Una vita non lunga, 55 anni appena, esattamente spaccata in due dalla malattia, che la relega per 27 anni in un sanatorio. Una vita che, malgrado ciò, ha come segno distintivo il sorriso, stampato inalterabile sul viso ma faticosamente ricercato e conquistato come espressione di una pace interiore che, in quelle condizioni, non è per nulla scontata, neppure per una religiosa. Bruna Pellesi nasce il 10 novembre 1917 a Morano, frazione di Prignano sulla Secchia, nel modenese, ultima di nove figli e per questo coccolata e vezzeggiata da tutti. La vita le regala di tutto e di più: bellezza ed eleganza, buonumore e dolcezza, allegria e tanta pace. E anche l’amore, che sboccia sui 17 anni, ma che sembra non soddisfare appieno la sua ricerca di un più grande amore. Come neppure la realizza la maternità adottiva di ben sei figli di cui a 18 anni comincia a prendersi cura, in conseguenza della morte quasi contemporanea di due sue giovani cognate. In realtà, nel cuore di Bruna sta nascendo la vocazione religiosa, che la famiglia non contrasta in nome di quella fede solida in cui i figli sono stati educati e che lei riesce ad appagare a 22 anni, entrando tra le Suore Terziarie Francescane di sant’Onofrio a Rimini. Parte da casa in fretta, per non lasciarsi soffocare dalle lacrime, e questo dice quanto doloroso sia il distacco da un ambiente amato ed in cui è stata tanto amata. Dopo il noviziato e i primi voti, con il nuovo nome di Suor Maria Rosa si tuffa nella vita attiva della comunità di Sassuolo, proprio negli anni in cui infuria la guerra che semina distruzione e morte. “Vengo dalla campagna, sono abituata a lavorare”, risponde a chi le suggerisce di risparmiarsi un po’ nella sua frenetica attività di apostolato. La svolta della sua vita arriva nel 1945, non solo perché è trasferita a Ferrara, ma soprattutto perché in quell’anno si manifestano in lei i sintomi della tubercolosi, che a novembre le spalancano le porte del sanatorio. Ha 28 anni, solo cinque dei quali passati in convento; gliene restano altrettanti da vivere, ma tutti nella scomoda e dolorosa condizione di malata cronica, in una clausura non voluta, in un isolamento che tanto contrasta con il suo carattere, in una monotonia che rischia di incessantemente tingere di grigio i giorni, le settimane e gli anni. “Ho iniziato la mia vita sanatoriale piangendo, ma ho chiesto al buon Dio di terminarla cantando le sue misericordie”: in questa confidenza c’è tutto il travaglio interiore di una giovane vita che fatica ad adattarsi alla malattia ed all’inattività, ma c’è anche tutta la risoluzione di chi non si rassegna a “lasciarsi vivere”. Inizia così il percorso lungo di una fede che si deve irrobustire e di una speranza che non bisogna smarrire malgrado tutto. “Non avrei mai creduto che in sanatorio la virtù venisse messa così a dura prova, purtroppo c’è tanto male nonostante sorella morte continuamente ci sfiori”, scrive suor Maria Rosa, a testimoniare tutta la difficoltà che incontra a vivere in un ambiente in cui la promiscuità, la forzata inattività e, forse, anche l’ineluttabilità della morte fanno abbassare notevolmente il senso del pudore e la santità dei sentimenti. Davvero non c’è poesia o sentimentalismo in questa nuova condizione in cui si trova a vivere, ma soltanto il rischio di una prosaica e, per certi versi, squallida situazione in cui anche lei rischia di essere risucchiata. Di fronte alla quale lei reagisce nell’unico modo che le è possibile: innanzitutto conquistando una propria pace interiore e poi proiettandosi sugli altri. “Ho bisogno di calma, di forza, di spirito di adattamento; debbo adattarmi soprattutto a non poter far niente, ad avere bisogno di tutti”, scrive al direttore spirituale, mentre gli chiede di “tenerla sempre sull’altare” in uno spirito di continua offerta e di completa immolazione che, giorno dopo giorno, la porta a conquistare l’amore vero, quello che aveva sempre cercato e che le permette un giorno di poter dire al suo Gesù: “Voglio che la mia vita sia amore per te, con te e in te”. In mezzo, lo sforzo continuo di vincere la monotonia con la sofferenza, di rendere straordinario l’ordinario, di fare grandi anche le piccole cose curando quelle minime fino alle sfumature, di imparare a farsi samaritana verso gli altri malati, donando loro cuore e sorriso, cioè le uniche cose che la malattia non è riuscita a spegnere. Il paradosso evangelico in lei si compie nel raggiungimento di una felicità autentica e piena, anche quando arrivano ad estrarle cinque volte al giorno il liquido pleurico, è minacciata dalla cecità, si riduce ad essere 43 chili tutti di dolore e la morte si avvicina a grandi passi. “Lo dico in un momento in cui non posso tradire… quello che conta è amare il Signore. Sono felice perché muoio nell’amore, sono felice perché amo tutti”, esclama il 1° dicembre 1972, poco prima di chiudere gli occhi per sempre. E la Chiesa, riconoscendo che suor Maria Rosa davvero ha saputo trasformare il dolore in amore, l’ha beatificata il 29 aprile 2007.
