Le fonti storiche e agiografiche
Willem Hessels van Est (Gorinchem, 1542 – Douai, 1613), insigne professore di teologia e di Sacra Scrittura, fu nipote per via materna di san Nicola Pichi; raccolse le attestazioni dei testimoni oculari dei fatti e narrò per iscritto le tragiche e gloriose vicende dei martiri di Gorcum: ESTIUS GUILLAUME, Novorum in Hollandia Martyrum passionis Historia, Colonia 1572; Historiae martyrum gorcomiensium, Douai, 1603, pp. 302 (ristampato in Namur nel 1655 e infine riprodotto dai Bollandisti in Acta Sanctorum Iulii, Parigi 1867, pp. 736 – 835).
Un’altra fonte importante sui martiri è OPMEER PETER, Historia martyrum batavicorum, Colonia 1595.
In occasione della canonizzazione fu edito: AGOSTINO DA OSIMO, Storia dei diciannove martiri gorcomiesi, Tipografia Monaldi, Roma 1867, pp. 119.
Le origini
Nicolaas Pieck (anche Pick o Pic) nacque il 29 Agosto 1534 in Gorcum (attuale Gorinchem, pittoresca cittadina commerciale dell’Olanda meridionale sulle rive della Mosa). La famiglia paterna discendeva da quella biturgense dei Pichi e si era impoverita a causa di inimicizie ai tempi dell’avo Arnold (cf TILMANN CORNELIUS, Historia Seraphica, cap. I, p. 2). I genitori furono Giovanni ed Enrica Calvia, ferventi cattolici, che dettero a Nicola 2 fratelli e 2 sorelle. Il padre si era distinto nella pubblica difesa della fede cattolica, fino ad impegnarsi per l’allontanamento da Gorcum di un parroco infetto dall’eresia calvinista.
La giovinezza
Inviato a studiare a Bois-le-Duc (Brabante, attuali Olanda meridionale e Belgio settentrionale), divenne francescano nei Minori osservanti e proseguì gli studi a Lovanio, nel cui locale convento “anche le pietre e i sassi parlano di santità e di dottrina” (come affermò il cardinale Francesco Quignones, Generale dell’Ordine). Vi si formarono anche san Girolamo da Weert e san Nicasio Johnson, suoi futuri compagni di martirio e pure i padri Lodovico Voet e Daniele Arendok, vittime dei calvinisti ad Alcmaer, i quali lo prcedettero nel martirio solo di pochi giorni (cf FRANCESCO GONZAGA, Historia Seraphica, III, p. 991). Il teologo francescano Adamo Sasbouth, illustre in Lovanio per dottrina e santa vita, interrogato riguardo ai suoi discepoli, affermò: “In verità di molti ho io ad allietarmi, ma due soli della mia scuola uscirono perfetti in santità e dottrina: cioè a dire Niccolò Pik e Daniele Arendok, destinati ambedue ad illustrare mirabilmente non che solo il poverello Ordine di san Francesco, ma l’universa Chiesa di Gesù Cristo” (Storia, cit, p. 82).
Frate Nicola era prestante nel fisico, di statura proporzionata, nobile e franco nel tratto; dal volto trasparivano candore e bontà, che gli conciliavano facilmente la benevolenza altrui. Col passare del tempo, i digiuni, le veglie, le penitenze e le fatiche apostoliche segnarono il suo aspetto. Mantenne però sempre inalterata la letizia dell’animo, esortando i con-fratelli a servire Dio con quella gioia spirituale che rende amabile la pietà, cara la mortificazione e piacevole la penitenza. L’unica tristezza nasceva in lui constatando nel pros-simo l’ostinazione nel peccato e i mali gravissimi causati dall’eresia calvinista.
La virtuosa opera apostolica
Ordinato sacerdote, padre Nicola mise a frutto gli anni di studio impegnandosi nella predicazione nel Brabante e a Bruxelles, distinguendosi nella esposizione e difesa della fede cattolica per contrastare il diffondersi dell’eresia calvinista. Affrontò per questo lunghi viaggi a piedi, combattendo la sua buona battaglia con le armi spirituali della dottrina, dello zelo per la salvezza delle anime, della santità personale. Soprattutto due erano le verità da lui esposte nelle chiese,
nelle piazze, lungo le vie, in convegni pubblici e privati: la presenza vera, reale e sostanziale di Cristo nel sacramento dell’Eucaristia e la necessità di perseverare nella fede trasmessa dagli Apostoli e di testimoniarla senza alcun rispetto umano, anche a costo della vita.
La sua santità si manifestava innanzitutto nel praticare l’umiltà: avendo un basso concetto di sé, si applicava volentieri a svolgere i servizi più vili, si raccomandava spesso alle preghiere altrui per ottenere la misericordia divina, era prontissimo all’obbedienza prestata non solo ai superiori ma anche agli altri frati. Perciò, anche quando fu eletto Guardiano del convento della sua città natale, esercitò l’ufficio affidatogli in modo veramente paterno, stimando gli altri superiori a se stesso. Un giorno, al termine della predica in chiesa, sollecitò secondo il solito gli uditori a elargire elemosine per il con-vento, asserendo che così avrebbero aiutato i santi che lo abitavano; uno dei presenti poi gli domandò se anch’egli si reputasse tale; il predicatore prontamente rispose che gli altri religiosi certamente lo erano e che santa era la povertà che osservavano secondo la Regola.
Egli fu il primo a darne l’esempio: non possedeva nulla, tranne una lacera tonaca, la Bibbia e un’immagine di Gesù Crocifisso.
Diffidando di se stesso, fidava unicamente in Dio e tutto a lui riferiva: sia che si accingesse a predicare, sia che si desse allo studio o viaggiasse, o prendesse cibo, oppure solamente conversasse, senza badare ad alcun umano riguardo, padre Nicola innanzitutto giungeva le mani e volgeva gli occhi al cielo, dicendo: “a maggior gloria di Dio”.
