Per chiamarlo “frate Carità” o “padre dei poveri” un motivo più che valido devono certamente averlo. Anche se, a onor del vero, non mancano anche quelli che, da laico, lo chiamano bigotto e, da prete, ipocrita o simulatore, ma questa è la sorte di chi si espone e non ha paura di andare anche controcorrente. Abbiamo pensato di proporre questo antico carmelitano, come protettore e modello, a “quelli del naso rosso”, che in fondo egli ha anticipato di tre secoli, facendo qualcosa di simile a loro, anche se per questo, più che l’ammirazione e il plauso, dovette raccogliere derisioni e critiche.
Francesco Paoli nasce nel 1642 ad Argigliano, nell’alta Toscana. Aiutare i poveri è un “vizio di famiglia” e, per impararlo, gli basta guardare suo padre, che aiuta tutti quelli che a lui si rivolgono e, alla fine, si riduce sul lastrico per essersi fatto garante di un amico presso un creditore e gli tocca saldare il debito che quello non riesce a pagare. “Bigotto” per i compaesani malpensanti lo diventa ben presto, per la sua frequenza assidua della chiesa, la sua devozione, la sua passione di radunare i ragazzi per insegnar loro il catechismo. Per questo nessuno si stupisce quando, a 18 anni, si fa presentare al vescovo dal papà con l’intenzione di diventar prete e, ancor meno, si meraviglia quando torna a casa con l’abito talare. Perché all’epoca, in assenza dei seminari, ci si preparava al sacerdozio restando in famiglia, ma al giovanotto probabilmente mancano la vita di comunità e un maggior ascetismo, che invece trova nel convento carmelitano di Fivizzano, dove entra alcuni mesi dopo.
Riceve il saio e il nuovo nome di fra’ Angelo e viene ordinato prete a fine 1667, ma non vuole continuare gli studi e diventare maestro di Teologia, perché, dice, “sento di essere chiamato da Dio a servire il prossimo”, pur non sapendo cosa in realtà questo concretamente significhi. Gli affidano le più umili mansioni nel convento di Firenze a servizio dei confratelli, cioè curare quelli malati e confezionare le tonache degli altri, ma sembra che svolga queste attività, a dir poco usuali e neanche troppo impegnative, con così tanto entusiasmo e così tanta dedizione da diventar malato. In parole povere, esagera nel lavoro e nella penitenza e le sue condizioni di salute preoccupano talmente che il medico del convento decide di spedirlo a casa, perché si rimetta in forze.
Peccato che, appena rincasato, il buon frate si metta subito a cercare i poveri e poi salga per i monti a cercare pastori e contadini, per far loro catechismo. Anzi, finisce per stabilirsi da loro, costruendosi una capanna di frasche e adattandosi al loro scarso menù, il che non sarebbe propriamente il vitto e l’alloggio adatti ad un convalescente. Suo papà deve andarlo a recuperare e spedirlo a Pistoia, da un cugino farmacista, nella speranza che sia lui a rimetterlo in sesto, ma anche in questa città padre Angelo si lascia “tentare” dai poveri, arrivando perfino a mendicare agli angoli delle strade, per avere qualcosa con cui aiutarli. Rientra in convento e per 12 anni è itinerante tra i conventi di Firenze, Siena, Pisa, Montecatini, Empoli, Fivizzano, ovunque insomma l’obbedienza lo manda, con una breve esperienza da parroco a Corniola, una comunità difficile e “fredda”, dove in pochi mesi i parrocchiani gli van dietro tanto da farlo sembrare “una chioccia seguita dai suoi pulcini”.
In ogni città, comunque, sembra perseguitato dalla sua passione per i poveri: a Firenze, dove ha l’incarico di maestro dei novizi, porta questi ultimi all’ospedale di Santa Maria Nuova, facendo loro vedere con l’esempio come si assistono i malati e come si prestano i servizi più umili; a Siena apre quella che oggi chiameremmo una mensa per i poveri, dando ai tanti accattoni della città un piatto di minestra calda, che lui stesso prepara con quel che passa il convento e con la verdura che i contadini gli regalano; ed altrettanto fa a Montecatini, da dove, anzi, deve partire di notte, di nascosto come un ladro, per evitare le proteste della gente che non lo vorrebbe lasciar andare via. I poveri fanno in fretta a passarsi la voce e, così, il suo arrivo in ogni località è preceduto dalla fama di amico degli ultimi e di uomo dalle mani bucate, che invariabilmente si spoglia di tutto, come se i soldi gli scottassero tra le mani.
