“Sono una giornalista. Nessuno spara al messaggero. Nessuno spara a un reporter”. Era il febbraio 1995 quando Veronica Guerin pronunciò queste parole. Solo qualche giorno prima, un sicario a volto coperto l’aveva gambizzata all’interno della sua abitazione, un cottage all’estrema periferia della Dublino nord. Lei, come tutta la nazione irlandese, ancora stentava a crederlo.
Veronica sapeva quanto fossero alti i rischi collegati alla sua professione. Sapeva bene come la sua vita fosse in pericolo. Ma aveva deciso di non fermarsi: intendeva proseguire le sue inchieste sul mondo del crimine. Con una determinazione, se possibile, ancora superiore. A soli 35 anni, Veronica era –senza più alcun dubbio- la più nota giornalista investigativa irlandese. I suoi articoli per il Sunday Independent, il maggiore domenicale dell’isola, da mesi portavano centinaia di migliaia di suoi lettori all’interno di “Gangland”, un oscuro agglomerato dove si concentravano i più temuti “baroni” del sottobosco criminale irlandese.
“Veronica non era, almeno ufficialmente, una giornalista di crimine”, afferma a distanza di anni il suo direttore, Willie Kealy. Il suo, in effetti, fu più un lento “scivolare” verso il crimine. Quando Veronica Guerin cominciò a focalizzarsi su questo settore, aveva già accumulato alle proprie spalle numerosi scoop che l’avevano portata, tra il 1990 e il 1994, all’attenzione dell’opinione pubblica: fra questi, molti ottimi reportages di carattere finanziario, una storia esclusiva su un’intercettazione telefonica tra un prominente uomo politico (John Bruton) e alcuni suoi colleghi di partito, e l’intervista-scoop al fuggitivo vescovo di Galway, Eamonn Casey.
Il suo arrivo al Sunday Independent, nel 1994, segnò la sua consacrazione ufficiale come reporter investigativa. Una carriera interamente contraddistinta da un’unica, grande passione: la ricerca della Verità. “Di lei mi impressionavano tre cose: il lavoro, la dedizione e l’abilità”, afferma ancora Kealy. Giornalisticamente parlando, Veronica aveva stoffa da vendere: il suo grande fiuto per le buone storie, unito a un’instancabile capacità di doorstepping (termine difficilmente traducibile, ma che sostanzialmente equivale al nostro “fare la posta” a qualcuno, attendendolo o inseguendolo per ore), il tutto condito da una grande attenzione al dettaglio, la rendevano una delle migliori giornaliste d’Irlanda. Se non, come ebbe occasione di scrivere il suo ex-editore Damien Kiberd, “semplicemente la migliore e la più coraggiosa”.
Fu proprio al Sunday Independent che Veronica cominciò a occuparsi di crimine. Il fenomeno malavitoso aveva assunto, alla metà degli anni ’90, dimensioni veramente preoccupanti sull’isola, in particolare nella capitale Dublino e nelle città industriali di Cork e Limerick. Il criminale vecchio stampo, dedito ai sequestri e alle rapine a mano armata, aveva gradualmente lasciato spazio al narcotrafficante. In Irlanda poche gang controllavano capitali multimilionari, grazie al traffico di eroina, cocaina, cannabis ed ecstasy. La sola Dublino contava 15mila giovani tossicodipendenti (su una popolazione che non arrivava al milione). Il fallimento dello Stato, impegnato per decenni a combattere l’Ira, e da sempre focalizzato sulla secolare questione nordirlandese, emergeva in tutta la sua evidenza.
Veronica capì tutto questo. Capì che avrebbe dovuto penetrare quel mondo, per raccontarlo e denunciarlo ai suoi lettori: “La situazione è molto seria. L’aspetto più grave è che in Irlanda non esiste una sola parrocchia che non conosca il problema della droga. Per questo quello delle droghe è diventato il problema principale, nel nostro Paese. Circola così tanto denaro nell’industria del narcotraffico… è davvero un’industria multimilionaria. La polizia e gli ispettori del fisco possono fare ben poco per affrontare questo problema, e per smantellare gli imperi che generano i profitti di cui godono questi “baroni” della droga”. Era il dicembre 1995. Veronica aveva appena ritirato il prestigioso “International Press Freedom Award” a New York. Era stata la prima giornalista europea a riceverlo.
