È denominata in parecchie cronache benedettine, come “Beata Adelaide”, ma il suo culto non è stato mai riconosciuto. Nel grande intrecciarsi delle vicende della Storia, che coinvolge i popoli e i singoli governanti, spesso l’aspetto politico, dinastico, bellico, prende il sopravvento nel ricordo storico, lasciando nell’ombra l’aspetto umano, religioso, morale, caritatevole, del signore dell’epoca. È il caso soprattutto di tante sante figure di nobili castellane del Medioevo, che operarono più o meno apertamente, nell’aiutare i bisognosi del luogo, nel fondare monasteri e chiese, nell’addolcire l’attività di governo dei consorti, quasi sempre in guerra in quell’epoca difficile e oscura. Molte di queste castellane, diventate vedove, si dedicavano a vita ritirata presso qualche monastero, da loro fondato in precedenza; diventando spesso badesse di una comunità religiosa, che comprendeva a volte anche qualche loro figlia. Detto questo, si può comprendere come la figura storica della marchesa di Susa, Adelaide, abbia in parte oscurato i meriti indiscussi della donna, sposa, vedova, madre, che visse ed operò alla luce delle virtù cristiane; tale da essere denominata “Beata Adelaide” e per l’appoggio dato alla Chiesa: “figlia di S. Pietro”. Figlia primogenita ed erede del conte Olderico Manfredi II, Marchese di Susa e Conte di Torino e di Berta Obertagna dei Marchesi d’Este, Adelaide nacque nel castello di Susa tra il 1010 e il 1016. La madre morì in giovane età, dopo aver dato alla luce quattro figli, Adelaide, Immilla, Berta ed un figlio morto giovanissimo nel 1034 Il marchese suo padre, rimasto vedovo, divise fra le tre figlie rimaste i suoi possedimenti, dei quali la maggior parte (tutte le terre tra Ivrea e Ventimiglia), andò alla figlia primogenita Adelaide; ma la potenza del marchese di Susa e conte di Torino, era prevalentemente di tipo militare, non trasmettibile ad una donna sola, per cui alla morte del padre, la giovane marchesa, qualificata in molti testi anche come principessa, a soli sedici anni nel 1035, andò in sposa ad Ermanno III duca di Svevia. Ma fu un matrimonio di breve durata, perché il duca Ermanno nel luglio 1038 morì di peste, senza aver avuto un figlio; Adelaide che aveva 22 anni, allora si risposò con Arrigo I (Enrico I) marchese del Monferrato, ma nel 1044 rimase di nuovo vedova. Per evidenti ragioni di Stato fu necessario ricorrere ad un terzo matrimonio e la giovane vedova sposò nel 1045 Oddone I (1020 ca. - 19/2/1059), conte di Savoia, Aosta, Moriana, secondogenito del capostipite sabaudo Umberto I Biancamano. Nei 14 anni di matrimonio, nacquero cinque figli; Pietro I († 1078), Amedeo II († 1080), Berta († 1087), Adelaide († 1079), Oddone († 1102) futuro vescovo di Asti; in effetti ben quattro di essi premorirono alla madre, rimasta di nuovo vedova nel 1059. Degna nipote di Arduino d’Ivrea, suo bisnonno, che nel 976 cacciò i saraceni dalla Valle di Susa, aveva trascorso gran parte dell’adolescenza fra le armi, vedendo da vicino guerre e stragi, indossando lei pure armi e corazza. Pur essendo una bella persona anche nel volto, considerava la bellezza e la ricchezza come cose passeggere, valutando invece le virtù come gloria duratura. Dotata di forte temperamento, non indugiava se necessario, a castigare la corruzione in grossi personaggi della regione, compreso anche dei vescovi, nel contempo premiava magnanimamente le nobili imprese e le attività caritatevoli. Accoglieva alla sua corte trovatori e menestrelli, ma voleva che i loro canti fossero improntati ad incitare sempre alle virtù, alla religione, alla pietà. Fondò nei suoi possedimenti molte chiese e monasteri, diventati poi centri di divulgazione del patrimonio di studi e di storia; fece restaurare la chiesa di S. Lorenzo ad Oulx (Torino), che come molte altre era stata distrutta dai saraceni. La sua protezione ai tanti monasteri fondati in Piemonte, Valle d’Aosta e Savoia, fu tale che s. Pier Damiani († 1072), vescovo e Dottore della Chiesa, suo contemporaneo, poté dire: “Sotto la protezione di Adelaide, vivono i monaci come pulcini sotto le ali della chioccia”. Fu amata dagli italiani del tempo, che generalmente la chiamavano “la marchesa delle Alpi Cozie”; fu stimata dai suoi sudditi e temuta dai suoi avversari; nei lunghi anni di vedovanza, seppe tenere il potere con