Potrebbero cercarli con il lanternino, ma sarebbe più facile trovare un ago in un pagliaio. Perché nella vita di Carolina Mancinelli Scampone non ci sono davvero gesta eclatanti, azioni portentose e comportamenti eroici. Sempre che, per eroismo, si intenda qualcosa al di fuori del normale e non, piuttosto, la capacità di vivere straordinariamente bene un’ordinaria e semplice vita di moglie e di mamma. Nasce nel 1877, figlia di un impresario edile, a Selvacava (frazione di Ausonia) e cresce in un clima di religiosità semplice e genuina: non si può dire che pensi alla vocazione religiosa, ma certamente non fa progetti di matrimonio. È suo padre a decidere per lei, facendole sposare a 20 anni un proprio operaio di cui ha grande stima e che gode della sua fiducia, nella speranza che, entrando a far parte della famiglia, condivida anche la responsabilità dell’azienda. Come gran parte dei matrimoni combinati, non è però una scelta felice, perché quel papà, forse, più che un genero sta cercando un socio: gran lavoratore, onesto e diligente, ha però un carattere difficile ed irascibile e vivergli insieme è uno straordinario esercizio di pazienza e di sopportazione. Anche perché Carolina non vuole che i genitori se ne accorgano, e così ingoia lacrime e distribuisce sorrisi, come nei giorni del suo primo parto, quando lui si rifiuta di entrare in camera, e per anni non prenderà in braccio la creatura, semplicemente perché è una femminuccia e non un maschio, come lui avrebbe desiderato. Potrebbe rifarsi con i quattro maschietti che nascono in seguito, ma purtroppo si ammala e muore dopo appena otto anni di matrimonio, lasciando quattro orfani e una moglie incinta. Carolina si rimbocca le maniche e tiene duro, aiutata dai genitori. Che però muoiono nell’arco di qualche anno e Carolina passa da uno stato di discreto benessere alla vera indigenza. Si fa allora manovale per la raccolta delle olive presso i vicini, oppure va per i monti a raccoglier legna, per guadagnare quanto basta a comprar la farina per il giorno dopo. Una vita di stenti, con i bimbi piccoli da accudire, affidati alla figlia maggiore, ammalata di spagnola. È proprio in questa dolorosa ed umiliante situazione che affiorano le sue doti di donna forte, paziente e tenace, che non si ripiega sulle sue necessità ma si apre alle sofferenze degli altri. In paese cominciano ad ammirarla per la sua umiltà di donna, già un tempo agiata e che ora sa adattarsi alla povertà più nera, e per la sua generosità che la porta sull’uscio di chi ha bisogno prima ancora di venir chiamata. E pensare che a lei i guai non mancano, come pure i lutti: prima le muore un figlioletto, poi il primo maschio, che era entrato nei Carabinieri e che muore per un gioco tra amici durante una licenza; poi diventa cieca dall’occhio sinistro, per un’infiammazione che non ha potuto far curare per mancanza di mezzi; la primogenita va a farsi suora mentre un altro figlio parte per l’America, da dove non dà quasi più notizie di sé; il più piccolo, invece, dopo diverse traversie, entra nei Paolini di Alba, da dove però viene rimandato a casa per problemi di salute, morendo tra le sue braccia a 24 anni. Chi conosce Carolina e sa dell’impressionante catena di lutti e disgrazie che si sono abbattuti su di lei non si stupisce della sua resistenza: è chiaro a tutti che solo in Dio trova la sua forza, perché la sentono pregare di continuo e a volte anche cantare. È per questo che sopporta anche il rastrellamento dei tedeschi e l’internamento nel campo di concentramento alla Breda di Roma. Dopo la guerra, però, le sue condizioni peggiorano: tormentata dall’epilessia, da ascessi e crisi febbrili, viene ricoverata a Roma: dovunque passa tutti si accorgono di questa donna speciale, che soffre tanto, non si lamenta mai, aiuta tutti e prega di continuo. Bloccata a dicembre 1950 da una paralisi, aderisce al Terz’Ordine carmelitano e muore il 5 febbraio 1951 con una fama di santità che nel 1981 induce i Carmelitani ad iniziare il processo per la sua beatificazione.
L’inchiesta diocesana, avviata nel 1981, si è conclusa a luglio 1989.
Autore: Gianpiero Pettiti
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