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Beato Francesco Faà di Bruno Sacerdote e fondatore

Festa: 27 marzo

Alessandria, 29 marzo 1825 - Torino, 27 marzo 1888

Nacque ad Alessandria nel 1825 da una famiglia della nobiltà militare. Prima di divenire prete, lui stesso fu ufficiale dell'esercito sabaudo (è protettore dei genieri), professore all'Università di Torino, architetto e matematico, consigliere della Casa Reale di Savoia. Diede vita all'opera Santa Zita per le donne di servizio e a una casa per ragazze madri. Fondò le suore Minime di Nostra Signora del Suffragio. Fu amico di Don Bosco. Il 22 ottobre 1876 venne ordinato sacerdote a Roma. Desiderava questa ordinazione anche per seguire meglio la congregazione di suore. Consumato dal servizio della scienza, della Chiesa e del prossimo, Fran­cesco Faà di Bruno conclude la sua esistenza terrena a Torino, dopo soli cinque giorni di malattia, il 27 marzo 1888, poco dopo Don Bosco (31 gennaio 1888). Fin da subito ebbe fama di santità. La sua tomba si trova nella chiesa di Nostra Signora del Suffragio a To­rino, da lui stesso costruita nel 1867 in cristiana memoria dei caduti per l'u­nità d'Italia. Francesco Faà di Bruno è stato beatificato il 25 settembre 1988, a Roma, da San Giovanni Paolo II. Le diocesi di Acqui, Alessandria, Novara e Torino celebrano il 27 marzo la sua memoria facoltativa.

Martirologio Romano: A Torino, beato Francesco Faá di Bruno, sacerdote, che unì sempre alla sua competenza di matematico e fisico l’impegno nelle opere di carità.


Carriera militare

Ultimo di 12 figli, Francesco Faà di Bruno nasce ad Alessandria, il 29 marzo 1825, da genitori nobili e benestanti, di nobiltà e di beni più antichi dei Savoia, originari di Bruno d’Asti, dove c’è ancora, bellissimo, il loro antico castello. Famiglia cattolicissima e formazione dolce e austera all’amore a Gesù e alla sua Chiesa. Due sorelle di Francesco diventano religiose; due fratelli sacerdoti. Anche lui, da ragazzino, pensa di donarsi tutto a Gesù, mentre frequenta i primi studi a Novi Ligure, Allievo dei Padri Somaschi.
A nove anni perde la mamma, e cresce pensoso, intelligentissimo e dedito allo studio con passione. A 15 anni, di ritorno a Torino, si iscrive all’Accademia militare della città subalpina. Si distingue per stile, studio, capacità militari, senso del dovere e del sacrificio, amore alla patria. A 19 anni, nel 1846, Francesco è nominato luogotenente. È segnato a dito per la sua fede professata e per la sua purezza, cose non del tutto gradite al mondo, neppure al mondo militare. Ma lui sa andare controcorrente al mondo, per amore di Gesù.
Ha 23 anni, quando partecipa alla prima guerra di indipendenza (1848-’49), aiutante di campo del principe Vittorio Emanuele, futuro re d’Italia. Nella sanguinosa battaglia di Novara, vede morire molti giovani soldati. Non dimenticherà mai quelle vite stroncate e andate all’inaspettato incontro con Dio. Durante la battaglia, il suo cavallo è colpito a morte, ma lui benché ferito ad una gamba, essendo molto alto, rimane in piedi e si mette in salvo. Nei mesi precedenti, stupito che non ci siano carte con rilievi aggiornati sulla zona di guerra, aveva raccolto i dati necessari per una “gran carta del Mincio”, che servirà nella successiva guerra di indipendenza nel 1859.
Nella “Torino dei Santi”, i passi del giovane ufficiale si incontrano con quelli di Don Bosco, così deposta la sciabola in sacrestia, gli capita spesso di servire la Messa al Santo dei giovani, prima di recarsi all’Accademia. Il nuovo re, Vittorio Emanuele II, convinto dalle doti e dall’ottimo carattere dell’ufficiale, gli promette di nominarlo precettore dei suoi figli. Per perfezionare i suoi studi, il capitano Faà di Bruno va a Parigi, alla Sorbona, a laurearsi in matematica. Quando però ritornò a Torino nel 1851, l’incarico di precettore reale gli viene revocato, perché il suo stile di cattolico fervente infastidisce la corrente anti-cattolica che dilaga nell’ambiente che lo circonda. Addirittura viene sfidato a un duello da un commilitone, cui essendo cattolico, si sottrae.
Allora il capitano, deluso dagli uomini, soprattutto dai potenti, si dimette dall’esercito che pure ama, per servire come soldato di un altro Re, Gesù solo, il Re dei re, il Signore dei dominanti.

