«Donna saggia e prudente: attiva, ma non dissipata; seria, ma non ruvida; schietta, ma non imprudente; di pietà luminosa e soave»: un giudizio che vale un panegirico, una sintesi di vita che da sola le sarebbe valsa l’aureola.
Evidentemente c’è però anche molto di più, com’è stato dimostrato nel corso del processo diocesano della sua causa di beatificazione e canonizzazione, svolto a Torino dal 24 aprile 2014 al 7 ottobre dello stesso anno, e come riporta il decreto sull’eroicità delle sue virtù, la cui promulgazione è stata autorizzata da papa Francesco il 23 novembre 2020. E non è stato nemmeno necessaria la ricognizione canonica dei suoi resti mortali, perché sono finiti in bocca ai pesci, tra le onde del Mar Rosso.
Fiorina Cecchin nasce a Cittadella (Padova), il 3 aprile 1877, e a 19 anni entra al Cottolengo di Torino con il sogno di andare in missione. Prima, però, le fanno fare un po’ di gavetta, nel senso autentico del termine: qualche anno nella cucina di Giaveno, altri in quella della Piccola Casa di Torino, e solo a 28 anni le danno il via libera per il Kenya.
Sono, questi, gli anni pionieristici delle missioni cottolenghine africane, che solo da un paio d’anni si sono aperte a nuove frontiere equatoriali: regnano la povertà assoluta, forse anche un po’ di improvvisazione, certamente tanti sacrifici e privazioni che raggiungono l’eroismo puro.
Finalmente in missione, dove sempre aveva desiderato essere, comincia esattamente da dove si era fermata a Torino: cioè dalla cucina, dall’orto, dalle faccende di casa, solo con maggior disagio e cento difficoltà in più, perché «ha a disposizione una stufetta mezza rotta, un po’ di legna da bruciare, piatti di latta e al posto del pane usa una gran quantità di patate. Il cibo è scarso e non basta mai».
Se però è vero, come sembra, che «la grandezza non sta nelle cose che fai ma nell'amore che metti nel farle», deve essere davvero tanto l’amore di questa suora, se subito, al di là della barriera imposta dalla lingua, «tutti conoscevano il suo grande cuore e ricorrevano a lei, certi di essere aiutati». Dicono che quando arriva lei, in corsia o nei punti distribuzione viveri ai poveri, basta il suo sorriso e la sua giovialità per rallegrare tutti: più contagiosa di così! Poi comincia a destreggiarsi meglio nella lingua Kikuyu ed a comunicare con più scioltezza: le è possibile, allora, girare nei villaggi, cominciare un po’ di catechesi, curare qualche malato a domicilio.
L’ubbidienza la porta da Limuru a Tigania (nel Meru), passando per Tusu, Iciagaki, Mogoiri e Wambogo: ad ogni tappa, il più delle volte, «la casa è una baracca, una sola padella funge da pentola: ma a poco a poco, viene eretta la casa in legno»: a lei il compito di renderla abitabile, coltivare il giardino e l’orto, abbellire il cortile, raccogliervi attorno una piccola comunità, preparare, insomma, condizioni più vivibili per chi verrà dopo di lei. Pure questa è carità.
La prima guerra mondiale ha le sue ripercussioni anche in Africa e il Kenya si popola di ospedali militari, dove le suore sono più necessarie che mai per curare, fasciare, consolare, rasserenare. La “spagnola”, arrivata a decimare la popolazione, è riuscita a contagiarla, ma non a fermarla, perché pur bruciante di febbre continua a portare una buona parola, preparare al trapasso, amministrare un battesimo.
Finita la guerra, nella missione di Tigania compare l’enterocolite sanguigna, a stremare chi è già cronicamente indebolito: anche le suore ne sono colpite e lei sollecita il rientro a Torino almeno delle più gravi, scrivendo in casa madre: «Ora che i passaggi marittimi sono liberi, speriamo che vengano chiamate in seno alla Piccola Casa, a godere un po’ di paradiso».
A dire il vero, anche lei sarebbe nel numero delle malate, anzi fino alla fine si porterà dietro le conseguenze dell’infezione, ma per se stessa nulla chiede, anzi si carica delle mansioni di chi parte.
Del suo rientro si inizia a parlare solo nel 1923, quando le cottolenghine sono sostituite dalle missionarie della Consolata: anche in questo caso, però, lei è ultima ad abbandonare il Kenya insieme ad una consorella, perché bisogna lasciare ogni cosa in ordine e favorire l’inserimento delle nuove missionarie.