La sua umiltà non gli risparmiò invidie e critiche: “non sono mai mancate al mondo anime ingenerose e maligne, le quali o per non sapere, o non volere operare il bene, a quando a quando si scuotono dalla loro disonorante ignavia, a sol fine di oppugnare l'altrui virtù, sino a giovarsi della nobile e santa operosità de' fratelli, benchè intesa a coprire loro difetto-sa nullità, per meglio vilipenderne la fama presso i fratelli, e torli giù da quel seggio d'onore, premio di loro generose
azioni, a cui essi, invidiosi sempre, ben sanno di non potere mai giugnere per pochezza d'animo, malignità di cuore, e mancamento di buona volontà in rendersi santamente operosi a vantaggio della Chiesa e de' prossimi” (Storia, cit, p. 84). Questo diede modo a padre Nicola di esercitarsi ancora di più nell’umiltà e nell’amore del prossimo, vincendo le critiche con l’esercizio della carità.
Forte nel sopportare in se stesso i difetti altrui, non fu però falsamente indulgente con le colpe degli altri, sempre ripre-se con autorità. Come per esempio nel caso dell’indegno cappellano delle Clarisse di Santa Agnese di Gorcum, che riuscì ad allontanare, assicurando poi alle religiose una guida spirituale sicura. Fortezza unita alla mitezza dimostrò anche nell’adoperarsi in ogni modo presso le autorità civili per scongiurare la messa a morte di due eretici, al fine di assicurare la loro salvezza eterna mediante il ritorno alla vera fede.
La sua purezza fu così adamantina, che i calvinisti – sempre pronti a discreditare i ministri di Dio – non poterono attaccarlo in nessun modo a tale riguardo, pur accusandolo altrimenti di essere ostinato e privo di prudenza (mentre invece era fermo nella fede cattolica e acceso di zelo per l’onore di Dio).
La santità della vita e la dottrina lo resero consigliere ricer-cato da molti, che così beneficiarono della sua conoscenza delle cose di Dio e del mondo e della sua prudenza. Come dimostrò nel caso di alcune sedicenti visionarie e profetesse, delle quali consigliò di diffidare e i fatti gli dettero poi pienamente ragione.
La guerra degli ottanta anni
Dopo il 1477 i Paesi Bassi erano divenuti dominio degli Asburgo e a partire dal 1556 il legittimo sovrano fu Filippo II di Spagna.
La contrarietà verso il dominio spagnolo si tramutò in un conflitto durato dal 1568 al 1648, quando l'indipendenza delle Province Unite, cioè dell’attuale Olanda, fu sancita dalla Pace di Vestfalia. Molti olandesi erano infatti insofferenti sia alla politica centralizzatrice attuata dalla monarchia spagnola, sia alle misure repressive adottate contro l’eresia calvinista, che in quelle terre contava molti aderenti. Si fronteggiavano da una parte la minoranza calvinista che voleva i Paesi Bassi indipendenti e religiosamente protestanti, dall'altra una minoranza cattolica che intendeva rimanere leale alla monarchia spagnola. Tra le due opposte fazioni la maggioranza della popolazione cattolica richiedeva semplicemente la restaurazione della tradizionale autonomia di governo e l'espulsione delle truppe spagnole. Politica e religione furono dunque indissolubilmente mescolate nelle vicende sociali, portando a identificare il cattolicesimo con il dominio spagnolo e il calvinismo con la causa dell’indipendenza. Tali avvenimenti determinarono il martirio del nostro santo francescano, ucciso però solo in odio alla fede.
La divisione ideologica attraversava anche la famiglia del padre Nicola: rinnegando le tradizioni degli avi, 2 suoi fratelli erano passati all’eresia e un cognato aveva abbandonato la pratica religiosa, causando grande sofferenza interiore al pio francescano.
Le tensioni fra Olanda e Spagna si aggravarono già a partire dal 1558 e nel 1566 portarono ad una prima ribellione, quando la reggente Margherita d’Austria, sorellastra di Filippo II, rifiutò una petizione presentata da nobili e mercanti; in tale occasione uno dei consiglieri di Margherita chiamò con disprezzo i rimostranti "geuzen", cioè pezzenti, appellativo che essi assunsero subito come proprio distintivo. La situazione precipitò all'inizio di agosto con lo scoppiò di rivolte popolari nelle principali città calviniste, con assaltati alle chiese. L’invio di 10. 000 soldati con alla testa l’energico Fernando Álvarez de Toledo, Duca d'Alba, parve riportare l’ordine, mentre un esponente della nobiltà olandese, il calvinista Guglielmo d’Orange, dal suo esilio in Germania assunse la guida dei ribelli, ormai detti Geusi, assicurandosi l'appoggio di tutte le forze antispagnole, specialmente di Elisabetta d'Inghilterra.
Nell'anno 1569, Guglielmo d'Orange emise lettere di corsa a vascelli equipaggiati con banditi di varie nazionalità, detti “watergeuzen” (pezzenti del mare), i quali all'inizio si accontentarono di depredare per mare e per terra e di mettere al sicuro il bottino nei porti inglesi.
Il 1° marzo 1572, mentre il governo spagnolo imponeva nuo-ve tasse, Elisabetta I chiuse i porti inglesi ai Geusi del mare, perché non voleva coinvolgere direttamente il proprio Paese nelle lotte olandesi. Il loro comandante Guglielmo de La Marck, conte di Lumley, decise allora di stabilire una base permanente sulla costa dei Paesi Bassi, occupando il 1° aprile la città di Brielle e poi quella di Flessinga, allora prive di guarnigione. Tali avvenimenti vennero considerati come un segnale per dare nuovamente inizio alla rivolta che dilagò in tutto il Paese e nel corso della quale prevalse la minoranza calvinista, decisa a rovesciare il legittimo governo e a far apostatare il Paese dalla fede cattolica.
Nella bufera della rivolta
I Geusi occuparono in seguito anche Dordrecht, a sei ore di cammino da Gorkum, difesa da una rocca scarsamente presidiata dagli spagnoli. I due terzi degli abitanti di fede cattolica iniziarono a preoccuparsi per la loro sorte e fra di essi i più esposti alle persecuzioni dei ribelli calvinisti erano senz’altro i sacerdoti e i religiosi.