Professore, scienziato

Faà di Bruno parte di nuovo per Parigi, per frequentare la Sorbona e laurearsi ancora, in modo da poter competere con chiunque e servire al massimo l’umanità, secondo i talenti datigli da Dio. A Don Bosco lascia la cura de Il galantuomo, un calendario che pubblicava per i contadini, con consigli di agricoltura e di vita cristiana. Altresì già stampava La lira cattolica, una raccolta di canti sacri da lui composti; perché era anche musicista! A Parigi è allievo di Augustin Cauchy, illustre scienziato con il quale farà la tesi di laurea in Matematica e in Astronomia. Conosce e frequenta i più alti esponenti della cultura cattolica di Francia e di Europa, con alcuni stringe amicizia, come con il professor Federico Ozanam fondatore delle Conferenze di San Vincenzo. Diventa membro di una di esse, quella di Saint Germain des Prés, e condivide con loro la sua passione di amore ai poveri, imparato dalla mamma, a Bruno d’Asti, e sempre praticato. Con al centro della sua vita Gesù, come unico amore della sua esistenza, quando torna a Torino con le sue prestigiose lauree, potrà insegnare all’università subalpina nuove discipline. È matematico, astronomo, fisico, architetto, inventore, filosofo e teologo. Sì, teologo, cosicché quando i preti torinesi si trovano a dirimere qualche grave questione morale, si appellano alle sue posizioni, maturate nello studio della Sacra Scrittura, e della Summa di san Tommaso d’Aquino.
Tra i poveri che ama e predilige, il professore Faà di Bruno è colpito dallo sfruttamento delle “serve”, una categoria di ragazze che migravano dai paesi di campagna a Torino per servire nelle case dei signori e dei padroni. Comincia con l’istituire una scuola di canto per loro, per toglierle dalla strada. Le raduna presso la parrocchia di San Massimo e, attraverso il canto e la musica, trasmette la fede: insegnata, accolta, vissuta. Intanto fondava, come Ozanam, conferenze di San Vincenzo per l’aiuto e la formazione cristiana alle famiglie più povere. In questi anni – nel 1858 – acquista un terreno e una casa nel borgo di San Donato e il 2 febbraio 1869, apre quello che sarà il suo capolavoro, l’opera di Santa Zita per raccogliervi gratis le donne in cerca di servizio curando la loro formazione e legandole a famiglie moralmente sane.
Da “Santa Zita” si irradia la sua carità senza limiti, che raggiunge tutti i problemi sociali del tempo: i “fornelli economici” per dare un pasto caldo a chi ne abbisogna e non ce l’ha; l’apertura di lavatoi e di bagni per chi può essere utile; la fondazione di una comunità per le ragazze poco dotate (le clarine, in onore di santa Chiara); un pensionato per i sacerdoti; un altro per donne di “civil condizione”, ma sole, senza dimenticare le più povere; la scuola per le maestre future alle elementari; la scuola di preparazione alla formazione di buone famiglie; infine un liceo, dove Don Bosco manda pure i migliori dei suoi allievi di Valdocco.
Perché tutto questo impegno dove spendeva e dilapidava il suo patrimonio personale e si adattava a chiedere l’elemosina sulle porte delle chiese di Torino? Per amore a Gesù solo, che il prof. Faà di Bruno vede davvero nel volto dei fratelli e delle sorelle più poveri (cf. Mt 25,40). Il medesimo Gesù che egli adora a lungo davanti al Tabernacolo nelle chiese, che riceve ogni giorno nella Santissima Eucaristia. Gesù lo mobilita a mettere a suo servizio come un inno a Lui, Sapienza divina, la sua intelligenza e cultura superiore. Al suo rientro da Parigi, aveva incominciato a insegnare all’università, e alla scuola militare, cui era rimasto legato anche dopo le sue dimissioni dall’esercito... Prima lezioni libere, poi dal 1861, come professore aggregato alla Facoltà di Matematica e Fisica, dove fin da subito brilla il suo genio come un faro di luce, luce dalla sua scienza superiore e luce dalla sua fede luminosa nel Cristo, Via, Verità e Vita. Senza paura, senza complessi di inferiorità, a fronte alta, mai secondo a nessuno. Pur nell’ambiente liberale, positivista e massonico, anticattolico che lo circonda.

