«No alla carità, sì alla rivoluzione»: il messaggio trovato sul cadavere di Giulio Rocca, trentenne di Sondrio, è la sua sentenza di morte. Cronaca di una morte annunciata, dice qualcuno, perché da tempo lo si sa nel mirino di chi pensa che ai poveri non deve esser fatta la carità, perché così sono più arrabbiati per fare la rivoluzione.
Nasce nel 1962 in Valtellina, a Isolaccia Valdidentro, da una famiglia umile e molto religiosa, dalla quale si discosta fin da giovanissimo per la sua tendenza al bere e a far la bella vita. Più per voglia di nuove amicizie che per motivazioni condivise, a 16 anni partecipa ad un campo di lavoro organizzato dall’Operazione Mato Grosso e, poiché da cosa nasce cosa, entra addirittura a farne parte.
L’iniziativa è organizzata dal salesiano don Ugo De Censi, che propone ai giovani esperienze in Brasile di servizio e di condivisione con i più poveri, sostenute in Italia con il lavoro e la raccolta di rottami da rivendere per ricavare fondi. Va così a finire che anche Giulio, diplomatosi in Agraria, parte per il Brasile e gli bastano quattro mesi per fargli scegliere definitivamente i poveri.
Tornato nel 1985, riparte nel 1988, questa volta per il Perù, destinazione Chacas. Lavora nel «Taller don Bosco», il laboratorio in cui i ragazzi lavorano il legno e che sembra fatto apposta per lui, abituato a casa a bazzicare in un analogo laboratorio di suo fratello.
Partito ateo, così si autodefinisce, o almeno fortemente critico verso i preti e la Chiesa in generale, «scoprii, poco alla volta, altri valori che per me ora sono fondamentali, come il lavoro, il sacrificio, la ricerca di un senso vero per vivere e, in quest’ultimo anno, i valori religiosi», come scrive lui stesso.
Inutile chiedersi cosa realmente sia successo, semplicemente si può dedurre, com’è stato scritto, che per lui «l’amicizia nata sporcandosi le mani nei campi di lavoro; la provocazione di preti come P. Ugo; la condivisione con la fatica degli ultimi della terra, sono state il passaporto per incontrare il Cristo».
Per questo, alla vigilia della morte, può scrivere che «a trent’anni mi sembra che nulla abbia più valore che seguire Gesù, lo desidero tanto per riempire il vuoto che è rimasto in me but¬tando via tutto ciò che è inutile».
Va ad abitare nella casa parrocchiale di Jangas, 200 anime sulla cordigliera peruviana, con l’incarico, tra l’altro, di smistare gli aiuti che arrivano alla missione e di fare la giornaliera provvista di viveri al mercato di Huarez. Si distingue per il suo inseparabile cappello, i suoi jeans abbastanza frusti e i tipici sandali dei contadini delle Ande: francescanamente povero perché ormai ha fatto la scelta di «dare via», che è poi il messaggio dell’Operazione Mato Grosso.
«Dare via, dare ai poveri, aiutare gli altri, dando prima le nostre cose e il nostro tempo, poi sempre di più, fino a dare tutto, ma proprio tutto, fino a darsi completamente. Che vuol dire lasciarsi mettere in Croce». Lo scrive ad agosto 1992, quando ormai i suoi giorni si sono fatti brevi, anche se lui non lo sa.
È un anno importante nella sua vita, il 1992: il 23 giugno, dopo parecchio tempo che non si accosta ai sacramenti, chiede a padre Ugo di accompagnarlo in un cammino di vera conversione; a inizio settembre partecipa ad un ritiro, predicato da quest’ultimo, per chi ha intenzione di entrare in seminario; a fine mese, poi, ufficializza con una lettera al vescovo di Huarez la sua intenzione di voler essere prete, chiedendogli consiglio.
Ed è importante anche per i rivoluzionari di Sendero Luminoso, che si accorgono della sua presenza, perché troppo incisiva e, di conseguenza, scomoda. In pochi mesi lo vanno a trovare quattro volte, sempre ripetendogli come un ritornello: «Voi siete contro la rivoluzione, la vostra religione è l’oppio dei popoli», oppure anche «Con la carità che fate siete un freno alla nostra rivoluzione”. Una volta dice loro in faccia, apertamente: «Noi siamo contro la violenza, sia che venga da voi o dalla polizia. Perciò, quando entrate in questa casa le armi non le vogliamo vedere…».
L’ultima volta, la sera del 1° ottobre 1992, entrano senza bussare, ovviamente con le armi in pugno e prelevano Giulio, che è ritrovato cadavere alcune ore dopo, crivellato di colpi. Nel foglietto che gli trovano in tasca, macchiato di sangue, ha scritto a caratteri cubitali, in stampatello, la parola «Jesus» e accanto la lista della spesa del giorno dopo: 4 uova, 10 cipolle, 20 zucche…, «una specie di sintesi della sua vita: l’amore per Cristo e la concretezza dell’amore per i poveri».
