Suo padre si era messo due volte la camicia rossa con Garibaldi. Riteneva il Battesimo cattolico un rito detestabile. Ma, quando il 9 gennaio 1881 a Firenze venne al mondo suo figlio, Giovanni Papini, la madre, la buona Erminia, lo fece battezzare di nascosto, nel “bel San Giovanni”, dove nel 1265 era stato battezzato Dante.
Due incontri
Appena Giovanni iniziò a frequentare la scuola, il padre volle che uscisse dall’aula allorché entrava il prete a insegnare religione. Una volta, il bambino andò a origliare alla porta: il prete spiegava il Quarto Comandamento di Dio: «Onora il padre e la madre». Tornato a casa, domandò a suo padre: «Perché non vuoi che io ascolti uno che mi insegna ad onorarti?».
Crebbe affamato di libri e di riviste, con addosso una voglia di scrivere che lo divorava. Un giorno la mamma lo portò a passeggiare sul Lungarno. Passarono due uomini d’alta statura. Uno di loro, vedendo il piccolo dai riccioli dorati, si fermò a guardarlo. Portava lenti grosse e baffi enormi, aveva la faccia larga e carnosa. Lo guardò grave e triste. Allungò la destra, accarezzò il bambino. E si allontanò.
Quell’uomo era Friedrich Nietzsche, colui che riteneva il Cristianesimo “l’infamia dell’umanità” ed era considerato l’anti-cristo.
Un’altra volta, autunno 1888, mentre Giovanni si era fermato presso una vetrina, sentì voci straniere: un signore e una signora, accompagnati da una ragazza, interrogavano un passante... Il piccolo Papini si avvicinò e la ragazza gli domandò di insegnarle a recarsi a “Santa Maddalena de’ Pazzi”, una chiesa di Firenze. «Vi accompagno io fin là», rispose. I tre gli tennero dietro.
La ragazza era sui 14-15 anni, aveva il volto pieno, rotondo, illuminato da occhi dolci, ardenti, profondi che lo impressionarono, talmente da fargli abbassare i suoi. Giunsero in pochi passi alla chiesa. La giovane in segno di ringraziamento gli rivolse un così bel sorriso che turbò il suo cuore di fanciullo timido. Era Teresa Martin, la ragazza che pochi mesi dopo sarebbe diventata nel Carmelo di Lisieux in Francia suor Teresa di Gesù Bambino.
E così, Giovanni Papini, infante, era stato sfiorato dalla bestemmia e dalla santità eroica.
Un uomo finito
Si affacciò al panorama della cultura come un ragazzaccio. A 9 anni componeva i primi versi. A 15 pubblicava i primi scritti. Gli studi li condusse a Firenze, in corsi rabberciati, conseguendo il diploma da maestro elementare. Ma sognava la gloria. A 20 anni, privo del padre, per vivere, era insegnante e bibliotecario. Attorno a lui, imperava il positivismo: vale ciò che si vede, si sente e si tocca, il resto o non c’è o è inconoscibile, quindi insignificante.
Papini però capiva che “il positivismo non basta all’uomo”. Il 21 febbraio 1904, parlando a Siena, urlò: «Questi pretenziosi dogmatici, sotto il nome di positivismo, vorrebbero ridurre l’uomo al suo ventre!». Aveva già fondato con Prezzolini la rivista Leonardo, organo e bandiera di giovani insoddisfatti. Inquieto, tormentato, alla ricerca della luce, dietro le lenti dei suoi occhi miopi, con il suo cuore di tenebra.
Vennero i suoi libri: brillanti, mordaci, infinitamente tristi. Giovane senza fede, gli bruciava il vuoto, la negazione dello spirito. Spasimava: «Io vorrei dunque cambiare... sono definitivamente annoiato, disgustato, ributtato, nauseato da capo a piedi di questo me stesso». Prese a scrivere su La Voce del 1908, ma non ne fu appagato. Seguirono altri libri, qualcuno denso di bestemmie. Trent’anni aveva Papini, ed era famoso e famigerato.
