Giuseppe Allamano è concittadino di due santi: don Bosco, che l’ha avuto studente a Torino, e Giuseppe Cafasso, che è anche suo zio materno. Ordinato sacerdote in Torino a 22 anni, laureato in teologia a 23, direttore spirituale del seminario a 25, a 29 diventa rettore del santuario più caro ai torinesi (la “Consolata”) e del Convitto ecclesiastico per i neosacerdoti. Però il santuario è da riorganizzare e restaurare, il Convitto è in crisi gravissima. Con fatiche che non cesseranno mai, lui rivitalizza il santuario e fa rifiorire il Convitto, come quando vi insegnava il Cafasso. Come il Cafasso, è un eccezionale formatore di caratteri, maestro di dottrina e di vita. Vede uscire dai seminari molti preti entusiasti di farsi missionari, ma ostacolati dalle diocesi, che danno volentieri alle missioni l’offerta, ma non gli uomini. E decide: i missionari se li farà lui. Fonderà un istituto apposito, ci ha già lavorato molto. Il suo progetto è apprezzato a Roma, ma poi ostacoli e contrattempi lo bloccano, per dieci anni. Pazientissimo, lui aspetta e lavora. Arriva poi il primo “sì” vescovile per il suo Istituto dei Missionari della Consolata nel 1901, e l’anno dopo parte per il Kenya la prima spedizione. Otto anni dopo nascono le Suore Missionarie della Consolata. Lui sente però che sull’evangelizzazione bisogna scuotere l’intera Chiesa. E nel 1912, con l’adesione di altri capi di istituti missionari, denuncia a Pio X l’ignoranza dei fedeli sulla missione, per l’insensibilità diffusa nella gerarchia. Chiede al Papa di intervenire contro questo stato di cose e in particolare propone di istituire una giornata missionaria annuale, “con obbligo d’una predicazione intorno al dovere e ai modi di propagare la fede”. Declinano le forze di Pio X, scoppia la guerra nei Balcani... L’audace proposta cade. Ma non per sempre: Pio XI Ratti realizzerà l’idea di Giuseppe Allamano, istituendo nel 1927 la Giornata missionaria mondiale. Lui è già morto, l’idea ha camminato. E altre cammineranno dopo, come i suoi missionari e missionarie (oltre duemila a fine XX secolo, in 25 Paesi di quattro Continenti). Da vivo, rimproverano a lui (e al suo preziosissimo vice, il teologo Giacomo Camisassa) di pensare troppo al lavoro “materiale”, di curare più l’insegnamento dei mestieri che le statistiche trionfali dei battesimi. Lui è così, infatti: Vangelo e promozione umana, perseguiti con passione e con capacità. “Fare bene il bene”: ecco un altro suo motto. I suoi li vuole esperti in scienze “profane”. E anche quest’idea camminerà fino al Vaticano II, che ai teologi dirà di “collaborare con gli uomini che eccellono in altre scienze, mettendo in comune le loro forze e i loro punti di vista” (Gaudium et spes). Giuseppe Allamano, che dal 23 maggio 2024 è Santo, ancora oggi ripete biblicamente ai suoi: “Il sacerdote ignorante è idolo di tristezza e di amarezza per l’ira di Dio e la desolazione del popolo”. Autore: Domenico Agasso senior
Infanzia e famiglia Giuseppe Allamano nasce a Castelnuovo d’Asti il 21 gennaio 1851, penultimo di cinque figli. Viene subito battezzato nella chiesa del paese, dedicata a Sant’Andrea. Sua madre Maria Anna affronta con coraggio la perdita del marito Ottavio, avvenuta quando Giuseppe ha due anni, e vive la carità anche al di fuori della famiglia: confeziona vestiti e prepara cibo per i poveri del paese. Il piccolo Giuseppe, a sei anni, incontra don Giuseppe Cafasso, zio materno, famoso a Torino perché assiste i condannati a morte fino al loro ultimo respiro. Anche dalla parte del padre ha uno zio sacerdote, don Giovanni Allamano, che, con discrezione, contribuisce alle spese per far studiare i nipoti.
