Far nascere i bambini è il suo mestiere, anzi dicono sia una levatrice molto pratica oltreché umanissima, tanto che le partorienti di Łódź vogliono solo lei, come anche quelle delle campagne circostanti e pure quelle dei paesi vicini.
Raccontano che, una volta, non riuscì a dormire per tre giorni di fila per correre da una casa all’altra. Sposata e madre di quattro figli, la sua casa è notoriamente aperta a tutti, perché chiunque, nel momento del bisogno, sa di poter trovare l’aiuto necessario. Anche Bronisław, il marito, è un brav’uomo: tipografo di mestiere, ha un cuore grande come quello di sua moglie e si fa in quattro pur di far piacere a qualcuno.
Il gran via vai di bisognosi che si registra alla loro porta, dopo il 1° settembre 1939 ha una connotazione ben precisa: sono ebrei a rischio deportazione, in conseguenza dell’invasione della Polonia da parte di Hitler.
In questa casa ospitale sanno di poter trovare, oltre a cibo e indumenti, anche nuovi documenti per espatriare, perché il bravo tipografo si è specializzato nella loro contraffazione. Se la Gestapo, subodorando l’illecito, non vi avesse fatto irruzione nella notte tra il 19 e il 20 febbraio 1943, stroncando così l’attività clandestina di questa famiglia generosa e spericolata, chissà quante altre persone si sarebbero potute mettere in salvo!
I militari, tuttavia riescono a mettere le mani solo sulla levatrice e su tre figli, perché il maggiore riesce a fuggire dalla finestra insieme al papà, che tuttavia sarà ucciso nei giorni dell’insurrezione di Varsavia.
Mentre i due figli maschi sono internati a Mauthausen, per la levatrice e la figlia Silwia si aprono le porte del campo di Auschwitz: non le separano e tornano invece utili per le donne internate, perché la madre riesce a conservare, per tirarlo fuori al momento opportuno, il suo diploma di ostetrica e della figlia, che ha iniziato gli studi di medicina all’università, si possono già sfruttare le conoscenze mediche che ha acquisito.
Il momento buono arriva a maggio 1943, e precisamente il giorno in cui si ammala Sister Klara, che del campo è “ostetrica ufficiale”. Occorre subito chiarire, per evitare spiacevoli malintesi, che questa, più che levatrice, è l’infanticida ufficiale del campo ed a nessuno certamente sfugge l’evidente contrasto tra le due mansioni. Bisogna sapere che Klara stava scontando in carcere una pena detentiva per infanticidio e ottiene, insieme alla libertà, l’incarico ufficiale di continuare tale illecita attività nel campo di sterminio.
Le disposizioni, cui Klara senza troppa fatica si adegua, sono semplici ed essenziali: insieme alla prostituta Pfani è chiamata ad assistere le donne nel momento del parto e immediatamente dopo a sopprimere il neonato. Secondo un rituale che non smentisce la crudeltà nazista, i piccoli vengono quasi subito strappati alla madre e affogati uno ad uno in un barile colmo d’acqua ed i loro corpicini finiscono in pasto ai topi, che anche in quel campo pullulano.
A questa macabra fine sfuggono soltanto due categorie di neonati: quelli che presentano occhi azzurri e tratti somatici tali da poter essere assegnati in adozione a coppie tedesche senza figli e per i quali si aprono le porte di brefotrofi di Naklo, dove i genitori adottivi potranno effettuare la loro scelta; e i figli di ebrei, per i quali si dispone in modo categorico che non venga nemmeno loro tagliato il cordone ombelicale e siano immediatamente gettati nella fossa delle feci.
Le due “sorelle” sono particolarmente ligie a queste disposizioni e si dedicano all’affogamento di un numero imprecisato di neonati con tale sadismo e perfidia da immaginare che ne ricavino una sorta di macabro piacere, direttamente proporzionale alla durata del gorgoglìo di quelle povere vite, gettate a capofitto nell’acqua del barile.