Milite e sacerdote

Escono dalla sua mente formidabile i trattati di matematica, che erano oggetto delle sue lezioni. È sua, risalente al 1857, quando lui aveva solo 32 anni, la “formula Faà di Bruno”, che viene ancora usata oggi dagli scienziati della NASA e nei calcoli informatici. A guida dell’opera di Santa Zita, il professore, pure laico, sta preparando alcune giovani donne, innamorate di Gesù, che egli avvia alla consacrazione religiosa. A questo punto, riaffiora il suo antico giovanile desiderio di diventare sacerdote. Alcuni vescovi come quelli di Mondovì e di Alessandria, diversi sacerdoti illustri di Torino, come Don Bosco, certi della sua preparazione teologica pastorale, pur non essendo mai stato in seminario, lo incoraggiano al Sacerdozio.
L’arcivescovo di Torino, mons. Gastaldi, è d’accordo, ma vorrebbe per lui un periodo di preparazione in seminario... Ma Don Bosco ne parla al Santo Padre Pio IX. Nell’ottobre 1876, Faà di Bruno va a Roma, dove Pio IX in persona lo ammette agli Ordini sacri, lo fa consacrare diacono e il 22 ottobre 1876 lo fa ordinare sacerdote, regalandogli anche il calice preziosissimo per la sua prima Messa e tutte le Messe che avrebbe celebrato. La gioia tocca il culmine, in quel giorno santo: 52 anni, già capitano dell’esercito, professore esimio di matematica all’università, operatore sociale di primo piano e... sacerdote di Cristo.
Nel frattempo a Torino, ha fatto innalzare, presso l’Opera di Santa Zita, una grande chiesa dedicata alla Madonna del Suffragio, come centro della sua azione benefica, luogo di preghiera e di adorazione a Gesù Ostia e di suffragio per i defunti, in primis per le giovani vite stroncate dalle guerre. Presso la chiesa, Faà di Bruno ha fatto innalzare il meraviglioso campanile pressoché unico al mondo, da lui progettato, sormontato dall’arcangelo san Michele, con la sua sfida alle forze di Satana: «Chi mai è come Dio?». Il 1° novembre del 1876, l’abate Francesco Faà di Bruno celebra la prima Messa nella sua chiesa.
Gli restano 12 anni di vita. Continua a insegnare all’università, dove a causa della sua fede cattolica vissuta e del suo Sacerdozio ardente, non entrerà mai in ruolo, per l’opposizione dei nemici di Dio, mentre a Padova, lo spretato Roberto Ardigò, filosofo positivista, avrà presto la cattedra stabile. Così va il mondo, quando manca Dio! Più che mai si interessa dei poveri e dei piccoli. Sono sue alcune invenzioni come il barometro a mercurio, lo scrittoio per i non-vedenti, la sveglia elettrica, premiate in alcune esposizioni universali, la pubblicazione di un saggio scientifico sulle teorie delle forme binarie. Ormai famoso in Europa, in America e... mal visto dai massoni d’Italia!
Ma diventato sacerdote, don Francesco è tutto uomo di Dio, che passa lunghe ore in confessionale a dirigere le anime, che celebra la Messa, come la realtà più sublime di ogni sua giornata, che cura la liturgia e la sua chiesa dove nulla deve essere sciatto e feriale (come si inclina oggi), che si fa autore di musica sacra a cantare le lodi di Dio solo. La sua comunità di giovani consacrate diventa la Congregazione delle Suore Minime del Suffragio: “minime”, perché lui, benché sia un genio, vuole essere “minimo” davanti a Dio, nell’umiltà più radicale.
Nella sua camera, nella casa di Santa Zita, abbiamo visto una finestrella che si apre sul Tabernacolo della chiesa. Lì, sull’inginocchiatoio l’ex capitano dell’esercito sabaudo, il professore matematico illustre, il “servo dei poveri”, ora sacerdote, vegliava con l’adorazione eucaristica a Gesù-Ostia, sul mondo in agonia per tanti peccati e rifiuti di Dio.
Il 27 marzo 1888, il sacerdote santo va incontro a Dio. Il 30 marzo 1888, i suoi funerali nel silenzio, senza Messa e senza campane, perché è Venerdì Santo, il giorno del Sacrificio di Gesù, e lui se ne va nel silenzio più assoluto.
Il 25 settembre 1988, il Santo Padre Giovanni Paolo II, con la solenne beatificazione lo eleva alla gloria degli altari.