Rutger van Est (giovane figlio di una sorella di padre Nicola e fratello del futuro suo biografo), il 23 giugno 1572 lo esortò a mettersi in salvo, ricordandogli la triste fine del laico Arnold Enobbant, recentemente arso vivo dai Geusi a Waterlandia solo perché cattolico. Il Guardiano confessò il suo spavento di fronte alla prospettiva della morte, ma però confidava che l’aiuto di Dio e una condotta mite avrebbero disarmato i ribelli. Di fronte alla accorata insistenza del nipote, egli concluse: “Giovane, non contristarmi oltre con i tuoi consigli pietosi ma inopportuni, ai quali mai mi piegherò per alcuna cosa al mondo. Non me lo consentono la mia coscienza e l'onore del mio Ordine religioso, i cui figli sempre e dappertutto si dimostrarono coraggiosi sostenitori della Chiesa di Dio, sino a cadere martiri invitti sotto il ferro dei suoi nemici, anziché apostatare. Se noi francescani fuggiamo, i Geusi crederebbero i cattolici impauriti davanti al loro furore e più che mai li perseguiterebbero per far loro abbracciare l’errore. Di tali mali a chi si imputerebbe allora la colpa? Più che ad altri, a noi sacerdoti, i quali anziché rialzare l'animo dei cittadini e col nostro esempio incoraggiarli a star fermi nella confessione della fede cattolica, ci saremmo comportati da falsi pastori del gregge cristiano, vilmente abbandonato all'avvicinarsi dei lupi. Io non temo la morte più obbrobriosa di fronte al mondo, perché essa introduce nella vita vera chiunque abbia la fortuna di subirla in difesa della eterna giustizia di Dio. Smetti di addolorarti per me e consolati con la speranza di una vita migliore, che coronerà la tua fede nel Figlio di Dio, se però sarà vivificata dalle buone e sante opere sino alla fine dei tuoi giorni” (Historiae martyrum gorcomiensium, cit. p. 45, nostra versione in italia-no). Da notare che quella fu solo la prima di una lunga serie di pressioni a salvare la propria vita a cui padre Nicola do-vette vittoriosamente resistere, anche nelle difficili condizioni fisiche e psicologiche della sua passione.
La salda fede, il coraggio personale, la coscienza del proprio dovere di sacerdote e di superiore lo determinarono dunque a rimanere intrepido al proprio posto, con l’aiuto della grazia di Dio; del resto egli non si reputava degno di subire il martirio, come si evince dal seguente episodio. Il parroco Leonardo Vechel – poi suo compagno nella passione – in una certa occasione gli aveva detto sorridendo e come per giuoco: “Niccolò, io temo che i Geusi, contro i quali tu hai tante volte coraggiosamente alzato la voce, si vendicheranno una volta o l’altra mettendoti a morte” e si ebbe questa risposta: “Non temere, o fratello, ciò non sarà, perchè io ancora non mi sono meritato da Dio la palma dei Martiri”. Insistendo il suo interlocutore che, continuando a imperversare la persecuzione anticattolica, molti sarebbero comunque stati uccisi dai Geusi, benchè non lo meritassero, padre Nicola soggiunse: “Dio non concede la grazia del martirio ad uomini di poca fede, ma solamente a quelli giunti alla perfezione per mezzo di una vita santa e immacolata” (cf Storia, cit., p. 86). Nella sua umiltà non si rendeva conto che egli era appunto in tal novero, come poi dimostrò con parole e atti.
In attesa dello svolgersi degli avvenimenti, egli si impegnò a rianimare sia i fedeli che i frati, esortandoli a rimanere saldi nella grazia di Dio e il 24 giugno si preoccupò di mettere in salvo nella rocca i vasi sacri, per sottrarli alla profanazione degli eretici. Intanto, mentre messaggeri chiedevano soccorso alle guarnigioni spagnole vicine, i calvinisti di Gorkum informavano i Geusi di Dordrecht che il momento era propizio per un colpo di mano sulla città.
Il 25 giugno, sul fare del giorno, circa 150 soldati a bordo di 13 navi al comando di Marin Brant si presentarono in vista di Gorcum, gettando lo scompiglio in città. Il Guardiano radunò i suoi frati e dette loro il permesso di mettersi in salvo come potessero, dichiarando che egli sarebbe rimasto invece al proprio posto, ma i confratelli vollero rimanere accanto a lui; quindi si preoccupò di nascondere presso le loro famiglie le monache clarisse. Intanto nell’abitato la confusione cresceva: mentre la propaganda filo-calvinista asseriva che i cattolici non avrebbero avuto nulla da temere, giunse la notizia che il giorno avanti il convento francescano di Alcmaer era stato assaltato e 5 frati uccisi, fra cui i padri Daniele Arendok e Lodovico Voet, anch’essi formatisi a Lovanio assieme a padre Nicola. Nel frattempo i Geusi avevano sbarrato il fiume a monte e a valle della città, preparandosi ad attaccarla. Giunti a tal punto, i francescani – meno 3 - decisero di rifugiarsi nella rocca, ritenuta difendibile anche dalla ventina di soldati spagnoli presenti e il Guardiano decise di
andare con la maggioranza della comunità. Con loro si rinchiusero gli altri sacerdoti e religiosi e alcuni laici, fra cui una sorella e il nipote del padre Nicola.
Il 26 giugno il parroco Leonardo Vechel e il suo vicario Nicola Janssen detto Poppel – anch’essi futuri martiri - uscirono per arringare sulla pubblica piazza gli abitanti ed esortarli a perseverare nella fede cattolica e a difendere la città, ma senza esito. Il giorno stesso i Geusi la occuparono quasi senza colpo ferire, mentre gli eretici locali andavano a ingrossare le loro fila. Marin Brant subito convocò gli abitanti facen-do loro giurare fedeltà alla causa calvinista e a Guglielmo d'Orange, poi si recò davanti la cittadella intimando la resa al comandante spagnolo Gaspard Turk, mediante una lettera recapitata da uno dei francescani rimasti nel convento. Avuta risposta negativa, sul far della sera iniziò il cannoneggiamento, che costrinse gli assediati ad abbandonare due cinte difensive per asserragliarsi nella torre cerulea (così chiamata dal colore della pietra con cui era costruita). Nella confusione dell’assedio, il padre Nicola si distinse nel soccorrere i feriti e animare i soldati alla battaglia. Trovandosi in condizioni di netta inferiorità, il comandante spagnolo fu purtroppo costretto a trattare la resa e il Brant accettò, promettendo la libertà a tutti coloro che si fossero arresi, in cambio del diritto di saccheggio. Gli assediati si prepararono all’ingresso dei nemici confessandosi e comunicandosi con le ostie consacrate che il viceparroco Nicola Janssen aveva recato con sé per sottrarle alle profanazioni degli eretici.