Tutto questo fino a maggio 1943, quando la malattia ferma Klara, costringendola ad una lunga assenza, permettendo così alla levatrice di Łódź, quella vera, che le partorienti si contendevano perché esperta e dolcissima, di scendere in campo.
Le disposizioni ufficiali vengono impartite anche a lei, con l’ordine di soppressione dei neonati, secondo l’ormai nota “tradizione” di Auschwitz, alle quali con tono tagliente e perentorio Stanisława Leszczyńska risponde che «i bambini non si uccidono». La sua dotazione, al momento dell’assunzione dell’incarico, consiste in un paio di forbici, un barattolo di medicinali e qualche benda, nulla più.
Prende possesso della “sala parto”, che altro non è che una baracca come le altre, con al centro una lunga stufa. La sua prima preoccupazione è che attorno a quest’unica fonte di calore trovino sistemazione le brande di chi ha appena partorito, mediante un sistema di rotazione delle prigioniere.
Con un paziente lavoro di convincimento e con una lenta opera di educazione sanitaria invita e quasi obbliga le future mamme a procurarsi presso le altre prigioniere lenzuola e tessuti puliti attraverso lo scambio della loro razione giornaliera di pane.
Perché da subito appare evidente che Stanisława Leszczyńska non sarà mai, come Klara, disponibile a sopprimere una sola delle vite umane che ha collaborato a far venire alla luce; se destinato a vivere, dunque, al bambino bisogna garantire un minimo di corredo e alla mamma un vitto leggermente più abbondante per aiutarla nell’allattamento. Così diventa lei stessa mendicante di bende e tozzi di pane, a cominciare proprio dalla sua razione che si toglie volentieri di bocca, aiutata incondizionatamente da sua figlia.
All’ordine perentorio di uccidere ogni neonato è disubbidiente tremila volte, tante quanti sono i bambini che fa nascere, potendo alla fine constatare con soddisfazione che nessuno di questi è morto durante il parto o in conseguenza di esso.
Non solo: rischiando ogni volta la camera a gas, riesce anche a battezzarli tutti, ovviamente di nascosto. Al primo che fa nascere impone il nome di Adam, come il primo uomo, come augurio di vita; a quella che nasce il 20 dicembre 1944 il nome di Ewa, come la prima donna, con la segreta speranza che in quel luogo di morte cominci a rifiorire la vita, cosa che effettivamente avviene proprio a partire da quel giorno, perché la guerra sta per finire e anche il rigore del campo a poco a poco si affievolisce.
Stanisława cerca di venire incontro al bisogno di spiritualità delle detenute, per impedire che in esse muoia la speranza: vicino a lei si radunano a pregare, spesso con il rosario, e ogni domenica si trasforma in diaconessa della vita e della fede, intrattenendole attorno alla stufa per una “liturgia della Parola” che è l’unico barlume di soprannaturale per quelle povere creature.
Da tutti affettuosamente chiamata “mamma”, perché di questa possiede la dolcezza, la preveggenza e un cuore sempre sollecito, prende segretamente nota su un quadernetto di tutti i bimbi che ha fatto nascere, mentre per i nazisti ognuno è semplicemente “nato morto”. È lei ad occuparsi, almeno finché le è possibile, di nasconderli, sfamarli e riscaldarli, con la sola soddisfazione di aver fatto fiorire la vita anche in quell’inferno.
Dei tremila bambini passati attraverso le sue mani, millecinquecento vengono affogati dalla stessa Klara quando riprende “servizio”, un migliaio muoiono di freddo e di fame, alcune centinaia vengono avviati per l’adozione al brefotrofio, dove ognuno arrivava con un numero discretamente impresso sull’avambraccio, perché Stanisława ha la segreta speranza che un giorno questo tatuaggio consenta al bimbo di ricongiungersi alla propria madre naturale.