Autore: Paolo Risso

Fonte: www.settimanaleppio.it

 


 

Francesco Faà di Bruno, ultimo di dodici figli, nacque ad Alessandria il 29 marzo 1825. I genitori, entrambi nobili e benestanti, lo educarono cristianamente, come gli altri numerosi fratelli. Nel tranquillo castello di Bruno (AL) la famiglia trascorreva ogni anno lunghi periodi. Esemplare nella carità era la madre, attenta nel soccorrere i poveri del paese. Due fratelli si fecero religiosi (uno entrò nella congregazione fondata a Roma da S. Vincenzo Pallotti, a Londra diede vita ad un’opera per gli immigrati italiani e fu successore del santo alla guida della congregazione) e due sorelle entrarono in monastero. La madre purtroppo morì quando Francesco aveva solo nove anni. Dopo aver frequentato il collegio dei Padri Somaschi a Novi Ligure, avrebbe desiderato seguire l’esempio dei fratelli religiosi ma, consigliato da una zia, entrò a quindici anni nell’Accademia militare di Torino, emulando così il fratello Emilio (che morirà da eroe nel 1866 durante la battaglia di Lissa, meritando la Medaglia d’oro al valor militare). Nel 1846 Francesco fu nominato luogotenente. Era solo ventitreenne quando partecipò alla Prima Guerra d’Indipendenza, aiutante di campo del principe ereditario Vittorio Emanuele. Nella sanguinosa battaglia di Novara, vide morire in battaglia molti soldati. Quelle vite stroncate all’improvviso, il pensiero che la maggior parte di quei giovani non fosse preparata all’inaspettato incontro con Dio, furono un monito che tenne poi sempre fisso nella memoria. Durante gli scontri il suo cavallo fu colpito a morte e lui, che era molto alto, anche se ferito ad una gamba, restò in piedi e si mise in salvo. Nei mesi precedenti, sorpreso che non esistessero rilievi aggiornati della zona, aveva raccolto i dati necessari per disegnare la “Gran carta del Mincio”, il cui utilizzo sarà decisivo nel 1859 durante le battaglie di Solferino e San Martino. Il giovane ufficiale aveva già quel profondo senso del dovere e di pietà che lo contraddistinse e lo guidò, per tutto il resto della vita. Fu decorato e promosso capitano di Stato Maggiore ma, trovandolo eccessivo, scrisse al fratello Alessandro: “Non ho fatto niente di più straordinario del mio dovere”.
Nella Torino “dei santi”, i passi del giovane ufficiale incontrarono quelli di don Bosco. Molte volte, deposta la sciabola in sacrestia, servì Messa, in divisa, al “santo dei ragazzi”, prima di recarsi all’Accademia militare. Le doti e l’ottimo carattere convinsero Vittorio Emanuele II, salito al trono dopo l’abdicazione di Carlo Alberto, a nominarlo precettore dei figli. Per perfezionare gli studi si trasferì a Parigi e alla Sorbona conseguì la licenza in Scienze matematiche. Ritornato a Torino, nel 1851, trovò che l’incarico gli era stato revocato. Era un cattolico “fervente” ed impegnato e ciò infastidiva la corrente anticlericale cui il sovrano doveva sottostare per ragioni d’equilibrio politico. Addirittura per la sua preparazione fu sfidato a duello da un commilitone, ma Francesco per coscienza si sottrasse. Deluso per le opposizioni dei potenti, memore delle scene terribili vissute sui campi di battaglia, si dimise dall’esercito. Nel 1853 pubblicò il “Manuale del soldato cristiano” e, partendo nuovamente per Parigi, passò all’amico don Bosco la cura de “Il Galantuomo”, un calendario che pubblicava per i contadini con consigli e massime religiose. Aveva anche fatto stampare “La lira cattolica”, una raccolta di canti sacri da lui composti. Nella capitale francese frequentò la Sorbona, laureandosi in Scienze matematiche ed in Astronomia. Qui ebbe come docente e poi relatore di Tesi Agostino Cauchy, illustre esponente del mondo cattolico parigino. La formazione di quegli anni sarà fondamentale per il suo