Padre Ruggero Cipolla nasce nel 1911 in una famiglia torinese piuttosto modesta, è orfano di padre a 14 anni e veste il saio francescano il 12 marzo 1930 grazie all’amicizia con il parroco di San Secondo, che l’ha accompagnato per mano verso la vocazione religiosa. Tre anni dopo arriva a sfiorare l’orlo della tomba, ma dopo dodici mesi è, quasi per miracolo, completamente guarito. Nell’autunno 1944 il cardinal Fossati si vede costretto a sostituire i Padri della Consolata che da 13 anni sono cappellani del carcere “Le Nuove” di Torino, non più graditi ai Tedeschi, che li ritengono troppo “vicini” ai partigiani detenuti. Da un giorno all’altro padre Ruggero, insieme ad un confratello, si vede così affidare una popolazione carceraria da assistere spiritualmente con un incarico che, gli viene ben sottolineato, è da intendersi del tutto temporaneo. Che non sia stato propriamente tale lo dimostra il fatto che padre Ruggero lo svolgerà esattamente per mezzo secolo. Il suo iniziale sconcerto, il suo disorientamento e i suoi timori subiscono un’improvvisa accelerazione quando, appena dieci giorni dopo, gli tocca assistere il suo primo condannato a morte. Si tratta del partigiano Lorenzo Bianciotto fucilato al Martinetto il 25 novembre 1944, seguito da molti altri, settantadue in tutto: prima i partigiani condannati dai fascisti, poi i fascisti condannati dal Tribunale del Popolo, oltre naturalmente i delinquenti comuni. Gli ultimi sono tre degli autori dell’efferata strage di Villarbasse, fucilati alle Basse di Stura il 4 marzo 1947, appena pochi mesi prima che la Costituzione abolisse in Italia la pena capitale. Il suo crocifisso, che il partigiano Bianciotto aveva imporporato con il suo sangue, conosce infatti altri partigiani fucilati davanti a padre Ruggero: il generale Perotti, Eusebio Giambone, Paolo Braccini e gli altri componenti della direzione militare della Resistenza torinese giustiziati al Martinetto il 5 aprile del ’44 dopo un finto processo, ma successivamente anche i terroristi, rossi e neri: “Per me sono solo uomini, le anime non hanno colore”, ripete il frate. Parla a lungo con Curcio e con Edgardo Sogno, incrocia Adriano Sofri e converte Silvano Girotto, più conosciuto in seguito come “frate mitra”. Per essere più a contatto con i “suoi” carcerati, dato che dorme appena tre ore per notte e tutto il suo tempo lo dedica a loro, si trasferisce a Le Nuove anche come abitazione, dormendo in una cella del tutto simile alle altre, nel braccio del carcere meno affollato. Affascinato dal Cafasso (che aveva svolto il suo stesso ministero), copia da don Bosco alcuni elementi del suo “sistema preventivo”, in primo luogo la ricreazione, dando vita ad animatissimi tornei sportivi perché nel sano agonismo i detenuti possano scaricare le loro energie che diversamente potrebbero degenerare in violenza, e in secondo luogo l’attività lavorativa, aprendo laboratori di ebanisteria, falegnameria e sartoria. Pur essendo praticamente vissuto ininterrottamente per 50 anni al “fresco”, ma come cappellano, arriva per lui, nel 1988, anche la triste esperienza della detenzione, con l’accusa di aver fatto da tramite con “imputati eccellenti”, dalla quale viene poi completamente scagionato. Convinto di avere nei suoi tanti “condannati a morte” una schiera di potenti intercessori, non solo gli riesce di svolgere fino al 1994 il suo ministero carcerario, ma di conservare un’invidiabile lucidità fino ai 94 anni, diventando prezioso testimone e annunciatore della misericordia divina. Muore il 1° dicembre 2006, alla vigilia del suo 95° compleanno, ma la sua memoria sembra più viva che mai.
Autore: Gianpiero Pettiti
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