Nato all’alba del 18 giugno del 1905 a Montagano, un paesino ad oltre 800 metri tra i boschi dell’Appenino Sannita, presso Campobasso, si è spento con i rintocchi di “È l’ora che pia... Ave Maria”, del 14 ottobre 2008, a Salerno, dopo aver raggiunto e superato i 103 anni. “Un antenato ancora vivo!…”, ha detto di lui, scherzando, un confratello che dopo una pausa ha aggiunto: “…da venerare!”. Don Emilio era sempre fiero e felice di poter raccontare, da testimone o da protagonista, avvenimenti esaltanti e sofferenze profonde sia della sua vicenda personale, sia della storia della sua congregazione, sia di quella della sua patria. La vita è un dono che deve diventare messaggio. Don Emilio l’ha vissuta proprio così. E la vita donata, specie attraverso l’apostolato, ti viene ricambiata con una gioia superiore a quella che gode colui che la riceve. Nel 1924 Emilio è ammesso al noviziato di Genzano e, dopo un anno divenne salesiano, ben conscio di ciò che l’attendeva in futuro: rinunce, sacrifici, e ragazzi, ragazzi, ragazzi… da formare ed educare. Scrive: “ La notte precedente non dormii”. Lì, il 18 maggio del 1930 emise i voti perpetui e fu salesiano per sempre. Fu in questo periodo che i fratelli, Raffaele e Roberto, vennero anch’essi a Genzano, decisi a stare con Don Bosco come salesiani coadiutori e poi partire missionari. In quel periodo il direttore don Eugenio Ceria e il maestro don Angelo Fidenzio li distinguevano chiamandoli Pollice, Pollicino e Pollicetto – erano i tempi in cui nei collegi salesiani era di regola chiamarsi solo per cognome, mai per nome.
Barbiere e bandista
Nel novembre del 1926, “per salute malferma e persistenti emicranie”, passò un periodo in famiglia. Decise allora, per tesaurizzare il tempo, di prestare subito il servizio militare, senza aspettare il ventiseiesimo anno, secondo la legge di allora riguardante i religiosi. Fu accettato e assegnato alla Direzione Sanità di Bari. Trascorreva tutto il tempo libero presso l’Opera salesiana presente in città con grande impegno e fedeltà religiosa. Nell’ottobre del 1930 s’iscrisse all’università Gregoriana a Roma e ottenne la licenza con un “ Bene probatus”. Aggiunse così, alla sua determinata volontà, che già lo sorreggeva nel dinamismo apostolico, anche una notevole cultura. Il 30 luglio 1933, nella chiesa romana di Sant’Ignazio veniva ordinato sacerdote assieme ad altri cinque diaconi dal cardinale Marchetti Selvaggini. Tutti e sei si recarono a piedi nella celebre chiesa senza alcuna ostentazione. Don Emilio celebrò la prima messa nella basilica del Sacro Cuore di via Marsala, dove Don Bosco celebrò una messa di ringraziamento e pianse di commozione. L’immaginetta ricordo recava scritto: “Signore, che XIX secoli or sono dall’alto della Croce dicesti HO SETE concedi a me che hai chiamato a cooperare alla divina opera della redenzione SETE DI ANIME E ARDORE DI APOSTOLATO”.
Gli anni della guerra
Iniziò a Civitavecchia il suo apostolato sacerdotale. Si era in pieno tempo di guerra. Qui don Emilio sfoderò le sue eccezionali qualità umane e sacerdotali. Doveva animare le numerose e continue attività parrocchiali, con tante associazioni: l’Azione Cattolica, la San Vincenzo, le Dame patronesse;ma anche la S. Filippo Neri per i militari, l’oratorio, gestire il cine-teatro con spettacoli teatrali e operette, per le quali poteva profondere tutta la sua passione per la musica, ereditata dal padre. La comunità, in quel momento, aveva bisogno di un punto di riferimento e di una guida tenace e sicura. Egli riuscì a infondere negli animi dei confratelli la necessaria tranquillità e sicurezza e trasmettere loro la convinzione che bisognava spendersi senza misura, perché l’opera fosse una presenza vitale al servizio di tutti. “Dobbiamo donarci senza risparmio; arruoliamo il maggior numero possibile di persone che possono contribuire ad alleviare le sofferenze e i disagi provocati dalla guerra”. Coinvolse un gran numero di laici i quali sperimentarono la gioia di essere utili a chi è nel bisogno. Ne scaturì un volontariato dinamico e fortemente impegnato. Nella città/porto le emergenze erano continue.