Alle ore 2 della notte del 27 giugno, i Gheusi entrarono nella torre e spogliarono i vinti di tutti i loro averi; quasi tutti i laici furono poi lasciati andare il giorno seguente, dopo essere stati taglieggiati, i religiosi però furono imprigionati a tradimento.
I futuri martiri erano: 11 minori osservanti e cioè padre Ni-colaas Pieck, guardiano; padre Girolamo da Weert, vicario; padre Teodorico Embden, cappellano delle Clarisse; padre
Nicasio Johnson, predicatore; padre Willehaldo da Deen, un danese nonagenario; padre Goffredo da Melveren, confesso-re del convento; padre Antonio da Weert, elemosiniere e predicatore; padre Antonio da Hoornaert; padre Francesco Roye; fra Pietro da Asche e fra Cornelio da Wich; 1 canonico regolare agostiniano, padre Giovanni Lenaerts, cappellano delle monache del medesimo Ordine; 3 sacerdoti secolari gorcomiesi, Leonardo Vechel, parroco e Nicola Janssen, vice-parroco e Goffredo van Duynen (molto anziano, in un primo tempo fu liberato perché ritenuto demente, ma poi fu nuovamente imprigionato perché un eretico di Gorkum aveva fatto notare che "come aveva sufficiente testa per fabbricare il suo Dio dicendo la Messa, ne avrebbe avuto a sufficienza per esser impiccato!").
Con loro furono imprigionati anche: altri 2 minori osservanti e cioè padre Willehlm da Liegi e fra Enrick, novizio, e 1 altro sacerdote gorcomiese, Pontus Heuter. Ma questi tre in seguito mancarono di costanza e non conseguirono la palma del martirio.
La passione
Le sofferenze dei martiri ebbero inizio con le sevizie a cui furono sottoposti perché i Gheusi, non contenti di rapinare tutte le suppellettili liturgiche, pretendevano dai religiosi la consegna di favoleggiati tesori in loro possesso; il padre Girolamo da Weert, vicario ed economo del convento francescano, fu percosso sino a cadere tramortito e il padre Nicola ferito alla bocca con la tavoletta che si usava allora presenta-re ai fedeli durante la Santa Messa per il bacio di pace.
Intanto, anche la chiesa e il convento dei francescani furono saccheggiati e profanati e un eretico volle spaventare il padre Nicola, annunciandogli la prossima uccisione; lungi dallo spaventarsi, il Guardiano si raccolse in silenziosa preghiera.
Verso le 8 del mattino, fu introdotto al cospetto di padre Nicola un eretico suo parente, che egli aveva nel passato salvato da morte recandosi fino a Rotterdam a intercedere per lui presso le autorità spagnole.
Era venuto per offrire al congiunto la libertà, senza alcuna condizione, ma questi ne pose una: che assieme a lui fossero liberati i confratelli; non potendo ottenere ciò, coraggiosamente rifiutò la salvezza offertagli. Dovette però sopportare anche il tradimento del cuoco del convento, convinto dal parente a passare dalla parte dei Gheusi, per i quali iniziò anche a cucinare!
I religiosi furono quindi rinchiusi nel sotterraneo della torre. Era venerdì e ai prigionieri, digiuni dal giorno prima, fu offerta in spregio della carne, ma essi preferirono digiunare piuttosto che infrangere l’astinenza prescritta e sopportarono pazientemente anche gli scherni degli aguzzini, per nulla scossi dalla ammirabile fortezza dimostrata.
Giunse così la notte fra il 27 e il 28 giugno. Dopo essersi abbandonati ai bagordi profanando i calici consacrati i Gheusi, guidati da un certo malvivente detto Negro, entrarono nel sotterraneo per vilipendere la fede dei prigionieri e perquisirli nuovamente alla vana ricerca di beni da rapinare. Si accanirono in particolare contro il sacerdote Nicola Janssen, il quale fu strettamente legato e minacciato con un’arma da fuoco puntata sulla bocca, mentre il padre Nicola coraggiosamente interveniva in suo favore e testimoniava ad alta vo-ce la fede cattolica, benché anch’egli minacciato di morte. Gli aguzzini allora strapparono ad uno dei francescani il cordiglio e ne legarono un capo al collo del sacerdote e un altro alla porta del sotterraneo, usata per sbattere violentemente contro il muro di pietra il malcapitato, fino a farlo cadere a terra tramortito. Poi si accanirono contro padre Girolamo da Weert, a torto da loro ritenuto il superiore dei francescani; a quel punto il padre Nicola si fece conoscere come il Guardiano del convento e dichiarò che i frati non avevano beni da consegnare. Immediatamente legato e malamente trascinato fino ad una trave, ripetutamente fu appeso per il collo e lasciato ricadere a terra. Lo lasciarono infine sospeso, ma proprio allora la corda si ruppe; non sapendo se era vivo o morto, i Gheusi rizzarono il corpo esanime contro la parete e con la fiamma di una candela gli bruciarono le guance, la fronte, le palpebre, la labbra, le narici e l’interno della bocca! Credutolo trapassato, abbandonarono il sotterraneo, mentre gli altri prigionieri si affliggevano per il decesso. Però, fattosi giorno, il padre Nicola inaspettatamente rivenne ed ebbe l’animo e la forza di confortare i suoi compagni, di-chiarando: “non è grave né molto difficile da sopportare la pena dell’impiccagione, secondo l’esperienza che ne ho fatto. Il tormento è anzi piccolo e momentaneo, perché subito sopravviene la perdita dei sensi. Dunque per mezzo di brevi e facili patimenti noi passeremo da questa misera terra all’eterna e beata vita, conquistando quella corona di gloria che ci è preparata in cielo. Fatevi dunque animo, figli miei, tenendo per fermo, che tutti i patimenti della presente vita so-no un nulla, come attesta l'Apostolo Paolo, in confronto alla futura gloria che si manifesterà in noi” (Storia, cit., p. 40). Poco dopo i Geusi tornarono con l’intenzione di smembrare il corpo del ritenuto morto religioso e di esporne i brandelli sulle mura come traditore della patria; trovandolo vivo, pri-ma fecero silenzio, poi lo percossero ripetutamente in tutte le membra, sfogando così il loro odio.