Per condurre le sue inchieste, Veronica instaurò presto una fitta rete di contatti all’interno del corpo della polizia e nel sottobosco criminale. “Almeno sei poliziotti”, per ammissione dello stesso Assistant Commissioner Tony Hickey, potevano essere annoverati fra i principali contatti di Veronica all’interno dei Garda Siochana (la polizia irlandese). Impossibile determinare quante fossero invece le “gole profonde” di Veronica nell’ambito criminale: è comunque fuori di dubbio che il suo principale informatore fosse John Traynor, detto il Coach (l’Allenatore), un passato da ladro e truffatore… un presente da narcotrafficante, al fianco del boss John Gilligan. Nel corso degli anni Traynor fornì a Veronica buone storie su numerosi criminali: in altri casi scelse invece di trarla in inganno, ma la reporter imparò presto la lezione. Al punto che, poche settimane prima di morire, decise di fare pubblicamente il nome di Traynor come narcotrafficante. Resta comunque un detto, ampiamente diffuso negli ambienti di polizia, che certifica il valore di Veronica come reporter investigativa: “se vuoi il quadro completo della situazione criminale, noi possediamo una parte, i criminali hanno l’altra, e Veronica –forse- le possiede entrambe”.
Nel portare alla luce l’immensità del sottobosco criminale irlandese, Veronica Guerin mise nero su bianco gli identikit dei principali narcotrafficanti (pur non potendo nominarli, a causa delle leggi sulla diffamazione, tuttora in vigore), denunciò le rotte attraverso cui gli stupefacenti raggiungevano l’Irlanda, e rese noti gli immensi profitti di questi boss, illustrando nel dettaglio come il valore della “merce” arrivasse anche a decuplicarsi nel corso delle numerose transazioni. Non solo: Veronica espose pubblicamente lo stato fatiscente delle prigioni irlandesi, da cui letteralmente “evadevano” centinaia di pericolosi criminali, e rivelò come numerosi funzionari del fisco e degli affari sociali vivessero in un clima di terrore. Se avessero anche solo osato porre domande scomode a qualche boss, chiedendogli il perché di tanta ricchezza a fronte di profitti dichiarati pari a zero, rischiavano grosso. Infine, Veronica si fece sostenitrice di una proposta legislativa che trovò realizzazione solo dopo la sua morte: la creazione di un corpo interdisciplinare, che comprendesse agenti di polizia, del fisco, della dogana e degli affari sociali, in grado di confiscare qualsiasi proprietà ritenuta sospetta. In codice: CAB (Criminal Assets Bureau), un’agenzia statale che tra il 1996 e i primi anni 2000 arrivò a sequestrare proprietà illecite per decine e decine di milioni di sterline.
Accanto alla Veronica “reporter investigativa” esisteva però anche una Veronica “privata”: “una donna per nulla sofisticata”, come la ricorda il suo amico di lunga data Paddy Prendiville, anche lui giornalista. Veronica era una persona molto semplice, con tre sole grandi passioni al di fuori del lavoro: la sua famiglia, in particolare l’adorato figlio Cathal, la simpatia politica per il partito nazionalista Fianna Fail e quella sportiva per il Manchester United. Anche la fede religiosa giocava un ruolo importante nella sua vita: ogni domenica mattina si recava a messa presso la chiesa dell’aeroporto di Dublino. “Qui le piaceva adorare Dio, qui veniva a pregare, qui portava le sue domande. […] Venire a messa la domenica era un altro tassello nella sua ricerca della Verità: lei era fedele, appassionata da “questa” Verità, quanto lo era nei confronti del giornalismo”, avrà occasione di affermare il suo parroco, padre Declan Doyle.
Veronica Guerin, una giornalista che aveva fatto della “ricerca della Verità” la propria ragione di vita, fu uccisa il 26 giugno 1996. Due sicari la assassinarono lungo la Naas Road, una delle principali arterie stradali che dalla contea di Kildare conducono alla capitale Dublino. Sei colpi di pistola furono sparati da un killer attraverso il finestrino dell’auto, mentre Veronica attendeva il verde a un semaforo. La morte della reporter fu istantanea. Il patologo, professor John Harbinson, affermò qualche mese dopo, in tribunale: “la morte di Veronica Guerin è stata causata da uno shock e da una emorragia, sopraggiunti come risultato delle lacerazioni ai polmoni e alle arterie”. Il freddo e burocratico linguaggio medico poco può fare per celare il grado di efferatezza del delitto.