Quattro anni all’Oratorio di san Giovanni Bosco A conclusione delle elementari, Giuseppe viene inviato all’Oratorio di don Giovanni Bosco, a Valdocco, dove già studia suo fratello Natale. In realtà all’inizio è confuso, ma viene convinto ad accettare dal sindaco di Castelnuovo, Matteo Bertagna, e dall’insegnante di religione, don Alessandro Allora. Durante la giornata, s’incontra spesso con il fondatore dei Salesiani: ha quasi l’impressione che gli legga nella mente. La sera, invece, ascolta con gli altri compagni la “buonanotte” sotto i portici dell’Oratorio. Una volta, però, viene rimproverato severamente da don Bosco: durante le vacanze ha letto «Beatrice Cenci», un romanzo storico su di una tragica vicenda familiare, molto diverso dalle «Letture Cattoliche» che i primi Salesiani hanno iniziato a curare. Proprio a Valdocco, nel giugno del 1864, arriva in visita monsignor Guglielmo Massaja, vicario apostolico dei Galla e futuro cardinale. I suoi racconti sull’evangelizzazione dell’Etiopia, a cui si è dedicato per decenni, lasciano il segno nel giovane Giuseppe. Tutti si aspettano che resti all’Oratorio: invece, il 19 agosto 1866, dopo il quarto e ultimo anno del ginnasio, torna a Castelnuovo, senza salutare nessuno. La sua intenzione si palesa nei giorni seguenti: proseguirà gli studi nel Seminario diocesano. Anni dopo, incontrandolo, don Bosco gli muoverà un nuovo e più bonario rimprovero: «Me l’hai fatta grossa...».
Ordinazione sacerdotale e incarico al Convitto Ecclesiastico Nonostante la salute cagionevole e le frequentissime emicranie, peggiorate dal rigore della disciplina seminaristica, Giuseppe s’impegna negli studi verso il sacerdozio. Viene ordinato suddiacono il 21 dicembre 1872 e diacono il 29 marzo 1873. Diventa sacerdote pochi mesi dopo, il 20 settembre 1873: quasi subito viene nominato rettore del Convitto Ecclesiastico di Torino, struttura per l’approfondimento della formazione dei giovani sacerdoti. Con loro è equilibrato e serio; li aiuta a essere obbedienti e rispettosi. Nel 1876 lo zio don Giovanni Allamano muore lasciandolo suo erede universale, ma soprattutto gli affida una consegna: deve fare il bene senza alcuna riserva. Lo sostituisce nella parrocchia di Passerano, ma dopo tre mesi deve tornare in seminario.
Rettore del Santuario della Consolata All’impegno nel Convitto Ecclesiastico, dove in seguito è incaricato anche d’insegnare Teologia Morale come lo zio don Cafasso, si aggiunge un altro compito: sul finire dell’estate 1880 è nominato rettore del Santuario della Beata Vergine Consolata a Torino, sotto la cui competenza è anche il santuario di Sant’Ignazio a Lanzo. Il santuario della Consolata è un luogo da sempre caro ai torinesi di ogni ceto sociale e stato di vita, ma da tempo versa in un abbandono quasi totale. Don Giuseppe accetta, ma chiede di essere aiutato da don Giacomo Camisassa, compagno di Seminario e suo grande amico. Al restauro della chiesa, il novello rettore affianca la cura per le associazioni di lavoratori e lavoratrici già legate al santuario. In più fonda il Laboratorio della Consolata, per educare le giovani sarte alla sobrietà nella moda e al rispetto del giorno festivo. Nelle cerimonie solenni non pretende mai un posto tra i primi, che gli spetterebbe anche in quanto canonico del Duomo: nell’ottavo centenario del ritrovamento dell’icona della Consolata, ad esempio, quasi non si riesce a scorgerlo. Per sé riserva un piccolo angolo, nel coretto interno alla chiesa, da cui può contemplare il Tabernacolo.