Nella notte seguente gli aguzzini tornarono, replicando verso i prigionieri le percosse e i dileggi a sfondo religioso; ancora una volta tutti dettero prova di fortezza e mitezza evangelica, sia negli atteggiamenti che nelle risposte.
Clemens Calvio, cugino del padre Nicola per parte di madre e conoscente del Brant, ottenne da lui il permesso di visitare i prigionieri, sfamarli e farne curare le ferite; il futuro martire dichiarò che non era più in grado di riconoscere il gusto dei cibi, a causa delle violenze patite e rifiutò ancora una volta la possibilità di essere liberato lasciando prigionieri i confratelli: “Cugino, rifletti: non è piccola cosa né di poca importanza morire per la fede cattolica!” (Storia, p. 45).
Le cure mediche furono prestate dal cognato del padre Nicola, il chirurgo Teodor Cortmann, che scoppiò in lacrime nel vedere come era ridotto e al quale il francescano manifestò la propria fermezza d’animo di fronte alla prospettiva della morte patita per la fede.
Ottenne così di scuotere la coscienza del congiunto, che tor-nò ad essere un fervente cattolico, opportando persecuzione ed esilio per tutto il resto della sua vita. Finché i religiosi rimasero nella torre li visitò e li assistette ogni giorno.
La sera del 31 giugno in Gorcum furono messi pubblicamente a morte due cattolici, i laici Teodor Bummer e Arnold Re, il primo per avere apertamente criticato i sacrilegi perpetrati, il secondo in base a false accuse di cospirazione politica.
Il 1° luglio il capo dei Gheusi, il sopramenzionato Guglielmo de la Marck, conte di Lumley, da Brielle inviò a Gorcum un certo Jean Omal, sacerdote apostata di Liegi, perché ottenesse l’apostasia dei religiosi detenuti, più utile alla propaganda eretica che la loro uccisione. Penetrato nel sotterraneo, non riuscì a piegarli né con i discorsi né con le minacce di morte; anzi, creduta giunta la loro ultima ora, essi stessi si spogliarono delle tonache per prepararsi a salire il patibolo. Gli aguzzini per il momento desistettero, lasciandoli però rivestiti da allora in poi dei soli indumenti intimi.
Al sopraggiungere della notte, li legarono per i polsi in due file e li condussero sul bastione esterno della rocca, mentre essi cantavano il Te Deum; per lungo tempo furono costretti ad assistere in piedi ai bagordi dei Gheusi, che li ingiuriava-no mentre banchettavano; eccitati dal cibo e dalle bevande, ad un certo punto questi pretesero che i prigionieri si sottomettessero ad un lubrico giuoco, ma la fiera protesta del pa-dre Nicola li fece desistere dal loro empio proposito. Furono quindi ricondotti in carcere e per buona parte della notte un tale Lorenzo Tilmann ingiuriò il padre Nicola con violente e beffarde parole, a cui il confessore della fede rispose con mute lacrime.
Il 2 di luglio un nuovo prigioniero si aggiunse ai precedenti, il domenicano Giovanni di Colonia, catturato mentre da Hornaire (dove era parroco) viaggiava alla volta di Gorcum per amministrarvi un Battesimo. Anch’egli divenne partecipe dell’atmosfera spirituale che regnava nel sotterraneo, unendosi alle fervide preghiere elevate per i persecutori, all’incitamento vicendevole a rimanere saldi fino alla morte, alla meditazione della Passione del Salvatore.
Quel giorno fu memorabile per gli abitanti di Gorcum, accorsi ad ascoltare l’ultima predica del parroco Leonardo Vechel, il quale a furor di popolo aveva ottenuto la libertà vigilata il giorno precedente, in circostanze singolari che qui sarebbe troppo lungo riferire. Nella festa della Visitazione della beata Vergine Maria egli predicò cattolicamente con grande coraggio e pericolo della vita. Per altri avvenimenti familiari subito dopo occorsigli, fu quindi nuovamente imprigionato, condividendo poi fino alla fine il destino degli altri religiosi e chierici.
Intanto nella città gli animi erano divisi circa la sorte da infliggere ai prigionieri; nel Consiglio prevalse infine il parere di inviare messaggeri al lontano Guglielmo d’Orange per chiedere la loro liberazione, anche perché era stata tradita la promessa fatta dal Brant di mandare liberi tutti quelli che gli si erano arresi nell’assedio. Ma i partigiani dei Gheusi inviarono a loro volta degli emissari a Brielle per reclamare la morte dei religiosi e approfittarono del ritorno dello scellerato Omal per organizzare il loro allontanamento da Gorcum, così che rimanessero privi di ogni sostegno. Sulla sorte dei confessori della fede pesarono gli avvenimenti politici di quei primi giorni di luglio, in cui Guglielmo d'Orange fu nominato Capo di Stato di Olanda, Zelanda, Frisia e Utrecht durante un congresso dei rivoltosi a Dordrecht. Nell’ardua impresa di tenere unite le varie fazioni della rivolta, egli si appoggiò ai calvinisti, che costituivano il partito più determinante per la ribellione. Il primo responsabile della uccisione dei martiri fu però il Lumley, che intese così sfogare il suo odio anticattolico e ribadire il proprio potere sia nei confronti del lontano Orange che del vicino Brant. La sua belluina crudeltà era del resto ben nota e finì poi per perderlo: non molto tempo dopo il martirio del padre Nicola e dei suoi compagni, dopo avere fatto ulteriore strage di sacerdoti
e religiosi in altre zone vicine dell’Olanda, fu destituito e carcerato da Guglielmo d’Orange. Riuscito a fuggire a Liegi, si rifugiò infine ad Aquisgrana, città cattolica ove non gli fu torto un capello dagli uomini ma cadde sotto la giustizia divina, tanto che morso dal suo cane morì rabbioso e indurito nella sua empietà; sulla sua tomba fu scritto il seguente epitaffio: “Qui giace il conte de La Marck Lumley. Visse come un porco, morì come un cane” (cf Storia, p. 201).
