Raccontano che, il giorno dopo i funerali di Fratel Giovanni, il professore di latino scrisse alla lavagna un versetto del vangelo di Giovanni affinché i suoi alunni di quarta liceo lo traducessero: “Fuit homo missus a Deo, cuius nomen fuit Ioannes”.
Raccontano anche che gli alunni tradussero la frase, più o meno correttamente, in questo modo: “Venne un uomo, mandato da Dio, di nome Giovanni”. Ma un alunno, quello che bistrattava sempre il latino fino allo scherno e all’assurdità – non importava che fosse un testo delle Catilinarie o il De Bello Gallico –, tradusse invece: “Dio mandò, per il nostro bene, Fratel Giovanni”.
E raccontano, infine, che solo questo liceale, questo pessimo latinista, soddisfò completamente il professore. Solo lui ricevette il suo beneplacito prima che questi nascondesse il suo volto tra le mani perché gli alunni, attoniti, non lo vedessero piangere.
Il giorno del suo funerale, un sacerdote tedesco, di passaggio da Aguilar de Campoo, commosso e stupito da quell’aria di immensa tristezza e di profonda ammirazione che pervadeva tutti i presenti, non smetteva di chiedere: “Ma chi era quest’uomo?”. Da allora molti si sono posti questa stessa domanda.
L’esistenza di Fratel Giovanni si svolse in quattro diversi scenari: Sanguinetto, Barza, Roma e Aguilar de Campoo. La sua biografia ha il fascino di ciò che è minuscolo e la statura di ciò che è grande.
La nota biografica che segue vuole essere un breve racconto del viaggio di Fratel Giovanni suddiviso in quattro stagioni.
Da Sanguinetto a Fara Novarese: ci siamo imbattuti nei libri
Nacque settimino il 5 giugno 1913 a Sanguinetto (Verona). Suo padre, Pietro Vaccari, si era sposato in seconde nozze con Carmela Magnani portando con sé cinque figli dal primo matrimonio. Insieme poi avrebbero avuto altri nove rampolli, il maggiore dei quali era Giovanni. Era una famiglia contadina con una fede forte ed integra. La madre, analfabeta, mentre preparava la polenta per la cena, insegnava le preghiere ai suoi figli che, inginocchiati davanti al quadro della Madonna del Carmine, ripetevano con fermezza il Padre Nostro, l’Ave Maria, la Salve Regina.
Divenne chierichetto e poi entrò nell’Azione Cattolica, guadagnandosi così l’affetto del parroco al quale, molto presto, avrebbe confidato il suo desiderio di diventare sacerdote. Ma gli studi furono il suo campo di battaglia e a causa loro avrebbe in seguito conosciuto non poche sconfitte e molti dispiaceri. Fu rifiutato in più di un collegio per via dei voti, che erano decisamente negativi, e ciò lo obbligò a rassegnarsi ad essere uno dei tanti contadini, come suo padre, come suo nonno… Ma niente di tutto questo lo riempiva: né il lavoro dei campi, né le partite a bocce, né l’andare ogni tanto alle feste di paese e nemmeno l’incipiente affetto per una giovane del luogo…
Un giorno, all’uscita da messa, mentre si facevano commenti sulle tensioni esistenti tra l’Azione Cattolica ed i giovani fascisti, uno delle camicie nere, con il volto corrucciato, pretese che gli consegnasse il distintivo dell’Azione Cattolica. Giovanni, per non mettere legna al fuoco, glielo diede. Ma in cuor suo sentì l’amarezza di un piccolo tradimento alla causa della Chiesa. Sebbene il parroco lo tranquillizzò riguardo a quello scrupolo assicurandogli che aveva fatto la cosa giusta per mantenere la pace, il fervente Giovanni non riuscì mai a togliersi dalla testa quell’imbarazzante vigliaccheria.
Insoddisfatto di quella vita, un bel giorno confidò il suo stato d’animo ad una zia che faceva la perpetua, la quale subito comunicò al parroco le inquietudini del nipote. Questi aveva sentito che non molto tempo prima il Seminario di Fara Novarese, dei padri guanelliani, aveva accettato un adulto.
Giovanni aveva già compiuto i 19 anni quando, a metà ottobre del 1933, oltrepassò per la prima volta la soglia del Collegio di Fara Novarese.