La guarigione, il segno tanto atteso Nei primi mesi del 1900 don Giuseppe si ammala di polmonite doppia: tutta Torino prega per lui. Lo fa anche il cardinale Agostino Richelmy, arcivescovo di Torino e suo amico dagli anni del Seminario, che viene spesso a trovarlo. Nella notte tra il 28 e il 29 gennaio, guarisce improvvisamente: a vegliare su di lui c’è un quadretto con l’immagine della Consolata. È il segno che stava aspettando: Dio e la Madonna vogliono che lui fondi un nuovo istituto missionario, simile a quelli che in altre città e diocesi italiane sono sorti nello stesso periodo e che a Torino manca, obbligando quindi i sacerdoti piemontesi a entrare in altre realtà o, peggio, a partire totalmente da soli. Sulla sua guarigione sono state spese parole che chiamano in causa visioni o apparizioni. Lui stesso, più praticamente, affermerà in seguito: «Quand’ero presso a morire feci promessa, se fossi guarito, di fondare l’Istituto. Guarii e si fece la fondazione. Ecco tutto».
Una lettera da Rivoli Il 6 aprile 1900 è in convalescenza a Rivoli, nella villa ereditata da monsignor Angelo Demichelis. Scrive al cardinale Agostino Richelmy, arcivescovo di Torino e suo amico dagli anni del Seminario, per riferirgli un pensiero che da tempo lo sta preoccupando: riguarda l’Istituto della SS. Annunziata, un pensionato per maestre che gli è stato affidato da monsignor Demichelis, con gravi questioni amministrative in sospeso. È indeciso se cambiare interamente il personale o se chiudere tutto e assecondare, così, «un antico suo desiderio», come lo definisce: espone quindi minutamente tutti i motivi che lo inducono a fondare una nuova famiglia missionaria. Conclude con un rinnovato sentimento di obbedienza: «Ecco, Eminenza, quanto a scarico di coscienza e per la maggior gloria di Dio pensai di manifestarti ancora. Rifletti alla cosa davanti a Dio e, ritornato che sia io a Torino mi dirai il da farsi».
«Sulla tua parola getterò le reti» Il 24 aprile 1900, la lunga lettera è posta sull’altare, durante la celebrazione eucaristica, nella memoria liturgica di san Fedele da Sigmaringa, il missionario cappuccino martirizzato nel 1622 e diventato tanto caro all’Allamano, da proclamarlo, in seguito, protettore dell’Istituto. Ricevendolo, l’arcivescovo dà via libera alla fondazione: «Eh, nella tua lettera hai messo più contro, che in favore della fondazione. Tuttavia, devi farla tu, perché Dio lo vuole». Di fronte a tale autorevole manifestazione della volontà divina, don Giuseppe non può che ripetere le parole rivolte da Simon Pietro a Gesù: «Ebbene, Eminenza, “sulla tua parola getterò le reti”».
Nasce l’Istituto dei Missionari della Consolata Le prime mosse per concretizzare questa ispirazione avvengono nel 1888: durante un viaggio a Roma, don Giuseppe avvicina il prefetto e il segretario della Congregazione di Propaganda Fide, che coordina i missionari cattolici in tutto il mondo, ottenendo un’approvazione informale. In realtà, Torino non riesce ancora ad attuare il rinnovamento missionario che si sta compiendo in altre diocesi italiane: molti sacerdoti non hanno il coraggio di lasciar partire i giovani confratelli per terre lontane. Don Giuseppe non demorde: il 6 aprile 1891 invia a padre Calcedonio Mancini, dei Preti della Missione, personaggio molto noto a Propaganda Fide, la bozza del progetto di fondazione. Anche questo fatto indispettisce le autorità diocesane, che si sentono come scavalcate. Solo dieci anni più tardi, con la nomina di Richelmy, si apre uno spiraglio per la fondazione dell’istituto. Il 29 gennaio 1901, proprio un anno dopo l’imprevista guarigione di don Giuseppe, il cardinale firma il Decreto di fondazione dei Missionari della Consolata: inizialmente sacerdoti diocesani votati alla missione, si trasformeranno poi in congregazione religiosa autonoma e apriranno case fuori dal Piemonte.
