Giuseppe Rovera, ragioniere, industriale, fu il primo della Società Operaia per il quale fu scritto "Operaio" sull’immagine-ricordo. Era nativo di Saluzzo ed aveva lavorato nell’Azione Cattolica locale e nelle Conferenze di S. Vincenzo de’ Paoli di Torino e di Asti. Somme cospicue venivano da lui destinate alla carità, e schivo di ogni elogio umano, amava operare in modo che il povero altro non dovesse dire che: "Deo Gratias", secondo l’esempio di S. Giuseppe Benedetto Cottolengo. Lo spirito di questo santo fu l’argomento di una conferenza che tenne il 28 giugno 1934 ai Giovani di Azione Cattolica nel Seminario di Asti, che fu il Seminario del Santo. La consegna che egli lasciò all’uditorio giovanile fu: "Opere in Cristo". Giuseppe Rovera non potè partecipare agli Esercizi spirituali operai del luglio 1943 perché aveva appena subito un intervento chirurgico sopra una ghiandola del collo. Ecco le parole serene, eroiche con le quali Peppino annotava nel suo diario, il 13 luglio, il terribile responso: "I ragazzi sono a Valmala con don Soleri. Le bambine a Limone. … Io sono qui con Ida, convalescente dopo l’operazione al collo subita il 30 giugno scorso alla "Sanatrix". L’esame istologico della ghiandola asportata ne ha rivelato la natura; si tratta di un tumore maligno, di un linfosarcoma con tendenza, nella maggioranza dei casi a ripetersi. Il Signore è venuto a visitarmi, non so se per chiamarmi o per ammonirmi: "A me non tocca d’interrogarlo ma d’ascoltarlo" diceva il Cottolengo. E quando diceva questa parole aveva i miei anni d’oggi, 40 anni…". La malattia neoplastica di cui soffriva s’impossessò così rapidamente del suo corpo che il 6 ottobre 1943 venne a morte a Valgera d’Asti. Negli ultimi giorni la sua preghiera continua era quella del Getsemani: "Pater, non mea voluntas sed Tua fiat". Umanista, scrittore, parlatore, sapeva ravvivare di fervore i problemi sempre nuovi della vita religiosa e sociale. Lasciò la moglie Ida e i figli Paolo, Giangiacomo, Maristella, Giulietta per i quali, vedendo approssimarsi la morte, dettava queste alte e serene parole: "Miei figlioli, venite qui, con Ida in mezzo. Volete sapere il segreto della concordia, della buona armonia, dell’unione e della pace familiare? Dite ogni sera le preghiere in comune. Tutti e bene. Non è un comando che vi dò. I comandi pesano. E’ un dolce segreto da non scordare. Siategli fedeli per la vostra felicità. Fate la carità ogni giorno della vostra vita. Studiatevi soprattutto di farla con finezza di cuore nei giorni della tribolazione e della tentazione.Essa vi renderà il sereno nell’anima e il male non potrà nulla contro di voi. E ora vi dico un’altra cosa. Non sarà sempre tempo di ansia e di lagrime. Il papà più di una volta non può morire, né le distruzioni e la guerra dureranno eterne. Verranno, verranno le dolci stagioni della vita. Vi dico, godetele. Ma ricordatevi: rispettate sempre la Legge di Dio". La scuola del Getsemani insegna a soffrire e pure a confortare. (L. Gedda – Vent’anni – Tip. Poliglotta Vaticana – 1962 – pagg.82/86) Sembrano queste parole di altri tempi, dette con linguaggio antico e lontano. Hanno il sapore di una sapienza a lungo coltivata e conservata nel cuore. Ed è proprio questa antichità a costituire invece l’attualità di questo messaggio di santità e a rilanciare a noi moderni questa scommessa sulla nostra fede ogni giorno più fragile e dubbiosa perché non alimentata alla fonte della Parola e dell’Eucaristia.
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