Con umiltà e mansuetudine accettò di condividere il banco con ragazzi di parecchi anni più giovani di lui ma che lo superavano in quanto a conoscenze e profitto. Qui, di nuovo, si imbatté nell’insuccesso scolastico, soprattutto nelle lingue classiche, latino e greco, considerate a quell’epoca materie chiave nella formazione seminaristica e persino segno di vocazione religiosa. Gli proposero di diventare fratello e di rinunciare a farsi prete, ma quest’offerta fu vista dal giovane Vaccari come un fallimento. Decise così di ritornare al paese, a casa sua e ai suoi campi. Tuttavia, quando andò a congedarsi dal padre spirituale, questi – che gli voleva bene come non si può non voler bene a una persona buona come lui – gli chiese a bruciapelo “E se andandotene perdessi l’anima?”. Fu un momento decisivo nell’esistenza di Giovanni Vaccari anche se durò appena alcuni secondi. Vinti i suoi desideri e le aspirazioni personali e, forse, persino la ‘logica’ vanità di diventare sacerdote, Giovanni osò solo sussurrare: “Allora rimango”.
E soltanto in quell’istante si rese conto che quelli erano gli ultimi giorni del 1933, Anno Santo, e che aveva supplicato, fino alle lacrime, la Madonna proprio perché, prima che terminasse l’Anno Giubilare, il Signore gli mostrasse qual era la sua volontà. E così era infatti accaduto. Ma le vie del Signore non erano come questo alto e bel giovanotto aveva sperato che fossero.
“Allora rimango”. È forse in queste due parole che si nasconde il segreto di tutta la sua spiritualità: restare sempre ed in ogni circostanza fedele e obbediente alla volontà di Cristo, della sua Chiesa e della sua Congregazione, nonostante l’io ed i folli piani che si agitano in testa.
A Barza: Dio si aggira tra le pendole
Dal 1934 al 1950 lavorò come cuoco a Barza. Egli, che aveva desiderato ardentemente diventare sacerdote, doveva cercare il cibo e preparare i pasti per i futuri sacerdoti guanelliani. Non occupava uno dei banchi sognati, né vestiva l’agognata veste talare, né si muoveva tra sagaci trattati di filosofia e teologia. Egli, paradosso della vita, era il servitore dei futuri sacerdoti.
Routine insulsa, grezza quotidianità, orario reprimente. Accendere il fornello, pelare patate, preparare lo stufato, pulire paioli, servire i pasti, allungare la zuppa, lavare i piatti, scopare, pulire, scottarsi le mani, bruciarsi le ciglia. Un seminarista confesserà: “Le polpette di Fratel Giovanni diventarono famose. Tutti sapevamo che erano polpette, ma nessuno sapeva di che cosa erano fatte”. Usciva con la bicicletta per andare nei campi vicini in cerca di cavoli, verze, patate, aglio, cipolle, carote. E chiedeva qualche patata o qualche verza in regalo perché i “seminaristi muoiono di fame”. Lavoro nascosto e logorante che richiedeva indicibili sacrifici, ma anche ingegno per riempire, in quegli anni di guerra e dopoguerra, di penuria e ristrettezze, i quasi duecento piatti del seminario. In più di un’occasione dovette prendere il treno e presentarsi nella vicina Svizzera per comprare legumi di contrabbando. E in più di un’occasione il controllore del treno dovette chiudere un occhio e suggerirgli: “Chiuda meglio quel cesto, buon frate, che si vedono i fagioli”.
La sua statura morale venne presto apprezzata dai giovani seminaristi e dai parrocchiani della frazione di Monteggia, consolati in molte circostanze e sostenuti nella fede e nella preghiera da questo ‘sacerdote mancato’ che tuttavia consideravano ‘il nostro parroco’. “Arrivava nelle nostre case e subito ci faceva pregare, con un’Ave Maria o un Gloria. Si interessava della famiglia, di com’era la nostra situazione economica. In più di un’occasione si recò presso le piccole fabbriche dei paesi vicini in cerca di lavoro per qualcuno che era rimasto disoccupato”. “Quest’uomo aveva qualcosa di speciale e questo ci impediva di negargli ciò che chiedeva, sia quando ci esortava ad una vita più retta che quando si trattava semplicemente di dargli alcune patate per i suoi seminaristi”.