Nella notte fra il 5 e il 6 luglio i prigionieri furono imbarcati segretamente per Brielle, quasi nudi e legati a due a due. Il viaggio fu interrotto da numerose soste, nelle quali i religiosi (affamati, assetati e ristretti in poco spazio) furono esposti - anche a pagamento! - alla curiosità, agli insulti e ai lanci del-la folla accorsa da vari paesi; sulle rive di Dortrecht i calvini-sti cercarono anche in tale frangente di indurli a negare la presenza di Cristo nell’Eucaristia; i sacerdoti Vechel e Janssen e il padre Girolamo da Weert disputarono ad alta voce, ma di fronte all’ostinazione degli eretici il padre Nicola – tenendo il capo appoggiato all’albero della nave - li consigliò di tacere, perché i nemici erano in malafede. Giunsero in vista di Brielle sul far della notte e l’Omal costrinse la barca ad attendere lungo il fiume lo spuntare del giorno, esponendo così i denudati poveretti anche ai rigori della notte.
All’alba i prigionieri furono fatti sbarcare al cospetto del Lumley e della folla accorsa e violentemente denigrati come nemici, fautori del dominio spagnolo e corruttori del Vangelo, mentre essi sopportavano tutto in silenzio.
Gli aguzzini costrinsero i confessori della fede a inscenare come una devota processione e per lungo tempo li sferzarono a girare avanti e indietro prima attorno al patibolo eretto sulle rive della Mosa e poi su quello della piazza della città, mentre fra le percosse e le ingiurie degli sgherri e i lanci di sassi, fango e acqua salata da parte della folla, veniva loro ripetutamente annunciata la morte come imminente. I futuri martiri mantennero sempre il loro contegno coraggioso, cantando la Salve Regina, il Te Deum e le Litanie dei Santi.
Il padre Girolamo da Weert ad un certo punto rimproverò ad alta voce la folla per la sua violenza e dichiarò loro il perdono da parte delle vittime, desiderose della conversione dei propri persecutori. Lo strazio durò quattro ore e ridusse le vittime quasi in fin di vita. Infine, il Lumley ordinò che fos-sero richiusi nel tetro carcere sotterraneo della torre; prima di entrarvi i sacerdoti Vechel e Janssen scoppiarono in lacrime, avendo riconosciuto tra la folla alcuni loro parrocchiani di Gorcum, fin là giunti per oltraggiarli e particolarmente una donna, da loro tante volte soccorsa con elemosine!
Nella lurida prigione trovarono il sacerdote Andreas Wouters, parroco di Heinenoord e i padri premostratensi Adriano Becan e Giacomo Lacops, rispettivamente parroco e vice-parroco di Munster; quest’ultimo aveva un tempo pubblica-mente apostatato dalla fede cattolica, ma poi si era convertito e aveva ripreso la vita religiosa e l’esercizio del ministero.
Alle tre del pomeriggio i prigionieri, digiuni dalla sera precedente, furono portati in una casa al centro della città, al co-spetto del Lumley, per essere indotti all’apostasia. Il primo ad essere interrogato fu il Vechel, che rispose con tanta franchezza da essere ferito al capo da uno sgherro. Fra Cornelio da Wijk, non essendo in grado di impegnarsi in una disputa, rispose semplicemente: “Io credo e professo tutto quello che crede, professa e tante volte mi ha insegnato il mio Guardiano, padre Nicola”.
Il novizio fra Enrick e il sacerdote Pontius Heuter (che dopo lunga connivenza con l’Omal anni dopo tornò alla Chiesa e all’esercizio del sacro ministero) purtroppo si mostrarono disposti ad aderire all’eresia pur di scampare alla morte e furono separati dagli altri religiosi, ricondotti invece alla torre e nuovamente rinchiusi, ma stavolta in uno dei carceri superiori, ove ricevettero un po’ di pane ed acqua.
La mattina dell’8 luglio, solo 7 prigionieri, fra cui padre Nicola, furono tradotti nella sala del Consiglio cittadino, alla presenza del Lumley, del governatore e di molti altri; erano presenti anche i 2 eretici fratelli del Guardiano, accorsi per cercare di ottenergli la libertà. I persecutori si ripromettevano di indurre tutti i religiosi all’eresia vincendo i più autorevoli del gruppo per santità e dottrina e così intimarono loro di rigettare il primato del Romano Pontefice, che era allora San Pio V. Tra gli altri, anche il padre Nicola con dignitosa fermezza, così rese la sua testimonianza: “ma tu davvero pensi che noi per eccessivo amore della vita presente ci induciamo a far liberamente naufragio riguardo a quella futura: ciò che disgraziatamente e infallibilmente ci accadrebbe, quando separatici da colui che in terra tiene il luogo di Cristo, noi aderissimo alle menzogne della tua setta? Sei bene stolto se lo credi. Come vuoi che, per sfuggire ora a quella morte, che pure tra poco non mancherebbe di predarci, ci tiriamo addosso l'ira di Dio e la maledizione degli uomini? Ma poniamo pure che non avessimo a morire fra breve: forse non sarebbe ugualmente grande follia, per pochi anni di vita incorrere nell'ira divina e perdere l'eterna ricompensa della gioia del cielo? Dunque prepara pure il patibolo e co-manda al carnefice che sopra il medesimo ci trafigga: noi non saremo per ciò meno lieti nell'anima, certi come siamo d'incontrare la morte per la difesa della verità e in odio della vera fede di Gesù Cristo. Perciò, finché ci batterà il cuore nel petto, né del tutto saremo abbandonati dalla scintilla di questa vita mortale, noi benediremo la nostra santissima religione, confessando in faccia al cielo e alla terra che fuori di essa non vi è salvezza per l’uomo” (Storia, p. 98).