Solo una trentina di bimbi riescono a sopravvivere insieme alle loro madri e con esse venire liberati quando i maledetti cancelli di Auschwitz sono finalmente abbattuti. Sono gli stessi che un giorno del 1970 si raccolgono intorno a lei per dirle grazie di essere tornati vivi dall’inferno di quel campo; a consegnarle un mazzo di fiori è proprio Ewa, la bimba nata a dicembre per annunciare il ritorno della “primavera”.
Perché l’ostetrica non solo sopravvive ad Auschwitz insieme a sua figlia, ma dopo la guerra ha la gioia di ricongiungersi ai due figli maschi, di rientrare a Łódź e di tornare a fare l’unica cosa di cui è capace: far nascere la vita.
«Non rimpiango niente, neanche i sacrifici fatti», sussurra ai sopravvissuti che la circondano in quel momento di festa, mentre i suoi figli collaborano a diffondere il suo «Rapporto di un’ostetrica ad Auschwitz», nato dal quadernetto segreto che nel campo aveva redatto, che Stanisława offre «in nome di coloro che non poterono parlare al mon¬do dei torti subiti: in nome del¬la madre e del bambino».
Muore l’11 marzo 1974 a 78 anni e nella bara vuole essere rivestita con l’abito da terziaria francescana, segno palese della sua fede e della sua intensa spiritualità.
Nel 1992 la Congregazione per le Cause dei Santi concede il proprio nulla osta per iniziare il processo di beatificazione dell’ostetrica di Auschwitz che non riusciva a parlar male di nessuno, nemmeno dei nazisti suoi carcerieri.
Autore: Gianpiero Pettiti
Lodz, in Polonia, anno 1896. I Leszczynski sono una famiglia del quartiere più povero della città. Una famiglia, però, ricchissima di fede nel Cristo e di affezione sconfinata alla Madonna. Vi nasce una bambina: i genitori la chiamano Stanislawa.
È un nome beneaugurante purezza ed eroismo: ricorda il santo patrono di Cracovia, Stanislao, vescovo e martire. Stanislawa cresce limpida e forte, libera e obbediente a Dio solo e a sua Madre. Nel 1908, con i genitori, emigra in Brasile, alla ricerca di lavoro e di pane. È serena, felice di vivere e di amare. Pochi anni dopo, ritornano in Polonia. Nel 1914, allo scoppio della grande guerra, Stanislawa ha 18 anni: sospende gli studi e lavora nel Comitato di Aiuto ai poveri. Al mattino presto, la Messa; alla sera, il Rosario a Maria. Saranno per tutta la vita, i suoi momenti di incontro con Dio, ogni giorno.
Nel 1922, raggiunto il diploma, svolto il tirocinio, comincia a lavorare come ostetrica. Ama e stima la sua professione: sa di essere collaboratrice di Dio nel far nascere la vita. Ama perdutamente i bambini. La conoscono tutte le madri in attesa e a Lodz, dintorni, altri paesi, chiamano lei, Stanislawa, senza tregua. Le capita spesso di lavorare anche tre giorni consecutivi senza trovare tempo per dormire.
Intanto entra nel Terz'Ordine Francescano e vive nel mondo, umile e semplice come San Francesco d'Assisi. Si incanta davanti alla bellezza della natura, ancor più davanti alla vita nascente. Dice: «L'atto della nascita è la più bella estasi della natura». Si sposa con Bronislaw, un giovane uomo forte e buono: dalla loro unione nascono quattro figli. Ma i suoi bambini — che adora — non le bastano. La sua casa è sempre piena di gente, di diseredati, di persone che la cercano per risolvere i propri fastidi. Stanislawa ha tempo e amore per tutti. Chiamata spesso per il suo servizio, impegnata in tante opere di bene, i suoi bambini sentono tuttavia che la loro mamma è sempre tutta per loro. Impossibile dire come faccia. Miracoli dell'amore.
