Antonio Molle Lazo nacque ad Arcos de la Frontera, pittoresca cittadina della provincia di Cadice, il Venerdì Santo del 1915, che quell’anno cadde il 2 aprile. Suo padre, Carlos Molle, lavorava come rappresentante di commercio ed era un cattolico convinto, che impartì insieme alla moglie, Josefa Lazo, un’educazione affettuosa e allo stesso tempo severa ai loro sette figli. Quando Antonio aveva cinque mesi, la sua famiglia si trasferì a Jerez de la Frontera per motivi di lavoro. Una volta cresciuto, divenne allievo dei Fratelli delle Scuole Cristiane, dimostrandosi di carattere mite ed ottenendo bei voti senza troppi sforzi. Soprattutto, non mancava di aiutare i suoi compagni e non sopportava di udire bestemmie.
Terminata la scuola, si mise subito a cercar lavoro per aiutare i suoi familiari. Iniziò a lavorare in ferrovia, affiancandosi a uomini di idee divergenti dalle sue, ma senza perdere la propria fede, anzi, guadagnandosi la simpatia di molte persone. Purtroppo, a causa delle pressioni di alcuni lavoratori, che volevano che solo i loro figli entrassero nella Compagnia ferroviaria, fu costretto ad andarsene, ma non rimase mai inattivo.
La sua fede, intanto, progrediva. Era diventato Terziario Carmelitano e, a circa quattordici anni, esortava gli amici a ricevere spesso la Comunione. Di fronte alle loro obiezioni, causate dalla paura di essere presi in giro, rispondeva tranquillamente: «E allora? Dobbiamo soffrire ben altro per Cristo, no?». Allo stesso tempo, amava praticare lo sport e, quando gli animi si scaldavano, era capace di riportare l’armonia.
Nel 1931 s’iscrisse ad un Circolo della Gioventù Tradizionalista, per contribuire alla protezione di chiese e conventi e compiere azioni di propaganda, a causa delle quali finì in carcere. Mentre era costretto lì, si sfogava cantando inni al Sacro Cuore di Gesù e, quando gli fu proibito di cantare, mantenne il silenzio scrivendo poesie sulle pareti; non smise tuttavia di pregare, recitando il Rosario da solo o con altri prigionieri.
Dopo un mese e mezzo di detenzione, durante il quale si erano compiuti saccheggi e profanazioni in tutta la città, Antonio tornò libero, ma non si arrese: a ventuno anni si arruolò nel “Tercio de Requeté” (i “requetés” erano soldati volontari di orientamento monarchico) intitolato a Nostra Signora della Mercede, patrona di Jerez, insieme ai suoi fratelli Carlos, ventitreenne, e Manolete, quattordicenne.
Con loro e con altri compagni fu incaricato di alcune missioni particolarmente difficili nei dintorni di Jerez: nel percorrere i villaggi, soffrì moltissimo al vedere le chiese devastate e incendiate. Il 6 agosto, Primo Venerdì del mese, ricevette la Comunione prima di partire per un’altra missione. Come a presentire la sua imminente morte, dichiarò: «Attenti alla radio... perché un giorno sentirete parlare di me». Così dicendo, si diresse verso Peñaflor, vicino Siviglia, per impedire nuove devastazioni oltre a quelle che avevano già colpito la cittadina.
Un mattino, piombarono lì parecchi militanti marxisti provenienti da Palma del Río, alcuni a cavallo, altri a piedi o su camion, decisamente più numerosi della trentina di volontari. Antonio fu scoperto mentre tentava di aggiungersi agli altri difensori, in quanto aveva finito le munizioni: aggredito e picchiato, fu costretto a seguire i suoi avversari.
Di fronte alla stazione di polizia di Peñaflor, continuò ad essere percosso ed insultato: «Viva la Spagna! Viva Cristo Re!», gridava con maggior forza quando volevano sfinirlo a furia di bestemmie. Dato che non valevano a nulla, passarono alle torture: gli tagliarono un orecchio e parte del naso, gli cavarono un occhio e gli sfondarono l’altro con un pugno. Di tanto in tanto lo si sentiva invocare: «Ahi, Dio mio!», ma immediatamente otteneva quel tanto di forze che gli bastava per esclamare di nuovo: «Viva Cristo Re!». Il medico del luogo e il capo della stazione di polizia, entrambi cattolici, che assistevano da lontano ad un simile martirio, non riuscivano a capacitarsi di come facesse a sopportare quelle cattiverie.
Infine, uno dei militanti gridò: «Allontanatevi, sto per sparare!». Antonio, lasciato solo, comprese che era giunta l’ora di dare definitivamente la vita per Dio e per la sua patria. Stese il più possibile le braccia in croce e ripeté, per l’ultima volta: «Viva Cristo Re!», prima di essere colpito da una scarica di proiettili. I persecutori, vedendo che respirava ancora, volevano dargli il colpo di grazia, ma uno di loro lo impedì, lasciando che soffrisse ancora. Era il 10 agosto 1936.
I suoi resti mortali riposano nella chiesa della Madonna del Carmelo a Jerez de la Frontera, in una cappella dedicata a Cristo Re.
Autore: Emilia Flocchini
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