Il viaggio di ritorno inizia il 25 ottobre 1925, ma per lei, ormai è troppo tardi: malattie e strapazzi l’hanno completamente consunta e muore a bordo della nave il successivo 13 novembre.
La sua salma, avvolta in un semplice lenzuolo, viene adagiata tra le onde del Mar Rosso e tra queste scompare, come un seme nel solco della terra. E si vede che ha portato frutto, anche solo a giudicare dalle vocazioni cottolenghine sbocciate in Kenya.
Proprio in Kenya, precisamente tra Gatunga e Matiri, nella diocesi di Meru, si è verificato il miracolo preso in esame per la sua beatificazione. Riguarda la ripresa vitale di un bambino, partorito in condizioni di emergenza su una Land Rover alle 4.55 del 13 aprile 2013.
A un minuto dalla nascita non dava segni di vita, per cui l’infermiere ostetrico che era a bordo del fuoristrada lo aveva dichiarato nato morto. Dieci minuti più tardi, nonostante le stimolazioni, non si erano verificati cambiamenti.
A quel punto suor Katherine, cottolenghina, anche lei sul mezzo insieme all’infermiere, all’autista e alla partoriente, aveva invocato suor Maria Carola. Il neonato, allora, aveva cominciato a presentare movimenti al torace e agli arti, quindi a manifestare riflessi, infine aveva iniziato a piangere; erano trascorsi trenta minuti dalla nascita. Anche le cottolenghine di Gatunga si eranp poi unite alla preghiera per la salute della mamma e del bambino.
I genitori del neonato, di religione metodista, non conoscevano la storia della religiosa, ma erano immediatamente stati certi che il bambino fosse nato per miracolo. Decisero di dargli il nome di Msafiri Hilary Kiama: il terzo nome significa proprio “miracolato”.
La convalida degli atti della relativa inchiesta diocesana è arrivata il 3 novembre 2017. Il 13 dicembre 2021, ricevendo in udienza il cardinal Marcello Semeraro, Prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi, papa Francesco ha autorizzato la promulgazione del decreto sul miracolo.
La Messa con il Rito della Beatificazione di suor Maria Carola è stata celebrata il 5 novembre, presso il Kinoru Stadium a Meru, presieduta dal cardinal Antoine Kambanda, Arcivescovo di Kigali, come delegato del Santo Padre. La sua memoria liturgica è stata fissata al 13 novembre, giorno della sua nascita al Cielo.
Autore: Gianpiero Pettiti ed Emilia Flocchini
Nasce a Cittadella (Padova), il 3 aprile 1877 e entra tra le probande della Piccola Casa della Divina Provvidenza al “Cottolengo” di Torino il 27 agosto 1896, 139ª postulante di quell’anno. Veste l’abito religioso e inizia il noviziato il 2 ottobre 1897, con il nome di suor Maria Carola.
Al secolo, si chiamava Fiorina Cecchin ed era stata davvero un bellissimo fiore di fede, purezza e dedizione a Gesù: continuerà ad esserlo come religiosa più che mai, così da stupire e da avvincere coloro che la incontreranno.
Nell’Epifania del 1899, offre a Dio la professione dei santi voti ed è chiamata a umili servizi nella sua Famiglia religiosa: in cucina nel seminario di Giaveno per qualche anno, quindi nella cucina centrale della “Piccola Casa” a Torino insieme a suor Teobalda. La sua “vocazione”, che sente fin da giovanissima è “la missione”, per amore a Dio e alle anime: il 28 gennaio 1905, parte per l’Africa con la terza spedizione formata da sei suore della sua congregazione.
Ha 28 anni. A Limuru, Tusu, Iciagaki (qui viene nominata superiora), a Mogoiri, a Wambogo, e per ultimo a Tigania-Meru, si dimostra “donna saggia e prudente, attiva, ma non dissipata, seria, ma non ruvida, schietta, ma non imprudente, di pietà luminosa e soave”. Così la delinea Madre Scolastica nel volumetto “Memorie di suor Maria Carola, missionaria”.
“Na bòna mort” (una buona morte), questa è l’espressione che caratterizza il suo agire. Per un insuccesso, per una incomprensione, non si altera mai per cercare rivincite, né si amareggia per le cose spiacevoli della vita, perché pensa che la ricompensa di una buona morte, le fa superare le amarezze del cuore.