futuro impegno a servizio della Chiesa. Conobbe l’eccezionale realtà delle Conferenze di San Vincenzo ed il loro fondatore Federico Ozanam. Si aggregò alla sua conferenza (St. Germain des Prés) ed ebbe modo di conoscere numerose iniziative che i cattolici francesi conducevano in favore dei poveri. Tornato a Torino, nella sua parrocchia di s. Massimo, aprì una scuola di canto per le tante serve che la domenica vagavano per la città, abbandonate a loro stesse. Compose canti religiosi che egli stesso accompagnava poi all’organo e che faceva eseguire nelle varie parrocchie dove andava ad animare la Messa domenicale. Conobbe così i problemi di questa categoria del tutto ignorata.
Nel 1857 Francesco pubblicò la “formula di Bruno”, ancora oggi impiegata nei calcoli informatici, e iniziò a impartire lezioni universitarie, libere e non retribuite, di analisi e astronomia fisica. Nasceva intanto la prima conferenza vincenziana torinese dei Ss. Martiri. Vi presenziò, fu poi a capo di quella di s. Massimo e ne fondò una ad Alessandria, sua città natale, tra non poche difficoltà. Si candidò alle elezioni politiche per contrastare la corrente liberale imperante, ma non vinse, sembra per brogli elettorali. In quegli anni invitò le autorità cittadine ad istituire i fornelli economici, sul modello francese, per offrire un pasto caldo a chi non aveva molte disponibilità economiche. Chiese un sussidio, ma non ottenne risposta. Realizzò egli stesso il progetto in borgo San Donato, uno dei più malfamati della città, dove nel 1858 acquistò un terreno e una casa, dando vita a quello che sarà il suo capolavoro. Aprì ufficialmente il 2 febbraio 1859 la Pia Opera di s. Zita e la pose sotto la protezione della Santa lucchese. Raggiunse la somma necessaria, esauriti i mezzi propri, chiedendo aiuto alla famiglia e questuando fuori dalle chiese. Vi accoglieva gratuitamente le donne in cerca di servizio, curando la loro formazione, preoccupandosi di assicurarle in famiglie dai sani principi in cui dovevano essere “strumento di pace e di concordia”. Quelle invece intellettivamente non molto dotate, che in famiglia davano preoccupazioni, formeranno le “clarine” (sotto la protezione di s. Chiara). Accolte ed aiutate, erano in grado di compiere servizi altrettanto utili, ad esempio nella lavanderia, dove funzionavano macchine a vapore da lui stesso progettate. Lavando per l’Accademia militare, per le ferrovie, e per qualche privato, il Beato ebbe delle entrate per sostenere l’Opera. Nel 1861 venne nominato dottore aggregato alla Facoltà di Scienze fisiche e matematiche, tre anni dopo iniziò ad insegnare topografia, geodesia, trigonometria nella Scuola d’Applicazione dell’esercito. Il “complesso di s. Zita”, che in seguito mutò nome in Conservatorio del Suffragio, intanto si ingrandiva. Francesco vi aggiunse un pensionato per sacerdoti, un pensionato per donne di “civil condizione”, senza dimenticare quelle più povere, posti sotto la protezione di S. Giuseppe; pensò alla formazione delle giovani come insegnanti e aprì la classe delle Allieve maestre (protettrice S. Teresa d’Avila), la classe delle Educande per preparare le giovani a gestire una famiglia. Istituì pure un liceo, cui don Bosco mandò i primi ragazzi, raccomandandogli di “ritornarglieli promossi”, una biblioteca mutua circolante, una tipografia, anch’essa gestita da donne, cosa a quei tempi scandalosa, in cui il beato stampò alcune sue pubblicazioni scientifiche e musicali. Era ormai la ”cittadella della solidarietà femminile”. Il suo cuore batteva per i più deboli, per ogni vita in pericolo che poteva soccorrere e salvare nella sua dignità. Una realtà femminile del tutto dimenticata era quella delle ragazze madri, che la società considerava delle depravate, mentre il più delle volte erano vittime di padroni senza scrupoli. Faà di Bruno aprì per loro una “casa di preservazione” in Via della Consolata: la cosa era talmente straordinaria, che nel Conservatorio del Suffragio nemmeno si sapeva dell’esistenza di quest’opera.
