Curitiba, Brasile, 29 giugno 1906 – San Paolo, Brasile, 7 maggio 1963
Maria Concetta Farani, figlia del vice-console per l’Italia in Brasile, assistette al rovescio finanziario della sua famiglia, iniziato con la morte del padre e proseguito con la spoliazione dei beni ad opera di due zii. Contrariamente a suo fratello e a sua madre, si offrì di perdonarli. Riconosciuta la vocazione religiosa, scelse di consacrarsi a Dio tra le Suore Passioniste di San Paolo della Croce, col nome di suor Antonietta di San Michele Arcangelo. Ebbe incarichi di responsabilità all’interno della congregazione, ma soprattutto svolse il suo apostolato tra i malati, i moribondi e i carcerati. Colpita da un tumore al cervello, che la rese cieca e paralizzata, morì il 7 maggio 1963. La sua causa di beatificazione si è svolta nella diocesi di San Paolo in Brasile dal 31 luglio 1982 al 26 dicembre 1985. Il decreto con cui è stata dichiarata Venerabile porta la data del 13 giugno 1992.
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A cambiare la sua vita è stato il perdono: difficile, sofferto e contrastato, ma generoso ed eroico.
Papà in Brasile ha fatto fortuna, quella che cercava partendo da Sapri (Salerno): grazie ad un avviatissimo commercio di tessuti, è diventato proprietario di terreni e fabbricati e, soprattutto, si è guadagnato stima e rispetto, tanto da essere nominato vice-console per l'Italia a Curitiba, capoluogo dello stato del Paranà. Lì è stato raggiunto dalla moglie Raffaela che gli dà tre figlie e un figlio.
Il rovescio di fortuna arriva improvviso: inizia con l’improvvisa morte di papà, a causa di una polmonite fulminante, e prosegue con la spogliazione completa di tutti i loro beni, che finiscono nella disponibilità degli zii Angelica e Nicolino.
Questi parenti ingordi sono capaci di farsi aiutare da avvocati corrotti a falsificare firme e documenti per dimostrare a carico del defunto un presunto fallimento, per coprire il quale neppure bastano le ingenti proprietà che questi era riuscito ad accumulare.
La vedova, con tre figli ed in attesa del quarto, deve sistemarsi in casa d’affitto, costretta alla fame e neppure in grado di garantire la scuola ai bambini. Inevitabile il risentimento verso i parenti truffatori, tanto che il maschietto confessa candidamente di «voler crescere in fretta per poter un giorno uccidere zio Nicolino», che ha mandato in miseria la sua famiglia.
Per non essere, oltre che mendicante anche madre di un assassino, Raffaella chiede al buon Dio che si riprenda quel figlio prima di vedergli compiere qualche sciocchezza e questi muore infatti nel 1915 per un attacco di difterite acuta.
Un bel giorno zia Angelica si lascia vincere dal rimorso e per farsi perdonare va a bussare a casa della cognata. «Ti perdoni Dio», risponde questa; lei no, ancora non ci riesce, perché troppo grande è stato il torto subito e ancora scottano le umiliazioni che questo ha causato.
La sua primogenita, Maria Concetta, nata nel 1906, osserva e medita, particolarmente colpita che la mamma, pur andando a Messa tutti i giorni e facendo la Comunione, non sia riuscita a perdonare la zia. E dato che per lei è inconcepibile ricevere Gesù e conservare rancore, prende l’iniziativa di andare dalla zia ad offrire il perdono.
A mamma, che non approva il suo gesto, confida la gioia provata nel perdonare e i fatti le daranno ragione, perché quel gesto apre la strada al recupero di almeno parte dell’eredità paterna.
Maria Concetta, nel frattempo, non è stata con le mani in mano: con tanti sacrifici è riuscita a studiare e a diplomarsi maestra ad appena 15 anni, ha insegnato e si è fatta amare dagli alunni e dalle famiglie; ha provato a fare la sarta e si è dimostrata piuttosto capace; soprattutto ha permesso al perdono di mettere radici in lei, ricavandone una pace interiore che prima le era sconosciuta e che fa maturare in lei la vocazione religiosa.
Così, mentre mamma e le sorelle decidono di ritornare in Italia, lei a 20 anni entra in convento per diventare suora passionista. Ovviamente, arrivando da Curitiba, la “città del sorriso”, non può che avere il sorriso sempre stampato in faccia, tanto che qualche consorella la pensa così sorridente perché «non sa cosa sia la sofferenza».
In Congregazione, con il nome di Suor Antonietta le affidano incarichi di responsabilità, da maestra delle Novizie alla direzione della scuola, fino a quello di superiora provinciale, ma è specialista soprattutto nel portar consolazione a quel mondo di povertà che le ruota attorno, malati, carcerati, mendicanti e giovani sbandati.
Le consorelle dicono che «consola per contagio, è l'apostolo dei moribondi», ma lei li assiste anche dopo il trapasso, perché veglia da sola i morti abbandonati sgranando avemarie. «Noi passioniste per fare bene il nostro apostolato dobbiamo essere delle spugne inzuppate nel sangue di Cristo», insegna alle novizie, attingendo sicuramente al suo vissuto.
«Chi vuole ritrovare serenità, gioia, fiducia parli con Suor Antonietta", consigliano le suore e non è che la conferma di quanto lei scrive alle sorelle in Italia: “Credetemi profondamente felice».
Tale si sente anche quando, nei primi mesi del 1963, un cancro al cervello la rende cieca e la immobilizza nel letto, mentre sussurra: «Dio non improvvisa le sue opere, ma le prepara. Mi sento affettuosamente preparata per questo momento che è il riassunto di 36 anni vissuti nell’amore».
La “suora del perdono”, conosciuta anche come la “suora dell’Ave Maria”, muore dolcemente il 7 maggio 1963 esclamando «Signore, ecco la tua ostia». La Chiesa ha riconosciuto l’eroicità delle virtù praticate da suor Antonietta Farani, dichiarandola Venerabile nel 1992.
Autore: Gianpiero Pettiti
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