notevole abilità e saggezza, tanto che il già citato s. Pier Damiani le scrisse: “Tu, senza l’aiuto di un re, sostieni il peso del regno, e a te ricorrono quelli che alle loro decisioni desiderano aggiungere il peso di una sentenza legale. Dio onnipotente benedica te ed i tuoi figlioli d’indole regia”. Purtroppo dai suoi figli che amava tanto, giunsero per lei i dolori più forti, perché li vide morire ancora giovani, tranne l’ultimo, il vescovo Oddone. Inoltre la figlia Berta (1051-1087) fu protagonista suo malgrado, di uno sconvolgimento politico che investì l’impero di Germania e il Papato. Il marito Enrico IV (1050-1106), imperatore del S.R.I., re di Germania, re d’Italia e duca di Franconia, che lei aveva sposato quindicenne il 13 luglio 1066; ben presto per il suo carattere vizioso e tiranno, prese ad osteggiare la casta giovinetta, mettendo in atto, scontrosità, raggiri e agguati per screditarla e così potersene liberare. Si scatenò un’ostilità che portò la povera Berta a rinchiudersi nell’abbazia di Lorscheim, in attesa degli eventi; Enrico IV convocò un Concilio a Magonza per discutere la sua richiesta di divorzio, nonostante il parere contrario della madre, l’imperatrice Agnese, anch’essa ritirata in un convento. Il papa inviò come suo delegato il cardinale vescovo di Ostia s. Pier Damiani, il quale nella discussione che ne seguì, argomentò brillantemente a favore della giovane Berta, convincendo tutti i convenuti. La reazione di Enrico IV fu grande, e non temendo l’avversione dei sudditi continuò nei suoi propositi e alla fine incappò anche nella scomunica di papa s. Gregorio VII (Ildebrando di Soana, † 1085). Berta pur avendo tanto subito dallo scellerato sposo, si dimostrò di grande animo, spronandolo con l’aiuto della sua famiglia in Piemonte, a chiedere il perdono del papa. Adelaide, per intercessione della figlia, acconsentì ad accompagnare l’ingrato genero dal papa, che era ospite della contessa Matilde nel suo castello di Canossa (Reggio Emilia) accompagnati anche dal figlio Amedeo II. L’umiliato imperatore, dovette a quest’energica donna, molto più che alla stessa contessa Matilde, se il papa Gregorio VII, concesse patti e condizioni dure ma fattibili, togliendogli la scomunica, che aveva comportato la disubbidienza dei sudditi; comunque l’umiliazione fu grande, tanto da passare alla storia, perché Enrico IV fu lasciato per tre giorni fuori dal castello di Canossa, nel pieno inverno del 1077 prima di essere ricevuto dal papa. Tralasciamo qui il prosieguo delle vicende di Berta ed Enrico che tornarono in Germania e ritorniamo ad Adelaide, che in questa vicenda dolorosa della diletta figlia, seppe obbedire ed onorare il Pontefice e non s’inimicò l’imperatore, districandosi tra le due distinte autorità, l’una spirituale e l’altra temporale, allora in lotta aperta per le investiture ecclesiastiche. In seguito Adelaide si trovò a fare da mediatrice pure in una contesa fra i suoi due generi, lo stesso Enrico IV e Rodolfo duca di Svevia, marito dell'altra figlia Adelaide. Negli ultimi anni della sua vita, quantunque assai vecchia, conservò sempre lucida la mente; lasciata ogni cura di governo al nipote Umberto II, si ritirò forse prima a Valperga da dove qualche volta si portava a piedi scalzi al piccolo monastero di Colberg, distante due miglia, per onorarvi la Madre di Dio, là venerata; il suddetto monastero prese poi il nome di Belmonte. Sulla fine della marchesa Adelaide di Susa, vi sono contrastanti ipotesi di vari studiosi; quella più attendibile è che dopo Valperga, ella si spostò in un piccolo villaggio, Canischio (TO), forse per sfuggire alla peste e qui morì e fu sepolta nella chiesa di S. Pietro il 19 dicembre 1091, aveva 76 anni circa, una bella età per quell’epoca. La testimonianza di uno studioso, dice che nel 1775, gli fu mostrato nella chiesa parrocchiale di Canischio, il suo “meschinissimo sepolcro” in uno stato d’abbandono, che rifletteva lo stato di vita modesta dei suoi ultimi anni. La suddetta chiesa è stata nel tempo distrutta e del suo sepolcro non esiste più traccia. Un’altra ipotesi degli storici è che i suoi resti mortali, furono trasportati da Canischio nella cattedrale di S. Giovanni Battista di Torino, ma anche qui non esistono tracce.
Autore: Antonio Borrelli
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