Nove anni dopo, le Suore Missionarie della Consolata Nove anni esatti dopo, si aggiungono le Suore Missionarie della Consolata che erano state precedute dalle suore Vincenzine, offerte generosamente dal Cottolengo per gli inizi dell’apostolato dei missionari della Consolata, in Kenya. L’Allamano stesso, raccontava paternamente alle suore come era maturata la loro fondazione: «Fu il card. Girolamo M. Gotti, Prefetto di Propaganda Fide, che mi incoraggiò a fondare le suore; egli stesso mi disse: È volontà di Dio che ci siano le suore. – Ma, risposi io, suore ce ne sono tante. – Molte suore, poche missionarie». Soprattutto metteva in evidenza l’intervento del Papa. «È il Papa Pio X che vi ha volute; è lui che mi ha dato la vocazione di fare delle missionarie». E poi si dilungava compiaciuto addirittura a ricordare la conversazione avuta con Pio X, al quale aveva esposto la difficoltà di trovare personale femminile idoneo e sufficiente per le missioni: «Bisogna – rispose il Papa – che voi stesso diate principio ad un Istituto di suore missionarie, così come avete fondato quello dei missionari»; «Santità – si permise di obiettare l’Allamano – vi sono già tante Famiglie religiose femminili»; «Sì, ma non esclusivamente missionarie»; «Ma io, Beatissimo Padre, non sento la vocazione di fondare suore!»; «Se non l’avete, ve la do io». Il commento che l’Allamano faceva poi alle missionarie era coerente: «Vedete? Non sono stato io a volervi, ma il Papa; quindi voi dovete essere “papaline”».
Missionari «di prima classe» I primi Missionari della Consolata raggiungono i Kikuyu, popolo del Kenya, nel 1909. Sbarcano in Etiopia nel 1913, anno in cui le prime Suore Missionarie della Consolata sono inviate in Kenya; nel 1924 arrivano in Somalia. Don Giuseppe si tiene aggiornato grazie ai diari che i missionari gli spediscono periodicamente e continua a sollecitare un interesse più ecclesiale per le missioni: il 12 agosto 1912 invia una lettera ai superiori generali degli Istituti missionari italiani, nella quale chiede sostegno per «un atto pubblico del S. Pontefice», ovvero un documento per favorire le vocazioni missionarie. Di frequente tiene delle conferenze per quanti vivono in casa madre e si preparano a partire: vuole che siano «missionari di prima classe», secondo una sua espressione ricorrente. Se da una parte cura la loro formazione, incoraggiandoli anche a imparare lavori manuali (evidente eredità della sua vita all’Oratorio, ma non solo), dall’altra li mette in guardia dall’attivismo. Lo fa anche il 12 dicembre 1920, in occasione della partenza di padre Carlo Re e padre Giovanni Borello: «Per prima cosa si crede che per essere missionari si esiga una grande attività. Anch’io lo ammetto. Ma questa attività deve partire dal Signore. Quindi per prima cosa è necessaria l’orazione».
L’impegno per la causa di beatificazione di don Cafasso Don Giuseppe non partirà mai per le missioni, ma si sente ugualmente missionario, convinto com’è che «l’apostolato agli infedeli è il grado superlativo del sacerdozio», come dichiara in un’altra conferenza. In questo senso si spiega anche la sua determinazione per avviare e promuovere la causa di don Giuseppe Cafasso, beatificato a Roma il 3 maggio 1925 (sarà poi canonizzato il 22 giugno 1947). Appena tornato a Torino dopo i festeggiamenti a Roma, fa scrivere una breve biografia del nuovo Beato e ne parla diffusamente su «La Consolata», il bollettino del santuario, oltre che nella lettera circolare che invia ai missionari.
