può essere perdonato, ma non c’è perdono per il bene che hai fatto e la verità che difendi”, risponde con quelle parole: “Quando sentirai che mi hanno ucciso, dirai un requiem per me”. Mancano appena due mesi al martirio. Poi restano solo le sue lettere. In quell’estate scrive spesso ai familiari, quasi ogni giorno. Una sorta di testamento spirituale a puntate. Racconta di sè, della pace e della guerra. “La salute va bene, a parte i soliti problemi, ma basta non farci tanto caso” (15 agosto). “La situazione è quanto mai fluida e incerta. Qui da noi va benissimo e i militari presenti fino a qualche giorno fa si sono comportati molto bene.
Ora dovrebbero arrivarne dei nuovi e speriamo che siano come gli altri. A Bururi ho incontrato il comandante della Regione Sud del Paese e gli ho detto di raccomandare ai nuovi soldati il rispetto della popolazione. Speriamo bene” (20 agosto). “Altrove ci sono sempre storie, distruzioni e morti” (27 agosto). Il 3 settembre ricorda i 25 anni dalla sua prima partenza per il Burundi e commenta: “Come passano in fretta!”. Nella stessa lettera scrive che “Catina dice che non finisco mai niente, che dovrei fare una cosa alla volta: ma come si fa? Bisogna pure seguire i ritmi della nostra gente e fare quando è possibile”. 15 settembre: “In questo paio di settimane ho avuto sempre tanto da fare in tutti i campi: pastorale e materiale... Nei ritagli di tempo al mattino e alla sera ho trasportato legna per cuocere più di 47.000 mattoni... Mi si chiudono gli occhi anche per la stanchezza dei viaggi e delle camminate”. Quando la situazione del Paese pare peggiorare commenta: “Non ci rimane che sperare contro ogni speranza”. L’ultima lettera alla famiglia è del 22 settembre. C’è qualche segno di apprensione: “La vita procede come al solito, con tante attività e non mancano gli imprevisti quasi sempre dolorosi, frutto della guerra che continua, dei soprusi, dei delitti”. Ma le ultime parole di quell’ultimo scritto sono di amore e di speranza: “Comunque, coraggio e fiducia nel Signore.
A tutti voi, vicini e lontani, i miei più affettuosi saluti e auguri di ogni bene”. Nessuno lo sa, ma è il suo addio. La lettera arriva a Gambellara il 30 settembre 1995. Mentre padre Maule muore. Vengono tre soldati, prendono lui, padre Marchiol e Catina, li fanno inginocchiare, sparano a bruciapelo. Dolore e strazio ai funerali, con vescovi, tanti preti, autorità civili. Spesso ai profeti tocca il martirio. Così è accaduto anche a padre Ottorino Maule, morto a 53 anni per amore del Burundi. “Dirai un requiem per me”, aveva chiesto all’amico: tanti hanno pregato e pianto per lui. Forse, chissà, il suo sangue porterà la pace. Sarà la sua vittoria. Secondo la parola del beato Conforti, esempio e guida di padre Maule: “E voi pure, vinti in apparenza, sarete alla fine vincitori”. Adesso padre Ottorino, con padre Marchiol e Catina, è sepolto davanti alla chiesa di Buyengero, la sua chiesa. “Abbiamo deciso di restare con voi”, ha detto un giorno. È stato di parola.
Autore: Renzo Agasso
|