Nel 1687 approda in Roma, al convento di San Martino ai Monti, ufficialmente per essere il maestro dei novizi, ma in realtà di nuovo talmente assediato dai poveri e assorbito dai malati, da sceglierli come suo esclusivo campo di azione. Buon per lui che anche il Priore Generale dell’Ordine vede in questo suo prodigarsi per i poveri un carisma specifico e lo lascia fare, sollevandolo dall’incarico conventuale. In men che non si dica al convento cominciano ad affluire così tanti accattoni, da dover preparare un pranzo quotidiano per trecento persone, soccorrendo poi quanti, di giorno e di notte, vengono a cercare altri aiuti. Inutile dire che la pace del convento è definitivamente compromessa e sull’umile frate, cominciano a cadere le critiche dei confratelli più suscettibili o insofferenti, che lo accusano apertamente di falsa carità, di tradimento dello spirito carmelitano, di follia e di ipocrisia: sarà una croce che lo accompagnerà per tutta la vita.
Padre Angelo, intanto, ha messo il naso (è proprio il caso di dirlo) nell’ospedale di San Giovanni al Laterano, rimanendo subito colpito dal fetore, dal disordine e dall’abbandono in cui si trovano i malati, spesso neppure sufficientemente nutriti. Annusare, vedere, sentire e provare compassione, per padre Angelo è davvero un tutt’uno, da tradurre immediatamente in pratica: da quel giorno lo vedranno quotidianamente varcare la porta dell’ospedale, prima da solo, poi con un drappello sempre più consistente di volontari, a svuotar latrine, lavar malati, pulire piaghe, imboccare inabili, con delicata premura, perché, diceva, “in questi poveri io riconosco il maggior personaggio che vi sia, cioè il nostro Signor Gesù Cristo”. Con fine intuito e dimostrando doti psicologiche non indifferenti, porta orchestrine e clown in quelle tetre corsie per sollevare lo spirito degli ospiti, con ciò diventando precursore della clownterapia. All’occorrenza, scandalizzano anche qualcuno, non si fa problemi a mettersi direttamente in gioco, truccandosi e travestendosi da buffone, oppure esibendosi alla tastiera, convinto dei benefici effetti della musica sui malati.
Un organo portatile è così il primo arredo che introduce nel convalescenziario che apre vicino alla chiesa di San Clemente: lo usa per festeggiare l’arrivo di ogni nuovo ospite, oltre che per allietare il soggiorno degli altri. Perché padre Angelo, in mezzo a quanti discutono sulle cause e sugli effetti della povertà e dell’accattonaggio, è l’unico a sperimentare un metodo per limitare il fenomeno. Il ragionamento è molto semplice, pienamente in linea con la fantasia della sua carità e con lo stile misericordioso del suo ministero: le file dei poveri si ingrossano quando un malato è dimesso dall’ospedale, clinicamente guarito, ma ancora inabile al lavoro perché bisognoso di convalescenza.
Nel 1710 decide di aprire una specie di ostello in stile “famiglia allargata”, un ospizio “a porte aperte” in cui accogliere queste persone per accompagnarle, con il riposo e un vitto adeguato, verso il completo ristabilimento, raggiunto il quale ciascuno è indirizzato verso la propria famiglia, dotato di biancheria nuova e di un piccolo gruzzolo che gli consenta di riprendere il proprio lavoro. Inutile tentare di dissuaderlo da questo suo progetto, perché, dice, “un povero frate che ha fiducia in Dio, è più ricco di un banchiere”. E la Provvidenza gli da ragione, facendogli trovare i soldi e gli aiuti indispensabili per questa nuova realizzazione. Anzi, come per il Cottolengo, Dio stesso si impegna personalmente perché i poveri di Padre Angelo non manchino del necessario, potendo così tranquillamente affermare che “quanto più vengono i poveri tanto più la santa Provvidenza di Dio mi manda con che provvederli”, e facendo vedere ogni giorno che per i bisogni più urgenti egli si serve direttamente “al forno della divina Provvidenza”.