Consolazioni in un tempo travagliato La beatificazione di don Cafasso è anche una consolazione in un tempo travagliato per l’Istituto, tra le difficoltà dei missionari e quelle che don Giuseppe vive sul piano personale, a cominciare dall’assenza di don Camisassa, morto tre anni prima. Inoltre ha dovuto accettare all’unanimità di essere eletto superiore generale, ma il vice superiore, monsignor Filippo Perlo, ha altre priorità rispetto alle sue. Quando è angosciato, va dalla Madonna Consolata, proprio come quella volta in cui, rientrato in casa madre dopo la partenza dei primi missionari, aveva scoperto che gli altri aspiranti si erano dileguati. Anche in quel periodo, raccomanda a missionari e missionarie di vivere uno spirito di famiglia, portando l’amore, se occorre, alle estreme conseguenze: «Amare il prossimo più di noi stessi: questo il programma di vita del missionario. Se non si arriva al punto di amare il bene degli altri più della propria vita, si potrà avere il nome, non la sostanza dell’uomo apostolico».
La morte Il 1° febbraio 1926 si mette a letto: è la sua ultima malattia. A quanti lo circondano mormora: «Sì, sì, pregate per me. Vedete, questo poco di vita che ancora mi resta è per voi. Vi ho dato tutto». Il 15 febbraio riceve l’Estrema Unzione; muore alle 4.10 del giorno dopo, nella sua stanza vicina al Santuario della Consolata. La sua salma, portata al Cimitero Generale di Torino e tumulata accanto a quella di don Camisassa, viene traslata nel 1938 nella cappella di casa madre, in Corso Ferrucci 14 a Torino.
La causa di beatificazione e canonizzazione fino al decreto sulle virtù eroiche La causa di beatificazione e canonizzazione di don Giuseppe inizia nel 1944 con l’apertura del processo informativo, concluso nel 1951. Dopo il decreto sugli scritti, del 19 dicembre 1960, subisce un rallentamento, a causa dei giudizi ostili di alcuni preti. Il decreto di convalida arriva il 5 ottobre 1984, ma nel frattempo è cambiato il Codice di Diritto Canonico, anche in merito alle cause di beatificazione e canonizzazione. Viene quindi pubblicata, nel 1987, la “Positio super virtutibus”, che il 18 ottobre 1988 ottiene giudizio positivo dal Congresso dei Consultori Teologi della Congregazione delle Cause dei Santi. Analogo parere positivo arriva dalla Plenaria dei cardinali e dei vescovi membri della stessa Congregazione, il 4 aprile 1989. Il 13 maggio 1989 il Papa san Giovanni Paolo II autorizza la promulgazione del decreto sulle virtù eroiche.
Il miracolo per la beatificazione La Postulazione della sua causa prende in esame, come possibile miracolo valido per la beatificazione, il caso della kenyota Serafina Nyambura. Nel giugno 1971, la donna accusa dolori addominali, febbre, vomito e malessere generale, mentre le si produce un edema agli arti inferiori. Le cure che le vengono prestate non sortiscono alcun effetto, finché, all’improvviso, non si verifica un miglioramento rapido, fino alla guarigione. La Consulta Medica della Congregazione delle Cause dei Santi, nella riunione del 25 ottobre 1989, dichiara che l’asserita guarigione non si può spiegare secondo le conoscenze scientifiche del tempo. I Consultori Teologi, il 2 febbraio 1990, riscontrano il nesso tra il fatto prodigioso e l’intercessione di don Giuseppe Allamano, confermato dai cardinali e dai vescovi della Congregazione, nella plenaria del 22 maggio 1990. San Giovanni Paolo II autorizza la promulgazione del decreto relativo al miracolo il 10 luglio 1990. Lo stesso Pontefice beatifica don Giuseppe il 7 ottobre 1990 in piazza San Pietro a Roma, fissando la sua memoria liturgica al 16 febbraio, giorno della sua nascita al Cielo.