Un laico aveva dato vita ad un complesso eccezionale di opere, dirette la maestre laiche che si riunivano a pregare nella cappella di S. Zita, ormai troppo piccola. La necessità di un luogo sacro più ampio convinse il Faà di Bruno, nel 1864, a dare mano alla costruzione di una chiesa dedicata a Nostra Signora del Suffragio. Com’ebbe a scrivere ai suoi commilitoni, lo volle come monumento ai Caduti di tutte le guerre, luogo di preghiera per le anime dei defunti. Fu costretto a sospendere i lavori per mancanza di fondi ma, pur di realizzarlo, andò questuando anche alle porte delle chiese cittadine. Allo scultore Antonio Tortone commissionò un monumentale gruppo marmoreo raffigurante la Vergine Santa aiuto delle anime del purgatorio. La Chiesa fu benedetta il 31 ottobre 1876 dall’Arcivescovo Gastaldi, che pure aveva ostacolato la sua ordinazione sacerdotale. Quando infatti Francesco decise, a cinquantuno anni, di consacrarsi prete, realizzando quella vocazione che per tanti anni aveva conservato in cuore e che certamente l’aveva mosso ad agire come fosse un sacerdote, dovette farlo a Roma. Don Bosco lo sostenne ed espose la situazione al Papa Pio IX che con dispensa speciale permise la sua ordinazione il 22 ottobre 1876. Dopo tre mesi di preparazione, con il calice che lo stesso pontefice gli aveva donato, celebrò la sua prima Messa. Nella sua Torino coronò solennemente il suo sogno il 1° novembre, all’inizio del mese dedicato ai defunti. La celebrazione del sacrificio eucaristico, il massimo mezzo di suffragio, ebbe per lui un significato straordinario. Lo fece sempre con grandissimo scrupolo, tornando spesso col pensiero a quei giovani che aveva visto morire sui campi di battaglia. Alla chiesa affiancò un campanile alto settantacinque metri, che progettò personalmente applicando le leggi di statica e fisica che ben conosceva. Vi collocò un orologio su ognuno dei quattro lati, che segnava ogni quarto d’ora e in un quartiere povero, come era s. Donato, ciò aveva una valenza sociale. Era una presenza religiosa tra le case che armonizzava scienza e fede. Nell’ardita costruzione, che ospita otto campane, una ottenuta dalla fusione di un cannone fattosi donare dal Re, inserì un osservatorio astronomico e meteorologico. Sulla sua sommità collocò la vigilante statua dell’arcangelo Michele. L’attività di Francesco non conosceva soste. Iniziò con don Bosco l’opera per la santificazione delle feste, contro lo sfruttamento domenicale dei lavoratori, e inviò al Comune uno studio per realizzare dei bagni pubblici e dei lavatoi per prevenire la diffusione delle malattie causate della poca igiene. Pensava alle donne che lavavano i panni sulle rive dei fossi e che d’inverno dovevano prima rompere il ghiaccio.
Francesco fu anche uno scienziato, inventò un barometro differenziale a mercurio, uno scrittoio per ciechi (stimolato dalla cecità della sorella), che fu premiato in alcune esposizioni universali, uno svegliarino elettrico e uno ellipsigrafo. Nel 1867 pubblicò un saggio scientifico sulla teoria delle forme binarie. Vedeva l’armonia delle leggi della fisica e della matematica come “un’ombra delle perfezioni di Dio”. Diceva che “il vero ricercatore, purché oggettivo, non può non riconoscere dietro i fenomeni fisici e le misteriose regolarità matematiche su cui si regge l’universo, una provvida e onnipotente sapienza”. Il suo nome cominciò a circolare in tutta Europa, ma l’Università torinese non lo nominò mai ordinario di una cattedra. Non ebbe che supplenze e incarichi temporanei. Visse non senza