All’altare della cucina seppe presentare a Dio tegami e padelle con la stessa venerazione con cui, se fosse stato sacerdote, avrebbe alzato calici e patene.
A Barza esiste ancora la Via Crucis che corre attraverso il giardino della Casa Don Guanella. Fu un’idea sua e quasi tutti gli abitanti del luogo risposero con elemosine o dando una mano personalmente per innalzare le croci e le piccole cappelle.
A Roma: penitenza a palazzo
Ma le vie del Signore sono imperscrutabili. All’inizio dell’autunno del 1950 una chiamata del Superiore Generale gli ordina di presentarsi a Roma “perché lì sarà il tuo nuovo posto di lavoro”. Fratel Giovanni si rallegra. Roma è Roma, dopotutto. Lì c’è il Papa, lì c’è San Pietro, lì si celebrerà il primo novembre la proclamazione del dogma dell’Assunzione. Lo manderanno nella cucina del ricovero o gli chiederanno di curare i disabili? Forse gli diranno di dare una mano nella sacrestia della parrocchia del Trionfale. Tutta Monteggia piange la sua partenza. E gli umili parrocchiani sentono che gli stanno rubando il ‘loro parroco’. Egli li consola nel momento dell’addio e assicura loro che non li dimenticherà mai. Compirà letteralmente la promessa.
Arriva nella città eterna. Ha appena il tempo di intravedere la sagoma incomparabile di San Pietro quando il superiore gli annuncia che il suo nuovo posto sarà al Palazzo della Cancelleria, come domestico del cardinale Clemente Micara, vicario del Papa per la città di Roma. Un onore o un onere? Giovanni sentì soltanto la consapevolezza dei propri limiti e della propria ignoranza.
In meno di 24 ore Giovanni Vaccari era passato dalle capanne ai palazzi, ma non per questo si era sentito onorato.
Arrivò il giorno della proclamazione del dogma dell’Assunzione. Fratel Giovanni sperava, pieno di esultanza, di potersi unire alle migliaia di fedeli che si trovavano già in Piazza San Pietro. Il cardinale, vestito in pompa magna, si rivolse a lui, che, vicino alla porta, era già pronto per uscire: “Mentre io vado in Vaticano, pulisca per favore queste stanze. Quando rientrerò a casa, vorrò che tutto sia a posto e pulito”. Rispose: “Sì, Eminenza”. E quando la porta si chiuse davanti al suo naso, scoppiò a piangere. Il pianto durò alcuni minuti. Poi: “Lo ha voluto la Madonna; sia benedetta la Madonna”. E continuò a ripetere questa giaculatoria tra le scope, gli spazzoloni, gli stracci della polvere e i piumini. Il palazzo della Cancelleria e le sue dimore sfarzose contrastavano infinitamente con l’austerità e la povertà della cucina di Barza e con l’austerità di quella dimora che lo stesso Fratel Giovanni costruiva giorno dopo giorno nel suo intimo. E persino il cardinale, forse più abituato ai modi aristocratici che all’aristocrazia dello spirito, trovò che Fratel Giovanni non era adatto per quel ruolo, in mezzo a tanto protocollo e tante raffinatezze. E lo licenziò. Subito, però, sentì la sua mancanza e reclamò nuovamente la sua presenza a palazzo. Ed il buon Giovanni, che in tutto vedeva la mano di Dio che a volte colpisce e a volte accarezza, obbedì di nuovo, nonostante la vergognosa umiliazione del licenziamento. Il cardinale, esigente e altezzoso, mise alla prova Giovanni Vaccari come si prova l’oro con il fuoco. Sono questi gli strumenti che la Provvidenza usa per rendere eccellenti le persone buone.
In quegli anni varcarono la soglia del Palazzo della Cancelleria vescovi e cardinali di mezzo mondo, ma anche politici potenti, uomini di cultura influenti, diplomatici astuti. Ed il domestico del cardinale seppe intrattenere rapporti con tutti loro con quell’eleganza che viene dal buon senso, con quel saper comportarsi che è frutto della discrezione e con quell’aristocrazia che solo l’umiltà e la bontà conferiscono. Lo stesso Paolo VI visitò in tre occasioni il Palazzo della Cancelleria ed il buon Fratel Giovanni s’inginocchiò davanti a lui supplicando una benedizione per la Congregazione: “Ah, lei è di Don Guanella, volentieri, volentieri vi benedico”.
