È una storia di puro eroismo e di ordinaria santità, quella di Felice Rossini, che inizia in Italia, precisamente nel milanese, e finisce in Brasile; in mezzo, 48 anni di vita naturale, 33 di vita religiosa, 26 come Missionario, 15 da lebbroso in mezzo agli altri lebbrosi. Per certi versi ricorda l’itinerario spirituale di un altro “lebbroso illustre”, Damiano di Molokai, ora annoverato tra i santi della Chiesa universale, se non fosse che nel nostro caso il martirio è più oscuro e la vicenda meno conosciuta.
Tutto inizia nel 1876 a Samarate, in Lombardia, dove Felice vede la luce il 15 giugno e da dove parte 14 anni dopo per il convento cappuccino di Sovere con in tasca una lettera del suo parroco che lo “raccomanda” ai frati, riassunta in una valutazione che oggi sa di profezia: «Farà col tempo una riuscita veramente felice, e darà motivo di consolazioni ai Superiori e all'Ordine intero».
Entrato Felice in convento, ne esce come fra Daniele da Samarate, con in mano, ancora semplice studente, il biglietto di sola andata per il Brasile che rischia seriamente di non utilizzare, perché tre mesi prima della partenza si trova puntati contro i fucili di una nostra vecchia conoscenza fossanese, il generale Bava Beccaris.
Durante i moti milanesi del 9 maggio 1898, Fra Daniele viene infatti scambiato per un rivoltoso insieme a 34 confratelli e ad alla folla dei miserabili che attende un piatto di minestra davanti al convento, vede in faccia la morte e pensa seriamente di dover rinunciare per sempre al suo sogno missionario.
Come Dio vuole nessun frate ci rimette la pelle e il 30 agosto sbarca in Brasile, raggiungendo poi il successivo 22 settembre la sua destinazione di Canindé, nello stato del Cearà. Dopo l’ordinazione viene destinato alla Colonia agricola del Prata, che sta attraversando un periodo di grosse difficoltà economiche.
Vi arriva giusto in tempo per assistere al massacro di Alto Alegre, in conseguenza del quale, sulle sue venticinquenni spalle ricade la responsabilità dell’intera Colonia, che non solo riesce a far uscire dai debiti, ma addirittura a far sopravvivere, barcamenandosi, come dice, «tra incudine e martello», tra l’obbedienza ai Superiori, che ne vogliono la chiusura, e gli ordini dell’Autorità locale, che gli intimano di farla regolarmente funzionare.
Nei 13 anni di permanenza riesce a far arrivare nuovi trattori dalla Germania, tracciare strade, introdurre il telefono, costruire case e due collegi, impiantare una ferrovia, edificare una chiesa, introdurre macchinari all’avanguardia per la lavorazione del cotone e dello zucchero, avviare un piccolo ospedale, riorganizzare la parrocchiale, predicare, dedicarsi ai poveri ed ai lebbrosi, visitare i cristiani dispersi nelle foreste.
In mezzo a tutto il fervore della sua spossante attività ecco però comparire i primi disturbi di salute, all’inizio fatti risalire ad un’origine artritica, che si teme evolva in sclerodermia, e nell’incertezza della diagnosi si dispone il suo rientro in Italia, alla ricerca di un clima e di cure più adeguate.
È un rientro che fa male al cuore, non solo del padre Daniele ma addirittura del Governo del Parà, disposto addirittura a sostenere le spese di qualsiasi cura, se necessarie anche in Germania, pur di riavere pienamente attivo quel missionario che si è reso così benemerito in terra brasiliana.
Il viaggio fa una provvidenziale deviazione a Lourdes, alla ricerca di un miracolo che il padre invoca, insieme ad altri ammalati, in modo speciale durante la processione eucaristica e che non arriva. In compenso, una voce interiore, a lui chiaramente comprensibile, gli sussurra: «riceverai altra grazia... la tua malattia sarà ad maiorem Dei gloriam, e per il maggior tuo bene spirituale».
E l’ “altra grazia” arriva subito, perché da quel preciso istante, scrisse, «mi sono trovato completamente trasformato: un senso di indicibile conformità, accompagnato da una infinita giocondità e allegria, invase la mia mente, il mio cuore, tutto il mio essere... e da quel momento non ho più perso un solo minuto di serenità, e d'allora in poi non ho più fatto una preghiera per la mia guarigione».
La diagnosi, spietata, arriva infatti alcuni giorni dopo, da uno dei più famosi dermatologi di Roma, con sentenza inappellabile: lebbra, di cui è stato contagiato, probabilmente per la puntura di un insetto, in una capanna spersa nella foresta, dove era entrato per portare gli ultimi sacramenti ad una lebbrosa.