contraddizioni il periodo risorgimentale, considerandolo necessario, era però angustiato dagli attacchi alla Chiesa. Era un uomo di preghiera, “un asceta cittadino”, tra i primi ad introdurre le adorazioni notturne in città. Nel 1880 fondò l’Istituto di s. Giuseppe a Benevello d’Alba, per la formazione professionale delle giovani. L’anno dopo ottenne l’approvazione diocesana della congregazione religiosa che aveva avuto origine dal gruppo di giovani donne che dal 1868 portava avanti le sue opere. Oltre ai voti di povertà, castità e obbedienza, consacravano i propri beni spirituali per le anime del purgatorio e ciò avveniva per l’Atto eroico di carità: nasceva così la Congregazione alle Suore Minime di N. S. del Suffragio. Le chiamò Minime in omaggio del suo Patrono s. Francesco di Paola. Giovanna Gonella, prima segretaria dell’Opera e poi direttrice, divenne suora soltanto dopo la morte del fondatore e sarà poi la prima Superiora generale. Al Beato si devono anche due opere teologiche, una sull’Eucaristia (1872) e un Catechismo ragionato (1875), pur continuando gli studi scientifici. Suoi articoli erano pubblicati su autorevoli riviste internazionali, poiché conosceva l’inglese, il tedesco, il francese. Le sue “invenzioni” ottennero numerosi premi. Diceva: “l’istruirmi e l’essere utile agli altri, sono i cardini della porta della mia felicità”. Tradusse dall’inglese e dal tedesco alcune opere di devozione, organizzava “serate scientifiche” per finanziare la realizzazione degli affreschi della “sua” chiesa. Ricco e nobile, Francesco visse da povero, per aiutare i poveri. Promosse la figura femminile sotto ogni aspetto, dalle “serve” fino a fondare una congregazione di religiose mentre era ancora laico.
Il “Padre” chiuse gli occhi su questa terra, dopo appena cinque giorni di malattia, forse per un’infezione intestinale, il 27 marzo 1888, due mesi dopo l’amico don Bosco. Erano le nove del mattino del martedì della Settimana Santa, in quella stanza in cui aveva voluto una finestrella dalla quale adorare Gesù Eucaristia, presente nel tabernacolo della chiesa. Lo faceva spesso di notte, per recuperare il tempo della preghiera che per altri impegni forse aveva trascurato durante la giornata. Fu magnanimo anche da morto e a quell’università che non lo aveva mai pienamente accolto, donò “la preziosa collezione di libri e periodici scientifici nazionali ed esteri: una delle più ricche biblioteche private d’Italia, raccolta in trentotto anni di studio e di lavoro”. Francesco Faà di Bruno fu beatificato il 25 settembre 1988, nel centenario della morte, da Giovanni Paolo II che, durante una sua visita a Torino, gli dedicò la cappella della Scuola di Applicazione, indicando l’antico capitano come protettore dei militari. Le sue reliquie sono venerate nella Chiesa di N.S. del Suffragio annessa alla Casa Madre dell’Istituto. Un museo raccoglie i suoi ricordi, libri antichi, molti strumenti scientifici e alcune sue invenzioni. Le Suore Minime di Nostra Signora del Suffragio sono oggi missionarie in diverse paesi del mondo, nello spirito che il Fondatore ha racchiuso nel suo motto: PREGARE, AGIRE, SOFFRIRE.

PREGHIERA
O Padre, tu hai ispirato il beato Francesco Faà di Bruno
a porre la fede, la scienza e la carità
al servizio di Dio e dei fratelli vivi e defunti.
Fa’ che, sul suo esempio,
siamo docili alle ispirazioni dello Spirito Santo
e amiamo tutti con il cuore di Cristo.
Concedici, per sua intercessione,
la grazia che ti domandiamo.
Per Cristo nostro Signore. Amen.

Per informazioni:
Suore Minime di Nostra Signora del Suffragio
Via San Donato, 31
10144 Torino


Autore:
Daniele Bolognini

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Aggiunto/modificato il 2020-03-16

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