Nel 1912, pubblicò Un uomo finito: fu il suo primo grande successo, si dichiarava un uomo finito, perché non era riuscito a essere un uomo infinito. Invocava: «Una sola, una piccola fede, un atomo di verità... un po’ di certezza... Non posso più farne a meno. Voglio una fede indistruttibile». Quindi il grande anelito della sua esistenza, da quando, bambino, l’avevano sfiorato Nietzsche e Teresina di Lisieux: «Essere Dio! Tutti gli uomini dèi! Ecco il sogno grande, impossibile, il fine superbo cercato!».
Ma alla fine, la delusione totale. «Sono arrivato a riconoscere la mia impotenza, a buttare da parte i piani divini e i giuramenti eroici, per raccontare la disfatta dell’anima mia».
Nel 1913, con Ardengo Soffici, fondava la rivista Lacerba: la disperazione dell’uomo che non voleva finire, giungeva al parossismo: «O ammazzarsi o combattere!». Ammazzarsi per lui che amava tanto la vita, era impossibile. Non restava che combattere. Nell’avvicinarsi della guerra. Fu decisamente interventista, per pura disperazione.
L’Europa, dal 1914, affogava in un bagno di sangue.
Incontro a Cristo
Negli anni della Guerra 1915-1918, Papini a Roma collaborava a Il tempo, ma rimpiangendo Firenze e la libertà della sua campagna, d’accordo con moglie e figlie, si trasferì a Bulicano. Di lì scriveva a don Cesare Angelini, maestro di Lettere e di vita, in quei giorni al fronte come cappellano militare: «Mi sono avvicinato a Gesù con nuovo spirito e credo di averlo sentito come pochi... Ho scoperto che Gesù è sempre solo, come solo è stato fin da principio e che pure non c’è salvezza al di fuori di lui».
In alcuni articoli del 1919 affermava: «Ai valori moderni, ai valori omicidi, che hanno insanguinato fino le mani e ci hanno avvelenato il cuore, dobbiamo sostituire i valore eterni, i contrari precisi dei valori dominanti. Vi è una guida con cui potremmo trovare anche oggi i principi di questa “seconda nascita”, a cui dovremo per forza tornare se non vogliamo morire nelle torture delle ultime disperazioni. È un piccolo volume, scritto 19 secoli fa. Tutti lo conoscono, molti lo leggono, pochi lo seguono. È il Vangelo di Gesù Cristo».
Prezzolini lo metteva in guardia dal perdere la faccia convertendosi a Cristo e alla sua Chiesa. Domenico Giuliotti invece gli scriveva: «La tua penna, per 20 anni, ha scritto sotto dettatura del diavolo... Scrivi per rinnegare tutto ciò che hai scritto, per essere folle, tra i savi del mondo, della follia di Cristo. Mettiti contro-corrente».
Racconta Papini: «Durante la guerra... venni risospinto alla lettura del Vangelo che avevo letto più volte, ma con spirito ostile di diffidente. E meditando sul Vangelo, specialmente sul discorso della montagna, venni a pensare che l’unica salvezza per gli uomini non poteva essere che un mutamento radicale dell’anima: il passaggio dalla ferinità alla santità, dall’odio per il nemico – e persino per l’amico – all’amore per il nemico.
Il Cristianesimo mi apparve dunque in un primo tempo come un rimedio ai mali dell’umanità, ma proseguendo nelle mie solitarie e ansiose meditazioni venni a persuadermi che il Cristo, maestro di morale così opposta alla istintività degli uomini, non poteva essere solo un uomo, ma Dio. E a questo punto, intervenne, io credo, l’opera segreta ma infallibile della grazia. E tanto era forte in me l’amore per Gesù, il divino Maestro dell’amore, che io decisi di far qualcosa perché il suo messaggio giungesse anche a quelli che non lo conoscono. E incominciai a scrivere, solo, in campagna, spinto dal sincero bisogno di giovare a qualche mio fratello, la Storia di Cristo. E finita che fu, mi si presentò davanti l’esigenza di appartenere alla Società perfetta, da Lui fondata: la Chiesa Cattolica».