Muore il 20 gennaio 1720, dopo breve malattia, che gli lascia il tempo per le ultime raccomandazioni e per le istruzioni ai suoi collaboratori, ma anche gli dà modo di prepararsi al grande passo nella preghiera e nel silenzio, scegliendo di fare la sua confessione generale proprio dal confratello che più lo aveva osteggiato e criticato nella sua opera caritativa. Ci son voluti tre secoli per portarlo sull’altare, ma alla fine, il 25 aprile 2010, Padre Angelo Paoli è stato beatificato. In occasione dell’Anno Santo la diocesi di Roma ha istituito un “itinerario di misericordia”, che si sviluppa in nove tappe sulle orme del beato, partendo dalla chiesa in cui è sepolto e che termina alla mensa “San Giovanni Paolo II” della Caritas: quattro ore tra le povertà vecchie e nuove di Roma, a meditare le sette opere di misericordia corporale che l’umile frate ha così eroicamente incarnato.
Autore: Gianpiero Pettiti
Francesco Paoli nacque il 1° settembre 1642 ad Argigliano di Casola, un borgo della Lunigiana. Primogenito di tre fratelli e tre sorelle, fin da giovane si distinse per religiosità e attenzione ai poveri, amava molto le funzioni e la liturgia. Dopo aver ricevuto un po’ di istruzione dallo zio materno, vicario parrocchiale di Minacciano, non aveva ancora compiuto diciotto anni che si presentò al vescovo di Luni-Sarzana per chiedere gli ordini minori e la tonsura che ricevette nella locale cattedrale. Il 27 novembre 1660 Francesco e il fratello Tommaso si presentarono al convento di Cerignano per essere ammessi nell’Ordine Carmelitano. Quindi il padre li accompagnò a Siena, all’antichissimo convento di san Nicola, dove iniziarono il noviziato. Francesco, divenuto frate Angelo, l’anno successivo emise i voti solenni e partì per il convento di Santa Maria del Carmine di Pisa dove per cinque anni studiò filosofia. Era ancora giovane, ma la sua indole caritatevole iniziò ad emergere e diversi notabili della città portavano a lui le elemosine da distribuire ai poveri. Dopo gli studi teologici, il 7 gennaio 1667, festa di Sant’Andrea Corsini, nella Basilica fiorentina di Santa Maria del Carmine, celebrò finalmente la prima Messa. Rimase a Firenze come organista e sacrista fino al 1674, quando dovette tornare in famiglia, ad Argigliano, per motivi di salute. Il 15 agosto di quell’anno fu protagonista di un “miracolo”. La distribuzione del pane ai poveri non aveva mai fine e ancora oggi, in ricordo, annualmente, il 20 gennaio, l’illustre cittadino e il fatto prodigioso vengono ricordati. Angelo, quel giorno, volle sfuggire alla notorietà e si ritirò sulle montagne dell’alta Garfagnana per fare vita eremitica insieme ai pastori. Ogni giorno, all’alba, saliva al santuario di s. Pellegrino per celebrare la messa. Soggiornò quindi a Pistoia ma, invece di curarsi, si dedicò nuovamente ai poveri. Trascorso un anno, ristabilitosi in salute, fece ritorno a Firenze con il delicato compito di maestro dei novizi. Tra dicembre 1676 e ottobre 1677 fu parroco a Corniola di Empoli, dove c’era una comunità carmelitana, ma sovente andava a piedi a visitare i malati dell’ospedale di Pistoia. Fu nuovamente a Siena tra il 1677 e il 1680 e anche nella città di Santa Caterina si dedicò ad opere di carità. Erano anni difficili, a causa di una carestia, e il frate carmelitano, con il permesso dei superiori, organizzò nell’orto del convento una mensa alla quale accorrevano poveri provenienti anche dalle campagne. Nel 1680 fu inviato a Montecatini con il compito di insegnare grammatica ai novizi, ma puntualmente anche lì si diede da fare per i bisognosi. Nel 1682 fu destinato a Cerignano; partì di notte, come era solito fare per non ricevere ringraziamenti. Fu sacrista, organista e lettore ma, soprattutto, per indole innata, si dedicò alle persone in difficoltà. Per trovare un po’ di quiete e pregare solitario si recava in una grotta vicina. Passarono cinque anni, poi giunse l’ordine del Padre Generale di andare a Roma. Padre Angelo prese solo il breviario, la cappa bianca e una bisaccia con un po’ di pane, e si mise in viaggio nel buio della notte. Passò da Argigliano per salutare l’anziano padre e i fratelli, mentre a Siena si accomiatò dal fratello padre Tommaso.