Autore: Gianpiero Pettiti
Testimoniò la gioia di essere una sposa di Cristo, che l’aveva fatta partecipe delle sofferenze della Croce, con i suoi 27 anni di grave malattia, mai lamentandosi della sua condizione e lei stessa scrisse: “Sia benedetto il Signore che mi concede la grazia di un pochino della Sua Santa Croce e mi dà la grande grazia di portarla nella pace…come dono, non come peso”.
Scorrendo l’elenco lunghissimo della anime consacrate, negli Ordini e Congregazioni religiose oppure come Terziari e Terziarie, che offrirono la loro vita consumata dalle più svariate e debilitanti malattie, a volte senza più alzarsi dal loro letto fino alla morte; viene la certezza che il Signore predilige queste anime che sanno trasformare il loro dolore, da un moto spontaneo di disperazione e ribellione, specie se colpite in giovane età. in un’occasione di elevazione spirituale a volte mistica.
Esse seppero diffondere quest’esempio di rassegnazione alla volontà di Dio, a quanti le contattavano, e dando la pace dello spirito, a chi in salute stava certamente meglio di loro.
E anche la Chiesa lungo i secoli ha voluto indicare il loro esempio ai cristiani, esaltandone le virtù, esaminandone gli scritti, ascoltando testimonianze, accertando i miracoli e prodigi scaturiti per la potenza della loro intercessione e alla fine proclamando la loro santità, nello spirito della Chiesa.
Ed è il caso di Bruna Pellesi, questo il suo nome da laica, che nacque a Morano (Modena) ma in diocesi di Reggio Emilia, l’11 novembre 1917; figlia di agricoltori, a 23 anni lasciò il lavoro dei campi e dando seguito alla sua vocazione allo stato religioso, il 23 settembre 1941 a Rimini, vestì l’abito proprio delle ‘Suore Terziarie Francescane di S. Onofrio’, prendendo il nome di Maria Rosa di Gesù.
In seguito su sua proposta, le suore vennero denominate ‘Francescane Missionarie di Cristo’; si diplomò come maestra d’asilo a Bologna, l’11 luglio 1942 in piena Seconda Guerra Mondiale.
Dal 30 settembre 1942 fu al servizio dei bambini all’asilo S. Anna di Sassuolo e dal 19 maggio 1945 all’asilo di Ferrara. Ma il Signore la volle con sé quasi subito sulla Croce, infatti il 5 settembre 1945 fu ricoverata all’ospedale S. Anna di Ferrara e due mesi dopo, il 15 novembre, entrò nel sanatorio Pineta di Gavano (Modena) con la diagnosi di una grave forma di tubercolosi polmonare; malattia che soprattutto durante la guerra e il dopoguerra, mieté tante vittime specie tra i giovani.
Aveva 30 anni quando il 31 agosto 1947 emise i voti perpetui; poi venne ricoverata nell’Istituto sanatoriale “C.A. Pizzardi” di Bologna il 7 dicembre 1948. Trascorse tutti gli anni successivi quasi sempre nei sanatori di varie città, con rare uscite nella vita normale delle suore.
A Rimini il 4 ottobre 1967 celebrò il 25° di vita consacrata e il 1° settembre 1970 volle ricordare con gioia il 25° di malattia, scrivendo: “Grazie, Signore! Sono stati anni di tanta grazia…Aiutami a dimenticarmi, a donarmi a te e agli altri tutti nel mondo”.
Avendo accettato la volontà di Dio in tutto, ripeteva: “Mi son fatta suora per glorificare il Signore, ebbene lo glorificherò da ammalata”. Il suo pregare, lavorare, soffrire era per gli altri e diceva: “Voglio che tutti siano salvi, voglio portare tutti in Paradiso”.
Dai sanatori esercitò l’apostolato della scrittura, si pensi che i suoi scritti sono raccolti in 16 volumi di 2134 pagine. Scrisse quasi 2000 lettere a consorelle, sacerdoti, laici, ammalati, esortandoli ad essere coraggiosi testimoni cristiani.
Incitava tutti ad amare il Papa, la vera Chiesa, non ascoltando i nuovi profeti; dopo 27 anni di malattia, morì a Sassuolo il 1° dicembre 1972 a 55 anni. Il 1° febbraio 1977 si avviò la causa di beatificazione con il nulla osta per l’introduzione del 6 marzo 1981. La procedura, andata a buon fine, ha portato alla gloria degli altari Maria Rosa Pellesi il 29 aprile 2007.
I vescovi emiliani nella lettera postulatoria, scrissero fra l’altro: “il suo esempio è certamente di particolare aiuto ai sacerdoti, religiosi, fedeli, anziani, ammalati, nel riscoprire il valore della sofferenza offerta a Dio con amore”.
Autore: Antonio Borrelli
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