Premolo, Bergamo, 26 agosto 1906 – Dachau, Germania, 21 maggio 1945
Antonio Seghezzi nasce a Premolo, in provincia e diocesi di Bergamo, il 26 agosto 1906. Entra nel Seminario diocesano a undici anni e viene ordinato sacerdote il 23 febbraio 1929. Per tre anni è viceparroco ad Almenno San Bartolomeo, poi docente di Lettere in Seminario, precisamente al ginnasio. Nel 1935 parte come cappellano militare in Eritrea. Al suo rientro, è nominato da monsignor Adriano Bernareggi, vescovo di Bergamo, segretario della Giunta Diocesana per l’Azione Cattolica e Assistente Diocesano della Federazione Giovanile di Azione Cattolica. Il suo ministero a favore dei giovani è visto con sospetto dai nazifascisti, che minacciano di rappresaglia il clero e l’Azione Cattolica bergamasca. Don Antonio, anche su consiglio del suo vescovo, si lascia arrestare il 4 novembre 1943. Viene condannato a cinque anni di lavoro coatto in Germania, poi ridotti a tre. A metà giugno ha la prima emottisi: dal carcere-fabbrica di Löpsingen, dove si trova, viene riportato nel campo di Kaisheim, quindi in quello di Dachau: lì muore il 21 maggio 1945. Il 21 novembre 2020 papa Francesco ha autorizzato la promulgazione del decreto sulle virtù eroiche di don Antonio, i cui resti mortali riposano dal 2006 nella cripta della chiesa di Sant’Andrea Apostolo e Martire a Premolo.
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«La più bella azione cattolica che io farò… sarà donarmi tutto»: dice così, manco a farlo apposta, don Antonio Seghezzi, assistente diocesano di Azione Cattolica, che in questa crede, al punto da giocarsi gli anni migliori per formare giovani che siano capaci di partecipare con responsabilità ed intelligenza alla costruzione della civiltà cristiana.
È bergamasco, per l’esattezza di Premolo, dove nasce il 26 agosto 1906, secondo dei dieci figli di una famiglia umile e laboriosa, che non ostacola il suo desiderio di entrare in seminario a undici anni, alla ricerca di una vocazione che, forse, è più chiara nella testa del parroco che non nella sua.
Ne esce sacerdote, ordinato il 23 febbraio 1929. Per tre anni fa pratica come curato (ossia viceparroco) ad Almenno San Bartolomeo, prima di essere destinato a insegnare Lettere in Seminario.
Resta comunque in cattedra tre anni appena, perché nel 1935 va a fare il cappellano militare in Eritrea, trovando al suo rientro, due anni dopo, la nomina ad assistente diocesano dei giovani di Azione Cattolica. Forse perché al vescovo non è sfuggito il particolare ascendente che ha sui giovani. O, più probabilmente, perché ci si è accorti quale spessore abbiano la sua spiritualità e la sua generosità sacerdotale.
Non le smentisce per niente nel nuovo incarico, che svolge con la consueta passione e con l’identico slancio missionario, girando la diocesi per contattare le varie sezioni e dimostrando come gli stiano a cuore i contatti personali e le relazioni umane e spirituali.
Passa di parrocchia in parrocchia, cercando ospitalità notturna nelle varie canoniche, per essere presente ad ogni adunanza e ad ogni riunione di sezione, raggiungendo solo all’alba del mattino dopo il suo ufficio in curia, con la gioia di aver stabilito qualche contatto in più e di aver suscitato qua e là nuovo entusiasmo, attingendo alla sua inesauribile passione per Cristo e per le anime.
Il suo stile pastorale privilegia «la promozione delle idee ai programmi d’azione, la direzione spirituale all’organizzazione, la cura del singolo giovane all’intervento sulla massa». A tutti propone una radicalità evangelica che lui stesso ha sperimentato e si sforza di vivere in prima persona, una misura alta di vita cristiana basata su grandi ideali e contraddistinta da uno stile di vita povero ed austero. I giovani apprezzano la sua direzione spirituale, illuminata e forte, che prosegue anche per via epistolare, arrivando al punto di scrivere cento lettere al giorno per seguire anche da lontano i suoi “figli”.
Proprio negli anni dell’onnipotenza hitleriana, ha il coraggio di predicare l’umiltà e la coscienza del proprio limite, l’abbandono fiducioso in Dio e la precedenza delle leggi divine su qualsiasi disposizione umana ad esse contraria.
Logico, per un prete così, incitare alla disobbedienza civile dopo l’8 settembre 1943, quando scegliere “la strada dei monti” al posto dell’arruolamento è ben più che una scelta ideologica, perché diventa un atto di coscienza pienamente in linea con il Vangelo.
«Che assistente sarei se non li assistessi proprio ora?», dice a se stesso e così continua a seguirli, per corrispondenza, con i suoi consigli, i suoi inviti, i suoi insegnamenti. È cosciente di rischiare ed avrebbe la possibilità di riparare in Svizzera, ma sa restare al suo posto, anche per non deludere i giovani che a lui guardano come ad un esempio.
I nazifascisti, per mettergli le mani addosso, usano l’unica arma a loro disposizione: minacciare di rappresaglia il clero e l’Azione Cattolica bergamasca. È proprio per scongiurare ciò, anche su consiglio del suo vescovo, che si consegna spontaneamente e si lascia arrestare il 4 novembre 1943.
Subito malmenato e torturato, processato e condannato a cinque anni di lavoro coatto in Germania, poi scontati a tre, viene deportato subendo la sorte di altri poveri esseri ridotti a larve umane. Finisce i suoi giorni a Dachau il 21 maggio 1945, vittima della tubercolosi e stroncato dai maltrattamenti disumani subiti.
I suoi resti, fortunosamente ritrovati, nel 1952 sono stati traslati a Premolo e dal 2006 riposano nella chiesa parrocchiale di Sant’Andrea Apostolo e Martire, in una cripta appositamente preparata per lui. Perché di don Antonio Seghezzi è stata avviata presso la diocesi di Bergamo la causa di beatificazione, ultimata nella fase diocesana l’11 novembre 1995.
Il 21 novembre 2020, ricevendo in udienza il cardinal Marcello Semeraro, Prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi, papa Francesco ha autorizzato la promulgazione del decreto sulle virtù eroiche di don Antonio.
Autore: Gianpiero Pettiti
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