Fece il suo ingresso nella città eterna il 12 marzo 1687, dopo un viaggio lungo e avventuroso. Nel convento dei Ss. Silvestro e Martino ai Monti fu accolto con gioia, la sua fama l’aveva preceduto. Un giorno del mese di luglio, dopo aver fatto la Scala Santa, decise di visitare l’ospedale del Laterano. Quanta miseria umana e spirituale vide in quelle corsie. Tornato dal superiore chiese, nelle ore libere dagli incarichi che ricopriva, di dedicarsi ai malati. Gli fu accordato, a patto che non trascurasse la formazione dei novizi che era sotto la sua responsabilità.
Nei trentatre anni romani il Beato Angelo divenne il “padre dei poveri”, il suo apostolato raggiunse livelli altissimi. Alla sua mensa venivano sfamati fino a trecento poveri al giorno. Si preoccupò inoltre dei malati che venivano dimessi dall’ospedale ma non erano abili a lavorare e aprì un convalescenziario. Organizzò, per quei tempi, servizi innovativi ed efficienti. Il suo apostolato fu anche per le carceri di Via Giulia e le famiglie dei detenuti. Nel 1689 gli fu affidata l’assistenza spirituale del conservatorio della Beatissima Vergine, presso l’Arco di s. Vito, fondato dalla nobildonna Livia Viperteschi per l’educazione delle fanciulle. La sua fama era tale che veniva chiamato anche fuori Roma per risolvere liti mentre dai certosini di Trisulti andava a parlare con i giovani che avevano dubbi sulla vocazione. Strinse vincoli di amicizia e collaborazione con nobili ed ecclesiastici, tra cui il cardinale teatino San Giuseppe Maria Tomasi.
Il Colosseo, santuario dei martiri dei primi tempi, per incuria era quasi pericolante e rifugio per gente di malaffare. Padre Angelo si rivolse a Clemente XI, con cui era in amicizia, e ricevette i fondi per alcuni lavori e per chiudere gli ingressi con le cancellate. Innalzò quindi tre croci davanti alle quali ancora oggi si celebra la Via Crucis. Anche sul Monte Testaccio fece mettere tre croci come aveva pure fatto sulle Alpi Apuane, in Lunigiana, sua terra di origine. La sua devozione per la croce era forte, per tutta la vita la tradusse in carità dedicandosi al prossimo, coinvolgendo altre persone che su suo esempio compresero il valore del Vangelo vissuto. Diceva: “chi cerca Iddio deve andarlo a trovare tra i poveri”.
Dal 1713 al 1716 fu delegato da Clemente XI alla consegna delle reliquie nelle diocesi, compito importante, solitamente affidato ad un vescovo. Per due volte rinunziò alla dignità cardinalizia propostagli da Innocenzo XII e Clemente XI.
La mattina del 14 gennaio 1720, mentre suonava l’organo, fu assalito da febbre e portato in cella. L’ultima malattia durò pochi giorni. Alle ore 6.45 del 20 gennaio spirava venerato come un santo, all’età di 78 anni. Al suo funerale accorse tutta Roma, cardinali, nobili e una moltitudine di popolo. Il corpo venne portato in processione, la gente per strada espose gli arazzi delle occasioni solenni. Papa Clemente XI sulla tomba in S. Martino fece scrivere il “venerabile” “padre dei poveri”. Molti miracoli gli furono attribuiti in vita e dopo la morte. Nel 1781 papa Pio VI riconobbe le sue virtù eroiche, oggi, riconosciuto il miracolo, è assunto alla gloria dei beati.
Nel 1999 Giovanni Paolo II, per il 7° centenario della presenza dei Carmelitani nella Basilica di S. Martino ai Monti, disse: "Come non far memoria di quell’umile frate, il Ven. Angelo Paoli, "Padre dei Poveri" e "Apostolo di Roma," che possiamo definire il fondatore “ante litteram” della "caritas" nel rione Monti? Egli, per primo, collocò la croce nel Colosseo, dandovi inizio al pio esercizio della Via Crucis."
Autore: Daniele Bolognini
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