Successive indagini accerteranno come a ordinare l’omicidio di Veronica Guerin sia stato John Gilligan, potente boss criminale della Dublino sud, che in soli due anni aveva messo in piedi un gigantesco impero di importazione e smercio di stupefacenti. Veronica stava indagando su di lui da diversi mesi: lei, come pochi altri, aveva intuito il reale calibro e la reale statura criminale di colui che tutti chiamavano “Factory John”. Una mattina del settembre del 1995 si era addirittura presentata a casa sua, decisa a porgli domande imbarazzanti in merito alle sue proprietà. In quell’occasione, la natura psicopatica di Gilligan si manifestò in tutta la sua violenza: il boss picchiò Veronica, procurandole ferite su tutto il tronco e al viso. La reporter, choccata, decise di denunciarlo. Il processo si concluse nel luglio dell’anno successivo con l’assoluzione del boss, a causa della morte dell’unica testimone: Veronica, che proprio Gilligan aveva fatto uccidere.
John Gilligan, arrestato a Londra nell’ottobre del 1996 ed estradato in Irlanda quattro anni dopo, sarà prosciolto in merito all’omicidio Guerin per insufficienza di prove (marzo 2001). Tuttavia, la stessa giuria lo condannerà a 28 anni di carcere per importazione di stupefacenti: la pena più alta mai comminata per questo reato nella storia d’Irlanda; pena confermata in appello nell’agosto del 2003. Al momento, John Gilligan sta nuovamente ricorrendo in appello per ottenere una riduzione del periodo di detenzione, nel frattempo salito a 33 anni a causa di un altro reato commesso in carcere. Le indagini della polizia identificheranno in Patrick Holland l’esecutore materiale del delitto, ma l’assenza di prove sostanziali renderà Holland immune dalla formalizzazione di un’accusa vera e propria. Condannato a 20 anni per spaccio di droga, “Dutchie” Holland si è visto ridurre la pena a 12. Brian Meehan, l’uomo che la mattina del 26 giugno 1996 guidava la moto che trasportava il killer, sta invece attualmente scontando una condanna all’ergastolo proprio per l’omicidio Guerin. John Traynor, socio di Gilligan e informatore di Veronica, è invece latitante, con ogni probabilità nel sud della Spagna. Si dice che proprio dalla penisola iberica continui a dirigere il traffico di stupefacenti verso l’Irlanda.
L’omicidio di Veronica Guerin scatenò un’ondata di emozione popolare senza precedenti nella giovane Repubblica irlandese. L’intera nazione osservò un minuto di silenzio, il primo luglio 1996, per ricordare la reporter. Negozi, uffici, banche, tribunali, ospedali, giornali… tutto si fermò. Decine di mazzi di fiori furono deposti all’incrocio teatro dell’omicidio, altre migliaia inondarono i cancelli del Parlamento. Migliaia e migliaia di comuni cittadini firmarono il “Book of Condolences”, il libro delle condoglianze, nella sede della Independent Newspapers, il gruppo cui faceva capo il domenicale di Veronica. Lo choc per la sua morte fu enorme. Nessuno poteva credere a ciò che era successo: nessuno, in Irlanda, poteva accettare la realtà. E cioè che il crimine potesse spingersi a tanto. Misure legislative d’emergenza, su tutte la creazione del Criminal Assets Bureau, furono varate nel giro di pochi mesi, mentre la polizia avviava l’indagine criminale più imponente nella storia nazionale. I dati parlano da soli: 1400 interrogatori, 3500 deposizioni, 425 perquisizioni, 214 arresti, 105 armi confiscate. Per la prima volta in Irlanda fu introdotto un programma di protezione dei testimoni, che fu applicato ai tre membri della gang di Gilligan che decisero di deporre contro il boss. Il fenomeno criminale subì un significativo contraccolpo: molti dei principali “baroni della droga” scelsero la fuga all’estero.
Cinque anni dopo, il 22 giugno 2001, il premier irlandese Bertie Ahern, insieme a Graham e Cathal Turley, marito e figlio di Veronica, partecipò alla cerimonia d’inaugurazione di un busto della reporter all’interno del Castello di Dublino. I visitatori che si recano al Coachhouse Garden, una piccola oasi verde situata proprio all’interno del Castello, lo troveranno un po’ defilato, lontano qualche decina di metri dai gruppi di turisti che –soprattutto d’estate- scelgono il piccolo parco per rilassarsi sotto i raggi del pallido sole irlandese. Un’iscrizione, incisa sotto il busto della reporter, recita:
Non avere paura (Be not Afraid). Il suo ideale era quello di una giustizia più grande. Alla fine la conseguì. Il suo coraggio e il suo sacrificio salvarono molte vite dal flagello delle droghe e da quello criminale. La sua morte non è avvenuta invano.
Autore: Sergio Nava
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