Gli aguzzini passarono allora a insidiare il premostratense padre Giacomo Lacops – in passato già caduto in eresia – ripromettendosi di convincere almeno lui, ma egli – dopo avere professato la fede cattolica nella presenza eucaristica - piuttosto rinfacciò ai calvinisti la loro contraddizione, perché per se stessi rivendicavano la libertà religiosa, mentre la negavano ai cattolici e audacemente propose loro una pubblica disputa, per indurli alla conversione. La proposta fu accettata; Leonardo Vechel e Nicola Pieck furono scelti per sostenere la vera fede, mentre dagli eretici furono deputati un certo Cornelius, marinaio di Gorcum e Andrea, ex parroco di Santa Caterina di Brielle. La disputa verté su di un unico punto, proposto dai cattolici: come si può asserire che la Bibbia ci rivela la parola di Dio e come si può essere certi di quali siano i libri che la compongono, se si nega l’autorità e la tradizione della Chiesa romana. Gli eretici non seppero rispondere e troncarono la discussione aizzando i presenti contro i prigionieri, che infine il Lumley fece ricondurre nella torre.
Verso la sera del medesimo giorno giunse a Brielle da Gorcum un emissario cattolico che pubblicamente si presentò al Lumley come latore innanzitutto di una lettera del Consiglio cittadino in cui si chiedeva la liberazione dei religiosi, poi di un lasciapassare a loro destinato firmato dal Brant e soprattutto di copia scritta di ordini fatti pervenire il giorno avanti da Guglielmo d’Orange, il quale proibiva in generale la persecuzione degli uomini di Chiesa, i quali godevano la protezione della legge. In presenza degli astanti il Lumley però ricusò di ubbidire alle disposizioni dell’Orange, con la risibile motivazione di voler vendicare gli aristocratici calvinisti Horn e Egmont, giustiziati dal Duca d’Alba come traditori, mediante la morte dei papisti in sua mano. A nulla valsero le vive rimostranze del messaggero e di alcuni presenti, fra i quali i fratelli del padre Nicola, che a quel punto privatamente riuscirono a strappare al tiranno la promessa di liberare tutti i prigionieri, a condizione però che rinnegassero il primato del Papa. A tal fine ottennero il permesso di cenare assieme al loro fratello in casa del comandante della soldataglia gheusa.
Durante l’emozionante colloquio i fratelli tentarono in ogni modo di piegare la fermezza del futuro martire, facendo anche appello al disonore che, secondo loro, la sua morte avrebbe apportato alla famiglia; ma il francescano rimase saldo e non si fece impressionare neanche dalla voce del sangue che gli rinfacciava di tenere più alla solidarietà con i suoi confratelli religiosi che ai legami familiari. Alla fine i fratelli cercarono di ubriacarlo, così da fargli sfuggire di bocca parole equivoche che dessero almeno l’impressione di un suo consentimento a negare l’autorità pontificia; accortosi del tranello, il padre Nicola rifiutò di continuare a mangiare e bere e a quel punto i fratelli carnali lo abbandonarono, maledicendo quella che a loro appariva mera follia e ostinazione. Rimasto solo, egli si addormentò sulla sedia, stremato dalle fatiche e dalle emozioni, finché sopraggiunsero alcuni armati per ricondurlo in prigione.
Il martirio
Intanto il Lumley aveva già dato disposizioni per l’assassinio dei religiosi, inveendo contro il Brant che aveva firmato il salvacondotto per loro e soprattutto contro l’Orange, il quale senza aver mai messo piede in zona pretendeva di dare ordini a lui, che invece guidava la rivolta. Incaricò quindi l’Omal di procedere senza indugio.
Nella cella della torre i poveri prigionieri intanto si preparavano alla morte confessandosi a vicenda ed ebbero la sorpresa di riaccogliere tra le proprie fila fra Enrick, pentito della sua vigliaccheria e rientrato volontariamente nel carcere.
Verso la mezzanotte fra l’8 e il 9 luglio l’Omal e altri Gheusi armati entrarono nella cella, incatenarono i confessori e li trascinarono fuori città, spregiativamente fra le rovine del convento agostiniano di Santa Elisabetta, che gli eretici avevano saccheggiato e dove il padre Giovanni Lenaerts aveva a lungo vissuto; come luogo dell’uccisione non trovarono di meglio che la casetta detta “dei cespugli” fra la chiesa e l’orto, usata dai canonici regolari come deposito della legna da ardere e nella quale due travi e una scala furono giudicati adatti all’impiccagione.
Omal fece slegare e denudare i prigionieri e poi ordinò di iniziare l’eccidio dal padre Niccolò, perché più di tutti aveva esortato i compagni ad essere fedeli fino alla morte.
Egli accolse la sua estrema sorte con un sorriso e, per l’ultima volta rivolse loro la parola: “Ecco, io vi mostro la via del cielo! Seguitemi come valorosi soldati di Cristo. Dopo aver combattuto insieme, che nessuno manchi al trionfo che ci attende lassù!”. Abbracciò e baciò tutti, quindi salì da solo la scala, continuando a lodare Dio, a confessare la fede e a incoraggiare i compagni, finché il laccio appeso alla trave più corta non gli tolse il respiro. A 38 anni non ancora compiuti terminò vittorioso la sua corsa e colse la palma del martirio.
Tolto di mezzo il padre Nicola, un ministro calvinista lì presente credette ora possibile insidiare la fede dei rimanenti religiosi e tentò ancora con sofismi e minacce di farli recedere dalla fedeltà al Romano Pontefice; in tale frangente l’anima del gruppo divenne il padre Nicasio Johnson, il quale ancora una volta respinse a nome di tutti la seduzione eretica e, stringendolo al seno, cercò di confortare il confratello fra Enrick, novizio diciottenne che vinto alfine dalla paura per la seconda volta chiese salva la vita con l’aderire alle istanze degli aguzzini; fu quindi separato definitivamente dal gruppo (anni dopo, roso dai rimorsi riuscì a fuggire e si rifugiò nel convento di Bois-le-Duc, ove riprese a condurre vita religiosa fino alla morte). Il secondo ad essere impiccato fu il padre Girolamo da Weert, energico fino all’estremo nel rimproverare l’eretica pravità; per questo, prima di essere appeso, fu sfigurato a colpi di picca nel volto e anche sul petto e sul braccio destro, dove portava incise due croci. Purtroppo, anche al francescano padre Willehlm da Liegi mancò in ultimo il coraggio e chiese di avere salva la vita a prezzo della fede (arruolatosi come soldato, 2 anni appresso fu poi lo stesso impiccato, perché accusato di furto). L’ultimo ad essere martirizzato fu l’anziano sacerdote Goffredo van Duynen, che i carnefici volevano a quel punto risparmiare, perché sofferente di demenza; ma egli in quel momento era ben padrone di se stesso e insistette per condividere la sorte degli altri. Alle 4 del mattino i corpi di tutti i 19 martiri pendevano nel vuoto e i Geusi se ne andarono.