Ma il cardinale Micara non fu insensibile a questa presenza, silenziosa ed efficace come la pioggia leggera. Egli stesso confesserà al Superiore Generale dei guanelliani: “Sono stato testimone dei miracoli che questo buon fratello ha compiuto in questo palazzo. Miscredenti e persone dal comportamento dissoluto sono ritornate alla Chiesa e ad una condotta irreprensibile dopo aver avuto a che fare con Giovanni”.
Rimase accanto al cardinale nel bene e nel male: nelle cerimonie solenni, nei grandi ricevimenti, durante gli eventi storici (le celebrazioni regie di Brussel nel 1958 ed i conclavi che elessero Giovanni XXIII e Paolo VI), ma anche nel periodo degli acciacchi, della lunga malattia e degli umilianti bisogni fisiologici. Durante l’agonia e nel momento della morte. Ricordò, con umile e caritatevole verità, a questo Principe della Chiesa che nulla del ricco palazzo si sarebbe portato nell’altro mondo una volta chiusi gli occhi: né la mitra incastonata di pietre preziose, né il pastorale d’oro, né i quadri, né gli arazzi e nemmeno gli applausi ricevuti, le congratulazioni, le lodi o gli encomi. “Aiutami a ben morire, Giovanni”, gli ripeteva spesso il cardinale. Ed egli lo fece, lo fece bene, per obbedienza e per amore. Lo aiutò a morire come un buon cristiano, pentito di quel mondano rumore e di quell’atmosfera cortigiana nella quale aveva trascorso parte della sua vita. Il cardinale Micara gli aveva fatto promettere che avrebbe pregato per lui. Ed egli mantenne la promessa alla lettera, dal giorno in cui depose i suoi resti mortali nella Chiesa di Santa Maria sopra Minerva, nella città eterna.
Ad Aguilar de Campoo: infiniti campi sotto un cielo infinito
La morte del cardinale coincise con l’arrivo in Spagna della Congregazione guanelliana. Era il 1965 e a Giovanni venne proposto di venire in questa terra, come animatore vocazionale del Collegio San José di Aguilar de Campoo. Non conosceva né la lingua, né la storia, né l’idiosincrasia di questo popolo, ma di nuovo obbedì. E dopo gli anni romani di etichetta e sfarzi, dopo tanti viaggi, Giovanni, alla fine della sua vita, poté rivivere le inquietudini vocazionali e gli aneliti apostolici della sua prima giovinezza. Ed in terra di Castiglia fu ‘come un sacerdote’, a cominciare dall’abito. In Spagna, infatti, adottò la veste talare, che era anche l’abito dei fratelli (e non solo dei preti, come avveniva invece in Italia) e si lanciò per quelle strade piene di buche di una Spagna povera in cerca di seminaristi. Percorse Palencia, Valladolid, Burgos, León, Biscaglia, Santander e le Asturie. Di scuola in scuola e di parrocchia in parrocchia seppe guadagnarsi la fiducia di un buon numero di ragazzi per il suo Collegio San José. Per loro diventava comico e prestigiatore. La sua bontà e la sua allegria contagiavano tutti. Esprimeva con gli occhi, con le mani e con un sorriso da bambino ciò che gli negavano le poche parole spagnole che allora conosceva.
Erano gli anni del postconcilio. E la tensione tra il vecchio e il nuovo era vissuta in ogni sfera della vita e in ogni realtà, incluso il Collegio San José. Ancorarsi e arroccarsi in eterno così come eterno è il vangelo o rinnovarsi e prendere aria nuova così come nuova è la parola di Dio?
In mezzo alla burrasca, Fratel Giovanni si sentì come quel giocatore che ogni squadra vorrebbe con sé perché è promessa di vittoria. Estraneo alle voci delle sirene, seppe parlare all’ala conservatrice, con chiarezza e carità, della necessità di rinnovamento nello stesso momento in cui diceva, in modo categorico e con identica chiarezza, all’ala innovatrice: “io obbedirò sempre ai miei superiori”.