La catastofe
La catastrofe arrivò il 14 maggio 1943. Un micidiale bombardamento seminò distruzione e morte: le case un cumolo di rovine, la cattedrale sventrata, la gente in fuga col terrore negli occhi e l’odio nel cuore, il vescovo a Tarquinia, il clero in altre località… non tutto il clero. Il direttore dei salesiani, infatti, restò al suo posto: i disperati avevano ancora un luogo in cui chiedere aiuto, un prete da cui sperare una parola di conforto… E quando, dopo altre incursioni aeree, non poté più usare la chiesa, allestì una baracca e continuò imperterrito il suo apostolato. A fine guerra, fu inviato all’oratorio di Genzano (1945-‘46), un anno dopo si ritrovò vice parroco a Latina, dopo altri due anni a Grottaferrata, dove i salesiani, oltre la parrocchia, officiavano la cappella privata della famiglia Romalli di Casal Morena. Proprio quella fu affidata alla cura di don Pollice. “Qui ho compiuto un’opera del tutto eccezionale”, ha scritto. Infatti, nell'estate del 1951 si recò assieme a un centinaio di parrocchiani a Castel Gandolfo da Papa Pio XII. Appena il Pontefice si affacciò dal balcone, i Morenesi mostrarono uno striscione con il quale chiedevano una chiesa per la zona che ne era sprovvista. Il Papa colpito da questa iniziativa alcuni giorni dopo mandò un suo incaricato con 25 milioni, con i quali venne acquistato un terreno di circa 10.000 mq appartenente alla famiglia Bellizzi. Don Emilio s’impegnò allo spasimo e sorse la parrocchia di San Matteo Apostolo, ma i superiori non si sentirono di accettarla ed egli fu sollevato dall’incarico. Fu un duro colpo, ma accettò come sempre l’obbedienza fino a quella di cambiare ispettoria.
Nell'ispettoria meridionale
Fu così che nel 1963 accolse l’invito dell’ispettore don Antonio Marrone, che lo conosceva intus et in cute e lo stimava tanto da aver visto in lui tanti anni prima la persona di cui Dio si era servito per invitarlo a scegliere la strada di Don Bosco. L’approdo fu un punto di svolta nella vita di don Emilio e si rivelò un dono del Signore. Don Pollice lo considerò un dono divino. Si può dire che ricominciò tutto da capo con nuova lena. Gli anni passavano, ma lui sembrava sempre più giovane e pimpante, tanto da prendere la patente all’età di sessanta anni per “decollare, diceva, alla ricerca di nuove vocazioni e non solo per amarle, ma anche per sostenerle”. Il concetto base su cui ritornava sempre era che la vocazione è un fenomeno divino, ma la realizzazione ha bisogno di mezzi umani, materiali, finanziari. E fu l’uomo delle vocazioni. Adattava all’argomento una spiritosa uscita di Don Bosco di fronte a un gruppo di persone ricche: “Signori! La soluzione sta… nelle vostre tasche!”. Nacque così la grande famiglia dei benefattori delle vocazioni missionarie salesiane. Tali benefattori, eccellente strumento benedetto da Dio, superarono il numero di duemila. Si sentivano collaboratori di Dio e ne erano orgogliosi. Don Pollice è stato un salesiano grande. Di età, di senno, di cuore.
Autore: Giorgia Frisina
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