Gli scellerati ritornarono però di buon mattino, con i 2 apostati loro associati, per vilipendere i cadaveri e la luce del giorno rivelò una scena agghiacciante: la strage era stata compiuta in modo affrettato e approssimativo, tanto che alcuni martiri erano ancora vivi, mentre le corde erano scese a stringere la bocca, il mento o la parte superiore della testa, come nel caso del padre Nicasio. Ma ogni umana pietà era da lungo tempo spenta in coloro che pure portavano scritto sulla propria bandiera “Evangelo. Libertà. Civiltà”: innanzitutto spinsero l’ex novizio Enrick a squarciare il petto del padre Nicola con un colpo di archibugio e poi si dettero a mutilare i corpi: tagliarono ad uno il naso, ad un altro le orecchie o una mano o un piede, persino i genitali. Con tali vergognosi trofei esibiti a guisa di coccarde e sospesi alle loro picche, si riversarono in città per farli vedere ai passanti. Ma la ferocia belluina non aveva ancora raggiunto il suo culmine! Nel pomeriggio i Gheusi tornarono ancora sul luogo del loro delitto per eviscerare i già straziati corpi e venderne poi le interiora al popolo forsennato nel mercato cittadino!
Giunse infine la sera di quel 9 luglio 1572, giorno glorioso per i martiri di Cristo e tragico per l’umanità accecata dall’odio furibondo. Mentre dei ragazzini ancora vilipendevano le povere membra sanguinolente rimaste nella capanna diroccata, un cattolico gorcomiese si presentò novello Giuseppe di Arimatea ai perfidi governanti di Brielle e, tramite una cospicua somma di denaro ottenne che la ciurma dell’Omal desse loro sepoltura in due ampie fosse scavate nei pressi; ciò che rimaneva del corpo del padre Nicola fu interrato in quella più piccola e meno profonda.
Il culto
Nella stessa notte del loro agone, il cattolico Mattia Toran a Gorcum vegliava in preghiera ed ebbe la visione della gloria dei 19 santi martiri; in seguito, per loro intercessione, guarì improvvisamente e perfettamente dall’ernia di cui soffriva da tempo e che i medici non riuscivano a curare.
Anche un altro suo concittadino guarì improvvisamente dalla gotta, una volta recatosi a pregare sulla tomba degli eroi della fede, la quale in seguito fu illustrata dal seguente singolare prodigio, che accrebbe la venerazione per i martiri.
Nei primi anni del XVII secolo sul terreno sbocciò un fiore bianco e profumato, di genere fino allora sconosciuto ai botanici e di straordinaria bellezza. Alla notizia del meraviglioso fenomeno, i pellegrini accorsero da ogni dove, portando via per devozione qualche ramo del cespuglio prodigioso, che invece di diminuire si moltiplicava maggiormente. Nel 1614 il sacerdote Adrian Anton di Oorschat, parroco di Santa Gertrude in Utrecht aveva riposto in una scatola di legno un ramo di quei fiori e ogni qualvolta l'apriva li trovava freschi e profumati come quando erano stati colti. Poi per circa nove mesi non controllò più lo strano fenomeno. Quando riaprì la cassettina, constatò che i fiori non soltanto avevano conservato la loro primitiva freschezza, ma si erano moltiplicati, fino ad occupare tutto lo spazio del recipiente: furono contati e risultarono essere diciannove, come gli eroici atleti morti per Cristo (nel 1617 rese testimonianza giurata dell’accaduto a monsignor Lucio Sanseverino, Nunzio apostolico a Bruxelles).
Nel 1616, durante una tregua fra la Spagna e le Provincie Unite, i resti dei gloriosi martiri furono esumati e traslati a Bruxelles il 18 ottobre 1618, prima nella chiesa dei Francescani e poi in San Nicola, dove i religiosi si trasferirono in seguito.
Nel 1619 ben 32 processi verbali di guarigioni o di altri miracoli ottenuti per intercessione dei martiri gorcomiesi furono inviati alla Santa Sede.
Nel 1628 iniziò il processo di beatificazione; le audizioni dei testimoni si protrassero fino al 1661 e finalmente il 24 novembre 1675 papa Clemente X li proclamò Beati.
Il beato Pio IX ne decise la canonizzazione il 6 gennaio 1865, alla quale poi procedette il 29 giugno del 1867, nella solennità 18 volte centenaria degli Apostoli Pietro e Paolo, presenti i Cardinali e circa 500 tra patriarchi, arcivescovi e vescovi. Nella medesima circostaza furono canonizzati anche i santi martiri Giosafat Kuncewicz (1580 – 1623) e Pietro d’Arbués (1441 –1485), e i santi Paolo della Croce (1694 – 1775), Leonardo da Porto Maurizio (1676 – 1751), Maria Francesca delle Piaghe di Nostro Signore Gesù Cristo (1715 – 1791) e Germana Cousin (1570 – 1601).
La memoria liturgica è fissata al 9 luglio anche nel Calendario serafico, e nella stessa data il Martyrologium romanum ne riporta l’elogio.
Nel 1853, i Santi martiri furono dichiarati Patroni della ricostituita provincia olandese dell'Ordine francescano.
Su richiesta del vescovo Raffaello Sandrelli, Leone XIII il 26 novembre 1898, concesse alla diocesi di Sansepolcro di iscrivere nel Calendario proprio la memoria liturgica, con il grado di “duplex maius” e con i testi del Proprium dell’Ordine dei Minori Francescani.
Nel 1932 a Brielle fu dedicato un Santuario ad essi dedicato sul luogo della sepoltura.
Il 9 luglio 1972 il quarto Centenario del martirio fu commemorato solennemente dal cardinale primate Bernard Jan Alfrink, in presenza della regina Giuliana d’Olanda e del primo ministro Marga Klompé.
Fonte:
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Diocesi di Arezzo-Cortona-Sansepolcro
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