Il miracolo per la canonizzazione Tra le numerose grazie attestate dopo la beatificazione viene preso in esame il caso di Sorino, indio degli Yanomami, popolo in mezzo al quale i Missionari e le Missionarie della Consolata sono presenti, precisamente nello Stato del Roraima, nel nord est del Brasile. La mattina del 7 febbraio 1996, Sorino esce di casa per andare a caccia e procurare del cibo per sé e per sua moglie Helena. Mentre cammina per la foresta, viene assalito da una femmina di giaguaro, che lo azzanna alla testa: riesce a sua volta a ferirla e ad allontanarsi. Giunge a casa in condizioni disperate: il felino gli ha quasi strappato dal capo la calotta cranica, tanto che parte del cervello è fuoriuscita; continua a perdere sangue. Una Missionaria della Consolata, suor Felicita Muthoni Nyaga, cerca di prestargli i primi soccorsi, lavandogli il capo e fasciandolo alla meglio; quindi, sfidando l’opposizione dei capi indigeni, secondo i quali il ferito avrebbe dovuto essere lasciato a morire nella foresta, lo porta all’ambulatorio della Missione Catrimani, quindi lo accompagna a prendere l’aereo, per raggiungere il più vicino ospedale, a Boa Vista. Dopo averlo visto partire, la suora ricorda che il 7 febbraio è il primo giorno della novena al suo Beato fondatore. Inizia quindi a pregare chiedendo la sua intercessione, come fanno anche le sei consorelle di Boa Vista, la moglie di Sorino e un religioso fratello Missionario della Consolata: al capezzale del ferito viene anche collocata una reliquia dell’Allamano. Inoltre una delle suore, suor Lisadele, battezza il malato “in articulo mortis” col nome di Giuseppe (nome di suo padre, oltre che di Allamano stesso). Nel frattempo, gli indigeni compiono rituali, ripetuti anche al ritorno a casa del malato, secondo le loro tradizioni religiose. Dieci giorni dopo l’incidente, Sorino si riprende, anche se è ancora grave. Il 4 marzo viene trasferito presso una casa di cura: rientra nel suo villaggio l’8 maggio completamente guarito. I successivi controlli medici a cui è obbligato non riscontrano conseguenze negative: non si presentano neanche le convulsioni o gli impedimenti nel linguaggio e nel modo di camminare paventati dal neurochirurgo che l’ha operato.
Il processo e il decreto sul miracolo La grazia viene raccontata nel 1996 sulle pagine de «La Consolata». Venticinque anni dopo, durante il Sinodo per l’Amazzonia, si forma una commissione allo scopo di cercare documentazione e testimonianze a riguardo. L’inchiesta diocesana viene quindi aperta il 7 marzo 2021, nella diocesi di Roraima. Il 14 settembre 2023 la Consulta Medica del Dicastero delle Cause dei Santi conclude con parere affermativo che la presunta guarigione di Sorino non è spiegabile secondo le attuali conoscenze mediche. Il 5 marzo 2024, i Consultori Teologi si sono pronunciati favorevolmente circa il miracolo e la sua attribuzione all’intercessione del Beato Giuseppe Allamano. Alla medesima conclusione è giunta il 21 maggio 2024 la Sessione Ordinaria dei Cardinali e Vescovi. Il 23 maggio 2024, ricevendo in udienza il cardinal Marcello Semeraro, Prefetto del Dicastero delle Cause dei Santi, papa Francesco ha autorizzato la promulgazione del decreto sul miracolo.
La canonizzazione Lo stesso Pontefice ha presieduto il Rito della Canonizzazione in piazza San Pietro a Roma, domenica 20 ottobre 2024: la Giornata Missionaria Mondiale, che ricorre proprio quel giorno, è la “festa speciale della Propagazione della Fede” auspicata da Giuseppe Allamano e dagli altri superiori degli istituti missionari nella lettera del 1912, istituita nel 1927.
La sua missione oggi Oggi i Missionari e le Missionarie della Consolata sono presenti in trentatré nazioni su quattro continenti. Del loro carisma partecipano anche i Missionari Laici della Consolata (LMC) e i Giovani Missionari della Consolata (JMC).
Autore: Emilia Flocchini
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