Seguì letteralmente il motto del Fondatore: “Pregare e patire”. Si alzava all’alba per pregare, poi usciva a curare l’orto e gli alberi da frutto e ritornava per riunirsi con il resto della comunità e recitare le lodi. Suor Clelia e suor Antonina conoscevano bene questi sacrifici, questa vita di preghiere notturne e di mortificazioni corporali con il cilicio. Ma la sua mortificazione più vera e profonda era quella dose di sofferenza che innegabilmente deve sopportare chi decide di fare della propria esistenza un servizio al fratello attraverso l’abnegazione ed il sacrificio di sé. E la preghiera era per lui quel filo che collega poco a poco e sempre di più le creature al loro Creatore.
E tuttavia – e forse è questo il tratto che più lo definisce e che più colpiva quanti lo conoscevano – Fratel Giovanni mostrava sempre un’espressione sorridente e da lui traspariva un’allegria che trasformava in festa il solo fatto di essere al suo fianco. Il suo volto si accendeva, il suo sguardo si illuminava quando, alla fine di ogni giornata, rivolgeva “il pensierino della buona notte” ai suoi seminaristi e parlava loro con passione e con gioia dell’allegria di voler bene a Gesù, a Maria e a Giuseppe.
La Santa Eucaristia, la Vergine Santissima e San Giuseppe costituivano il cuore della sua pietà religiosa e della sua devozione. I suoi scritti spirituali sono la prova che la sua vita era una preghiera permanente, ripetuta, quasi monotona, di supplica e di ringraziamento. Una conversazione fiduciosa tra un bambino e suo padre, i quali non si stancano mai di dirsi che si vogliono bene. Ed il bambino, dal canto suo, non si stanca mai di chiedere aiuto al padre affinché possa cavarsela bene in tutte le difficoltà della vita.
“Viveva di preghiera” e da tempo il suo mondo interiore girava intorno al pensiero della morte. Moriva perché non moriva. Sapeva che tutto ciò che occorreva fare in questa vita era raggiungere l’altra con le valigie cariche di buone opere. Ma lontano dal continuo lamentarsi per i mali del mondo e ancor più lontano dall’escapismo che conduce alla fuga dai problemi, il buon Fratel Giovanni vedeva in tutto un’opportunità per fare il bene, per conquistare meriti agli occhi di Dio e per rendere la vita più facile a coloro che lo circondavano. Da ciò derivano la sua azione benefica e la sua allegria.
L’Opera don Guanella in Spagna si consolidava, il Collegio San José di Aguilar si riempiva di aspiranti, il Signore benediceva giorno dopo giorno questo vivaio di vocazioni…
Ma il 9 ottobre 1971, quando ritornava in auto ad Aguilar dopo una giornata di compere a Valladolid e a Palencia insieme a suor Bettina, trovò la morte in un incidente stradale nei pressi di Osorno (Palencia). Consapevole del fatto che era arrivato alla stazione ‘Termini’, come egli era solito dire, ebbe tuttavia il tempo di chiedere la benedizione di un sacerdote e di dargli il numero di telefono del suo collegio. Quindi si mise a mani giunte e iniziò a pregare. Le sue labbra si chiusero mentre recitava l’Ave Maria. Era l’ora dell’Angelus della sera.
Quanti lo conobbero ebbero la convinzione che un uomo inviato da Dio aveva incrociato le loro vite. E proprio per questo nessuno trovò strano che, durante la messa per le esequie, il parroco di Aguilar, don Ciriaco Pérez, proclamasse con solennità e senza titubanza: “Oggi è morto un santo!”.
Il feretro avanza già solennemente sotto la volta gotica della Collegiata di Aguilar de Campoo, nel silenzio delle lacrime dense di alcuni e nel canto rotto e pieno di fede di altri. Il corteo funebre prosegue lungo la piazza e fin lì arriva il canto del “Risuscitò” che è insieme certezza e sfida:
La morte, dov’è la morte?
Dov’è la mia morte?
Dov’è la sua vittoria?
Risuscitò, risuscitò, risuscitò!
Alleluia!
Autore: Juan Bautista Aguado Tordable
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