Ostetrica ad Auschwitz
Il 1° settembre 1939, Hitler fa invadere la Polonia. Durante l'occupazione dei tedeschi, la casa di Stanislawa e Bronislaw diventa il rifugio dei ricercati, prima di tutto degli ebrei. Bronislaw, tipografo, prepara, di nascosto, per loro, vitto, abiti, documenti per mettersi in salvo. Nessuno ferma quei due coniugi, mobilitati dalla carità e dalla preghiera, sostenuti dalla «Vergine sempre fedele».
Ma nella notte tra il 19 e il 20 febbraio 1943, la Gestapo scopre quelle attività ed arresta Stanislawa e i suoi figli Sylwia, Stanislaw e Henryk. Il marito e il figlio maggiore, Bronislaw iunior, fuggono, saltando dalla finestra. La madre e la figlia vengono deportate nel lager di Auschwitz. I due figli a Mauthausen. Il padre morirà durante l'insurrezione di Varsavia. Nel campo, Stanislawa riceve il numero 41335. Privata di tutto, riesce però a nascondere il certificato di ostetrica.
Ad Auschwitz, tra le prigioniere sono numerose le madri in attesa. I tedeschi avevavo dato l'ordine di sopprimere ogni bambino che nasceva. C'erano due «ostetriche», Klara e Pfa-ni, e, fino al maggio 1943, i bambini nati erano uccisi in modo atroce: affogati in un barilotto. Dopo ogni parto, si sentiva un forte gorgoglio ed uno sciacquio che a volte durava a lungo. Poco dopo, la madre vedeva il corpo di suo figlio gettato in pasto ai topi.
A maggio 1943 si «mala Klara, l'infanticida. Stanislawa ferma il medico delle SS e gli mostra il certificato di ostetrica. L'uomo la guarda, stupito, poi la manda nella «sala parto»: all'interno di una baracca, al centro corre «una stufa» a forma di canale fatto) di mattoni, circondata da trenta brande separate. Le donne partori-scono, tra un'indicibile miseria.
Il capo del lager ordina a Stanislawa di uccidere tutti i bambini appena nati. Di ognuno occorre poter scrivere: «nato morto». Smislawa gli rispose, tagliente come una lama: «No, mai! Non si devono uccidere i bambini!». Va nella, baracca e comincia il suo lavoro. Ha soltanto un paio di forbici e un barattolo di medicinali, qualche benda e un grande amore, un enorme coraggio insieme a una fiducia senza limiti nella Madonna.
Per tremila volte, Stanislawa disubbidisce all'ordine di «Erode», quello di uccidere i bambini, e risaia la camera a gas. Aiuta tutte le mamme a far nascere i loro bambini, anche le donne ebree ai cui figli era persino proibito tagliare il cordone ombelicale, perché dovevano essere buttati subito nel contenitore delle feci! Al primo bambino nato, Stanislawa dà il nome di Adam, il nome del primo uomo, come augurio di vita. Ella stessa, li battezza, versando sul loro capo poche gocce d'acqua e dicendo le parole rituali: «Io ti battezzo nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito santo». Per il battesimo è prevista la pena di morte, ma ella non si arrende.
Poi quei neonati vengono lasciati morire di fame lentamente o soppressi: dai nazisti, non da lei! Mamma Stanislawa — così la chiamano nel lager — non si scoraggia e continua nel suo servizio, perché sa che «l'ostetrica, il medico, i genitori devono sempre promuovere la vita». Per le madri in attesa, per i «suoi» bambini, lavora giorno e notte: nessun parto avviene senza di lei ed ella cerca in continuazione lenzuola, bende, fette di pane, medicinali. Sempre mite, umile, buona. Non parla mai male di nessuno, neppure dei nazisti. L'unica sua arma: l'amore!
Ogni giorno Stanislawa, con la sua fede forte e gioiosa, organizza la preghiera per tutti: spesso è il Rosario e, attorno a lei, lo recitano i detenuti e le detenute di Auschwitz. Così alla domenica si riuniscono ancora per meditare la Parola di Dio e per pregare, suscitando ire e vendette da parte delle SS: ella è sempre il centro, una personalità eccezionale, in mezzo a tanta crudeltà.