Autore: Gianpiero Pettiti
Vent'anni fa, alcuni militanti dell’organizzazione terroristica “Sendero Luminoso” uccidevano in Perù il mio amico Giulio Rocca, ragazzo della mia età con cui ero cresciuto, avevo fatto le scuole e di cui ero molto amico. Era il primo ottobre 1992, Giulio aveva da poco compiuto i 30 anni ed era missionario in questa terra latinoamericana, volontario dell’OMG (Operazione Mato Grosso) guidata e animata dal P. Ugo De Censi. Il suo corpo fu ritrovato con una scritta: “No alla carità, sì alla rivoluzione”: assurda pensiero che ai poveri non andrebbe fatta la carità, perché così sarebbero più arrabbiati per fare la rivoluzione.
Giulio si era incontrato altre volte con questi terroristi che cercavano di “catechizzare” i volontari secondo le loro logiche, e aveva sempre risposto loro di non riuscire ad accettare questa squalificazione della carità e questa violenza della rivoluzione.
Da subito in Perù Giulio è stato ricordato come un martire della carità e ancora oggi, dopo vent’anni, in tutte le case delle “spedizioni” OMG si prega Giulio martire della carità, anche se la Chiesa non lo ha ancora riconosciuto ufficialmente. Nel taschino della sua camicia, macchiato con il suo sangue, fu trovato un piccolo biglietto ripiegato dove da una parte aveva annotato le varie spese che doveva fare, essendo lui l’economo delle varie spedizioni, e dall’altra - con lettere grandi e precise - aveva scritto il nome “JESUS”. Questo è il suo semplice, ma chiaro, testamento: il nome di Gesù, l’incontro vero con Lui a cui si dà testimonianza facendo la carità concreta e quotidiana, spendendosi per gli altri... fino a dare tutto, fino a perdere la vita.
Se penso alla vita di Giulio questo “perdere” è stato concreto fin dall’inizio: perdere il tempo andando ai campi di lavoro; perdere i soldi per autotassarsi, pagare il furgone, benzina e assicurazione e i viveri dei campi; perdere il lavoro, lasciare un'occupazione sicura per andare a vivere in missione; perdere, lasciare le persone, i familiari e gli amici, per aiutare i poveri; poi lasciare Noce, l’amore della sua vita; un distacco questo più intimo e faticoso, per lasciarla libera di scegliere il suo cammino. Tutto è stato un lasciare, un perdere, un donare, fino a consegnare la sua vita nelle mani di P. Ugo per scegliere il seminario e fino a lasciare la sua vita nelle mani dei terroristi.
E’ bello per me pensare Giulio ancora presente, ancora in mezzo a noi, come un esempio chiaro da guardare; come un ragazzo tra i ragazzi che in silenzio, come era nel suo carattere, con la sua vita ci dice: “C’è un solo cammino. E’ il cammino del perdere... fino a perdere la vita”.
Nel ricordo di questo mio caro amico e per poter celebrare l’anniversario del ventesimo della sua morte proprio nel luogo dove ha vissuto e dove è stato ucciso, ho accettato l’invito che p. Ugo mi ha fatto di andare in Perù, in estate, a sostituire p. Andrea come parroco nella parrocchia di Ticllos, un paesino sulla sierra andina a 3800 metri di altezza, quasi appiccicato in cima ad una montagna. Per raggiungerlo c’è da percorrere una strada che fa venire i brividi. Il paesino non è molto grande, ma annessi, anche a molte ore di cammino a piedi, ci sono diversi “caserios” nei quali il prete riesce ad andare solo poche volte all’anno.
E’ stato bello poter condividere questi mesi con i poveri, vivendo un semplice servizio di animazione e di presenza. E’ stato bello poter condividere con un ragazzo di città di Castello e con una bella famigliola di Cittadella, con 3 bimbi piccoli, la vita della parrocchia con i suoi vari impegni e soprattutto condividere questo grande ideale di dare la vita nel nome di Gesù. Con Adele e Albertina, compaesane e amiche di Giulio ormai stabili in missione, abbiamo messo in piedi un recital in ricordo di Giulio che abbiamo rappresentato a Jangas, il paese dove è morto, la vigilia del suo anniversario.
La gente nella sua povertà vissuta con dignità e i tanti giovani italiani e peruviani che stanno condividendo ideali grandi sono le cose più significative che ho incontrato in questo tempo. Porto con me la bellezza e l’importanza del servizio ai poveri e della condivisione della vita, come strumenti e strade per essere più pienamente uomini che desiderano la verità, la bontà e la bellezza; porto l’immagine dei volti e delle mani giunte dei bambini, capaci di guardare in alto e di pregare con semplicità e fiducia; porto la freschezza di tanti giovani pieni di slancio per aver scoperto qualcosa di grande per cui vale la pena cambiare vita. Porto la memoria del mio amico Giulio ancora più vivida e chiara come esempio per una vita donata e consegnata fino alla fine. “Ogni giorno – scriveva Giulio in una sua lettera - ripetere 'sì' senza fermarsi alle menate che distraggono; è un continuo ricercare dentro la nostra vita cos’è la cosa più importante per la quale bisogna dare tutto”.
Autore: Padre Claudio Martinelli
Fonte:
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www.vitatrentina.it
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Note:
Per approfondire: “Giulio martire della carità. Giulio Rocca volontario dell'operazione Mato Grosso”, LDC, 1993
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