A Iciagaki, impianta una nuova stazione missionaria. “La casa è una baracca, una sola padella funge da pentola: ma a poco a poco, viene eretta la casa in legno”. Suor Carola, la rende abitabile, coltiva il giardino e l’orto, abbellisce il cortile, raccoglie attorno a sé la piccola comunità. È mossa, in ogni sua azione, da un grande illimitato amore a Gesù.
Tutto per il Paradiso
Quando le fatiche sono terminate e può cominciare una normale vita missionaria, le giunge l’“obbedienza” di partire per Mogoiri. Accetta con gioia, confidando sempre “na bòna mort” e nella nuova sede, rimane assidua, laboriosa e serena, fino al giorno in cui viene inviata a Wambogo. Di lì erano partite per l’ospedale da campo suor Maria Daria e suor Rachele. Suor Carola le sostituisce in un momento drammatico.
Reclutati gli uomini per una guerra (1915-1918) che non aveva nulla a che vedere con le scaramucce tribali, i poveretti si trovano a fare una guerra di cui non conoscono i mezzi e le strategie. Erano impegnati come portatori, ma anche così la guerra, per loro come per tutti, è una realtà orribile. Nei villaggi, rimanevano le donne che devono badare alle bestie e ai campi. “La spagnola” semina strage insieme alla guerra.
Suor Carola vive questo momento terribile con la luce e la fortezza della carità di Cristo: davvero, come era stato per il Fondatore della sua Famiglia Religiosa, “caritas Christi urget nos”. Insieme alle consorelle testimonia l’amore di Dio Padre (“Deus caritas est”) verso i più poveri dei poveri, donando, insieme ai servizi più urgenti, la carità più grande: l’annuncio di Gesù, unico Salvatore, al quale corrispondono, per la grazia di Dio, meritata dal sacrificio e dalla preghiera, numerose conversioni a Lui.
È Gesù solo che sostiene suor Carola e insieme il suo abituale pensiero a “na bona mort”, la morte in grazia di Dio, che chiede con assiduità nella preghiera e che l’avrebbe ricompensata di tutto, donandole di contemplare finalmente il volto del suo Sposo adorato. Incontrandolo, faccia a faccia, avrebbe visto il suo Signore che serve nei più poveri.
Per Lui, per Lui solo, sempre, tutti i giorni dei suoi 20 anni di missione, con il buono e il cattivo tempo, “in cerca di anime, partiva... e avanti avanti, divorava la via con i suoi lunghi passi”. È partita per l’Africa, solo per Gesù e per le anime, non per essere turista, né animatrice sociale tanto meno rivoluzionaria. Solo per “la rivoluzione del Vangelo di Gesù”, che è l’unica a produrre novità vera di vita.
L’ultima stazione della sua missione è Tigania, nel Meru, ove lascia ancora una volta la casa linda e ben fornita. Vedendo le difficoltà, si mette a canterellare: “La, la, na bona mort, na bona mort”. Sembra strano oggi, ma il pensiero dei novissimi – le realtà ultime – quanti santi, eroi e martiri, ha prodotto nella Chiesa. Così è per suor Carola.
In quest’ultima missione, oltre i soliti disagi, una malattia dolorosa e debilitante, diagnosticata come enterocolite sanguigna, le procura gravi sofferenze. I postumi di questo male non le daranno tregua fino al giorno della sua morte. In una lettera del 14 marzo 1919, al Padre della Piccola Casa, sollecita il rientro delle Suore malate in Italia, scrivendo: “Ora che i passaggi marittimi sono liberi, speriamo che vengano chiamate in seno alla Piccola Casa, a godere un po’ di paradiso”.
Suor Carola – insieme a suor Crescentina – sono le ultime a lasciare l’Africa il 25 ottobre 1925. Sulla nave, in via di ritorno, il 13 novembre 1925, suor Maria Carola, a 48 anni di età, va incontro a Dio. Celebrati i funerali a bordo, la sua salma viene sepolta, come allora si usava, tra le onde del Mar Rosso. Non le fu dato di godere un po’ di Paradiso nella Piccola Casa. Il suo Sposo divino, la volle direttamente nel Paradiso vero. Modello di vita missionaria e di santità, di eroica dedizione a Cristo e alle anime da salvare, anche oggi. Soprattutto oggi.
Autore: Paolo Risso
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