E' uno dei tre ragazzi dei quali don Bosco scrisse la vita, s. Domenico Savio (1842-1857), Michele Magone (1845-1859), Francesco Besucco (1850-1864); ed è conosciuto per la sua incredibile vivacità. Tutti e tre morti prematuramente in età adolescenziale; non deve meravigliare se nell’approfondire la conoscenza di tante belle figure di ragazzi e adolescenti, che hanno vivacizzato sin dai primi tempi gli Oratori Salesiani, si apprende che un certo numero siano morti in giovane età e per malattie allora inguaribili. Nell’Ottocento la medicina non era ancora giunta alla conoscenza della patologia di tante malattie allora dilaganti, come la leucemia, setticemia, tubercolosi, malaria, ecc. né tantomeno alle cure appropriate con medicinali ancora da scoprire. La mortalità infantile e in giovane età, era molto elevata e l’aspettativa di vita era sui 50 anni se non di meno; l’assistenza al parto, la vaccinazione generalizzata, la penicillina, l’alimentazione costante, ecc. porteranno decenni dopo in Italia, soprattutto nel Novecento, ad un innalzamento dell’aspettativa di vita, fino ai livelli di oggi oltre i 70 anni. Michele Magone, ragazzo nato a Carmagnola (Torino) il 19 settembre 1845, viveva come un ‘birbante’ come si definiva lui stesso, sempre in mezzo alla strada, orfano di padre, cacciato dalla scuola, difficile a domarsi, povero e abbandonato a sé stesso; a Napoli l’avrebbero definito “uno scugnizzo”. Incontrò s. Giovanni Bosco (1815-1888) mentre il sacerdote ‘pescatore di giovani’, attendeva il treno nella stazione di Carmagnola in una fredda sera di autunno. Era il capobanda di un gruppo di monelli che passavano, intenti ad organizzare qualche brutta mascalzonata, alla vista del sacerdote tutti scapparono, ma lui no e come un generale in erba affrontò l’inaspettato personaggio. Poche frasi scambiate con quel tredicenne scapigliato, bastarono a don Bosco per vedere in lui un’anima preziosa che andava alla deriva. Dovendo prendere il treno in arrivo, gli diede una medaglia e gli disse di rivolgersi al viceparroco per spedirgli sue notizie; incuriosito Michele Magone si recò da don Ariccio a raccontargli l’incontro, il viceparroco visto la medaglia, capì e gli parlò di quel prete che a Torino aveva una grande casa a Valdocco, con centinaia di ragazzi che correvano, si divertivano e imparavano tante cose e se a lui sarebbe piaciuto andarci. Al suo sì don Ariccio con il permesso della madre di Michele, la quale lavorava tutto il giorno per mandare avanti la famiglia, scrisse a don Bosco descrivendo il ragazzo superattivo ma ‘buono di cuore’, e tanto bisognoso di una guida e don Bosco rispose affermativamente di mandarlo a Torino. Così salutata la commossa madre e i compagni di gioco, una mattina salì per la prima volta sul treno per Torino la capitale; l’impatto con l’opera di don Bosco fu positivo, il grande cortile l’attrasse subito e il suo incontenibile entusiasmo per il gioco, specie della “barrarotta” poté avere sfogo. Gli fu dato come di regola, un “angelo custode”, cioè un altro ragazzo più grande già dell’Oratorio, che gli avrebbe dato suggerimenti e l’avrebbe corretto con bontà dei suoi difetti, intemperanze, discorsi volgari, parolacce; Michele l’accettò di buon grado e lo ringraziava ogni volta che era ripreso. A scuola ci andava, certo non di corsa perché bisognava lasciare il gioco; in breve divenne il capitano della sua squadra di ‘barrarotta’ che dalla sua venuta diventò invincibile. Il vivere nell’Oratorio Salesiano era entusiasmante per l’ex monello; ma anche lui come capitò ad altri, un giorno cominciò ad intristire e perdere la vivacità consueta, il suo ‘angelo custode’ se ne accorse e chiese spiegazioni. Non si trattava della crisi nostalgica che dopo un certo tempo assale chi cambia ambiente, vita e compagni; ma di qualcosa di più interiore, la consapevolezza di averne fatte di tutti i colori in quel periodo della prima giovinezza, per cui Michele non si sentiva degno degli altri compagni dell’Oratorio, i quali pregavano la Madonna e si accostavano all’altare per ricevere la Santa Comunione, mentre lui si sentiva sopraffatto dai rimorsi e dal dolore di non essere come loro. Don Bosco intervenne con il suo fare paterno e materno e riuscì con parole appropriate a condurlo ad una confessione generale, che donò a Michele Magone tanta gioia e serenità. Da quel giorno Gesù divenne il suo amico più importante, il suo carattere diventò più docile, ritornò ad essere “il generale di Carmagnola” nel guidare la sua squadra nel gioco e ad intervenire nelle situazioni scabrose che qualche compagno provocava; se riteneva necessario interveniva anche con i pugni, come quella volta che trovandosi con don Bosco a Piazza Castello di Torino, si azzuffò con violenza con un giovinastro che bestemmiava a più non posso, solo l’intervento del sacerdote riuscì a separarli. Fu tra i premiati, che don Bosco nell’agosto 1858, portò a trascorrere alcuni giorni di vacanza a Morialdo nel Monferrato. Il 18 gennaio 1859 improvvisamente Michele accusò dei dolori allo stomaco, che già in precedenza si erano fatti sentire, ma la cosa non sembrò preoccupante all’infermeria dell’Oratorio. Ma già a sera del 19 gennaio il male si aggravò pesantemente, fu chiamata la mamma e il medico d’urgenza, il quale visto le condizioni di respiro faticoso e pesante, tenendo presente l’impotenza della medicina di allora, sconsolato allargò le braccia. Il 21 Michele era in fin di vita, forse per un’ulcera perforata o una peritonite non si sa, gli fu portato il Viatico e amministrata l’Estrema Unzione e poco prima della mezzanotte, con a fianco don Bosco, con cui scambiò edificanti pensieri superiori ad un ragazzo tredicenne, donò a Dio la sua giovane anima, mentre i compagni pregavano per lui nella Cappella dell’Oratorio.
Autore: Antonio Borrelli
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