Il bestemmiatore ora si faceva ardente apostolo di Cristo.
Una vita per Lui
Nel 1921 uscì dunque questa sua Storia di Cristo. Papini, deluso di tutti e di tutto – perché tutto delude quaggiù – era stato folgorato dal Redentore e aveva sentito l’impellente necessità di annunciarlo ai fratelli. Il Libro, opera di un noto rompicollo, si presentò più inatteso che mai. Suscitò ironie e derisioni, da parte dei negatori, come Benedetto Croce, ed entusiasmi forti. Molti ammirarono il suo coraggio di essere andato, ancora una volta, controcorrente. Altri, come lui, si convertirono a Gesù, a causa di quel suo Libro.
Molti poterono far propria la Preghiera a Cristo con cui Papini concludeva la sua Opera: «Abbiamo bisogno di Te, o Cristo, di Te solo e di nessun altro. Tu solamente che ci ami, puoi sentire per noi tutti che soffriamo la pietà che ciascuno di noi sente per se stesso. Tu solo puoi sentire quanto è grande, immisurabilmente grande il bisogno che c’è di Te in questo mondo, in questa ora del mondo. Nessun altro, nessuno dei tanti che vivono, nessuno di quelli che dormono nella mota della gloria, può dare a noi bisognosi, riversi nell’atroce penuria, nella miseria più tremenda di tutte, quella dell’anima, il Bene sommo che salva.
Noi ti preghiamo, Gesù, che Tu ritorni ancora una volta, fra gli uomini che ti uccisero, fra gli uomini che continuano a ucciderti, per ridare a tutti noi assassini, nel buio, la luce della vita vera».
Da quei giorni della sua conversione, alla sua morte, per 35 anni, Papini continuò a studiare, parlare e scrivere con un unico intento: irradiare Cristo ai fratelli. Trovava luce e coraggio dalla frequenza alla Messa e alla Comunione eucaristica, cibandosi di Gesù Pane di Vita eterna.
Il sublime Mistero dell’altare, così l’aveva presentato, ponendo queste parole sulle labbra di Gesù, nell’Ultima Cena: «Fate questo in memoria di me. La frazione del Pane alla tavola comune sarà il segno della nuova fratellanza in Me. Ogni volta che spezzerete il Pane, non solo Io, Gesù, sarò presente tra voi, ma per mezzo di questo Pane, vi unirete intimamente a Me. Il mio corpo che offrirò nella morte per tutti gli uomini, sazierà la fame di quelli che credono in Me. Non vi lascio dunque solo una memoria: Io sarò presente e si avvererà in questo modo la mia promessa di essere con voi, sino alla consumazione dei secoli».
Negli ultimi anni perse l’uso delle gambe ed era diventato quasi cieco. Eppure era nella luce e nella gioia e lodava Dio per il dono più grande che aveva ricevuto: l’incontro con Gesù Cristo. Per essere più conforme a Lui si era fatto Terziario francescano con il nome di fra Bonaventura, alla Verna, dove san Francesco d’Assisi, nel 1224, aveva ricevuto le stigmate, i segni della Passione di Gesù.
Si spense dolcemente domenica 8 luglio 1956, poco dopo le otto, l’inizio dell’“Ora terza”. Aveva scritto poc’anzi: «Quando ai miei occhi di prossimo sepolto, il sole per l’ultima volta varcherà le mura occidentali, Dio sarà sempre con me, il Sole di tutti i soli».
«Noi, gli ultimi – aveva concluso la sua Vita di Cristo – ti aspettiamo, o Gesù. Ti aspetteremo ogni giorno, a dispetto della nostra indegnità e di ogni impossibile. E tutto l’amore che potremo torchiare dai nostri cuori devastati sarà per Te, o Crocifisso, che fosti tormentato per amor nostro e ora ci tormenti con tutta la potenza del tuo implacabile amore».
Autore: Paolo Risso
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