Diagnosticato il male ed accertata l’inefficacia di ogni terapia, è anche inutile che il padre Daniele da Samarate prolunghi la sua permanenza in Italia e non solo perché «è meglio il caldo del Brasile, che la nebbiaccia malsana del Milanese»: ormai il suo cuore batte soltanto in quel luogo «desiderato giorno e notte» e là vuole tornare al più presto.
Rientra nella sua missione, ma vi resta per poco: i medici impongono un isolamento sempre più stretto, fino ad ordinarne, ad aprile 1914, il trasferimento nel lebbrosario di Tucunduba, il che equivale praticamente ad una morte civile, qui attesa da 300 lebbrosi, dimoranti in tre padiglioni ed in alcune casupole che si sono costruite da soli, disposte attorno ad un pantano centrale, la cui melma non è che una pallida immagine di quella morale, ben più consistente, in cui vivono malati praticamente abbandonati a se stessi.
L’accoglienza del nuovo arrivato, perché prete e per di più straniero, è tra le più ostili che si possa immaginare e tale resta per otto lunghi mesi, durante i quali gli è persino impossibile avvicinare i moribondi.
La prima breccia nei cuori di una parte di loro riesce ad aprirla durante la messa natalizia di mezzanotte, complice forse la nostalgia di una festa che riesce ad toccare anche i cuori più induriti. Ed è grazie a questa breccia che riesce ad entrare in molte case, ad avvicinare molti lebbrosi, ad istituire una scuola di catechismo per 60 bambini abbandonati dai genitori.
Praticamente, quasi senza volerlo, finisce per diventare il cappellano effettivo del lebbrosario, acquistando un ascendente sulla maggior parte di quei poveracci, anzi diventando l’ago della bilancia dell’intera struttura, capace di sedare tumulti, calmare gli animi, spegnere le liti che quasi ogni giorno scoppiano tra i ricoverati, traboccanti di rabbia mal repressa, dolore fisico, scarso nutrimento ed assenza di cure.
Per una minoranza di malati, purtroppo agguerrita, il padre Daniele continua tuttavia ad essere l’odiato prete, su cui riversare calunnie, infamie ed insulti e che «mi odiano unicamente perché sono sacerdote». Particolarmente deflagrante e dolorosa anche per lui, pur vaccinato agli insulti, è la lettera di un ricoverato alla direzione della struttura, con cui lo definisce «bandito, perfido, perverso, maledetto, vipera e altre amabilità».
Quale angelo consolatore in tutte queste amarezze, il Signore gli mette accanto Maria, una sua ex alunna della Colonia agricola del Prata: diventa la sua premurosa infermiera e lo assiste come una figlia, venerandolo come un santo, al punto da non avvertire neanche la puzza che durante le medicazioni emana dalla sua carne in putrefazione.
Questa santa donna, che arriva a sposare un giovane lebbroso per allontanare dal Padre ogni possibile sospetto e ogni ulteriore maldicenza, diventa preziosa anche per accompagnarlo nei gesti liturgici, guidando i suoi moncherini a stringere il calice o a spezzare l’ostia, quando la malattia avrà impietosamente demolito gran parte delle sue residue capacità fisiche.
Dopo sette anni, reso nuovamente vivibile il lebbrosario, non più soltanto luogo di disperazione e di abbrutimento, il padre Daniele deve arrendersi di fronte al male che avanza e rinunciare anche al servizio di cappellano.
Cieco, dolorante, incapace di qualsiasi movimento, ridotto ormai ad un «sacco di carne marcia» secondo l’impietoso giudizio di un confratello, assistito solo dai fedelissimi e abbandonato da chi proprio non resiste stargli accanto, spira il 19 maggio 1924.
Il processo per la beatificazione, dopo la fase diocesana conclusa nel 1997, sta proseguendo il suo iter a Roma. Papa Francesco lo ha dichiarato Venerabile il 23 marzo 2017.
Il “credo” che padre Daniele e i suoi lebbrosi recitavano a voce alta ogni mattina
Io sono figlio di Dio.
Dio abita in me.
Posso essere tutto quello che desidero
perché Dio è il mio aiuto.
Non mi stanco mai
perché Dio è la mia forza.
Non sono mai ammalato e rattristato
perché Dio è la mia salute.
Non mi manca niente
perché Dio è il mio fornitore.
Proprio perché sono figlio di Dio,
sono unito alla Divina Presenza di mio Padre.
Io sono felice in tutto quello che intraprendo
perché il mio sapere e le mie conoscenze
aumentano in me ogni giorno che passa.
Amen.
Autore: Gianpiero Pettiti
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