Ewa, l'inizio della vita
Tra le donne in attesa, il 20 dicembre 1944, giunge nella «sala parto» del lager Jadwiga Machaj, prigioniera 87263. Presso la lunga stufa due donne stavano partorendo. Le si avvicina Stanislawa: «E allora, figlia mia?». La sua voce le porta tanta pace. Le accarezza il volto, le chiede quanti anni ha, le racconta della sua famiglia di cui in quel momento ignora la sorte. Qualche momento dopo, la aiuta a partorire: «Hai una bellissima bambina! Come vuoi chiamarla?». «Non lo so». «Allora — dice l'ostetrica a Jadwiga — chiamala Ewa, sarà l'inizio della vita». Poi versa sulla sua testolina l'acqua del battesimo: «Ewa, io ti battezzo...» Per la piccola riesce a trovare una coperta di piume. Ewa sopravvive e le viene dato il numero 89243.
Da quel giorno, poco alla volta, il rigore del campo si allenta, perché la guerra volge alla fine e per i nazisti è il tracollo. Stanislawa, nel 1945, torna a casa, a Lodz, e riprende la sua missione di servizio alla vita, umile, semplice, senza mai atteggiarsi ad eroina. Porta con sé un quaderno dal titolo: «Rapporto di un'ostetrica ad Auschwitz», un documento sconvolgente, tragico. «Fra quegli orribili ricordi — ha scritto — nella mia coscienza è vivo questo pensiero: tutti i bambini nacquero vivi. Soltanto trenta sono sopravvissuti. Alcune centinaia furono trasportati a Naklo per essere snazionalizzati, più di 1500 furono annegati da Klara e Pfani, circa mille morirono di freddo e di fame... Offro il mio rapporto in nome di coloro che non poterono parlare al mondo dei torti subiti: in nome della madre e del bambino».
Nel 1957 a Lodz, durante i festeggiamenti per la premiazione di alcune ostetriche, fra le quali Stanislawa, il figlio suo, dottor Bronislaw, lesse il «Rapporto», scritto dalla madre, nel silenzio commosso dei presenti. Molti superstiti, testimoni dell'opera della coraggiosa donna, confermarono quanto ella vi narrava. Un giorno del 1970 Ewa, la bambina nata nel lager, ormai di 26 anni, nel Teatro grande di Varsavia, consegnò a Stanislawa un mazzo di fiori a nome dei bambini sopravvissuti. Stanislawa abbracciò tutti con uno sguardo d'amore e di gioia, ripetendo: «Come sono contenta che siate qui, come sono contenta! Non rimpiango niente!».
Si spense l'11 marzo 1974 a 78 anni di età. Nella bara la vestirono con l'abito di terziaria francescana, come aveva voluto. Ai suoi funerali, tra migliaia di persone, di fiori, mons. Kulik disse che l'esistenza di Stanislawa era stata tutta un servizio alla vita e che, come Padre Kolbe aveva sacrificato la vita per un prigioniero, ella l'aveva sacrificata per ogni bambino fatto nascere.
Alcuni anni dopo, le donne polacche, toccate dal suo esempio, fecero preparare un calice prezioso da offrire al Papa nella sua seconda visita in Polonia. Nel Santuario della Madonna di Czestochowa, Giovanni Paolo II, un giorno di giugno 1983, ha celebrato la Messa con il grande calice offertogli, ornato di quattro immagini scolpite in avorio che rappresentano le donne più splendide della Polonia invitta e sempre fedele: santa Edvige di Slesia, la beata Edvige regina, la beata Maria Ledochowska e, ultima in ordine di tempo, ma non di eroismo, Stanislawa Leszczynska. Il calice del Cristo, il calice della vita.
Autore: Paolo Risso
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