Trent’anni fa tornava alla casa del Padre Vittorio Pastori, soprannominato don Vittorione per la sua immensa mole, e non solo fisica. Era un ristoratore di successo che abbandonò cucchiaio, coltello e forchetta per imbarcarsi con destinazione Uganda contro la siccità. Chiamato a dare da bere agli assetati e da mangiare agli affamati, fu sospinto e guidato dal suo vescovo Enrico Manfredini, che gli disse folgorandolo: “I poveri non possono aspettare. Chi ha fame, ha fame subito”. Persuaso di dover soccorre i bisognosi, il missionario extralarge era conscio che sempre «il Signore ha scelto quelli che gli uomini considerano ignoranti per coprire di vergogna i sapienti. Pensate: io avevo nella mia città natale un meraviglioso ristorante, ero solo un ristoratore. Ha scelto me, ignorante come un bue, per andare nelle vie del mondo per il suo Vangelo». E racconta ancora: «Quando arrivai per la prima volta in Africa, io che mi credevo una persona per bene impegnata nella Chiesa del Signore, compresi che fondamentalmente ero un citrullo e che il mondo aspettava, aspettava noi cristiani. L’evangelizzazione non è mai disgiunta dalla promozione umana: che servirebbe dire ad un infermo piagato, ammalato, affamato, che Gesù è buono? La Carità, l’immediatezza, la concretezza devono sempre essere le nostre prerogative». Del resto, se l’amore è l’essenza del Cristianesimo, «attraverso la Carità conosceranno Gesù». Se ci sono fatti e individui che si rievocano con più facilità, questo immenso presbitero che conobbi da ragazzino mi rimase impresso nel cuore. Schietto, operoso, lombardo o, meglio, varesotto, mai “tirato” nel dare una mano. A Piacenza crea nel 1972 l’associazione Africa Mission e dieci anni dopo costituisce Cooperazione e Sviluppo, ONG-ONLUS (ancora operanti) con cui realizza da subito nuovi pozzi di acqua potabile, riparando quelli già esistenti: «Nel Movimento – riconoscerà sempre il suo fondatore – c’è con evidenza la mano del Signore, altrimenti sarebbe già essiccato». La morte improvvisa di monsignor Manfredini (il 16 dicembre 1983), da poco eletto pastore della diocesi di Bologna, per Vittorio è una dura prova. Tuttavia, predicherà pieno di fiducia in Dio: «Ringrazio il Signore per le mie sofferenze inevitabili; la sofferenza, lo dico a tutte le persone che soffrono, è purificazione. Attraverso la sofferenza ci purifichiamo e ci rendiamo degni di essere Suoi testimoni nel mondo». A pronunciarsi è un uomo che ha convissuto con una malattia che l’ha sformato nel fisico e nell’animo. Non a caso, Giorgio Torelli ha mostrato in parole quale fardello l’evangelizzatore del continente nero si è dovuto trascinare dietro per anni: «L’uomo – ha scritto il columnist con i baffi da reggitore – che avrebbe avuto diritto, per disagio di salute, di sedersi agli angoli delle strade, possibilmente su tre sgabelli, a protestare un obolo e mettersi a traino, ha invece sprigionato clamorosa energia». Quel abnorme «cilicio» – come l’ha definito il giornalista piacentino Sandro Pasquali, intimo di don Pastori – è stato un «supplementare strumento di santificazione personale». Nonostante le fatiche, non mancano lungo la sua esistenza le consolazioni divine: dopo un lungo e a tratti pesante cammino, fatto di incomprensioni e maldicenze, riesce a coronare il suo più profondo desiderio di consacrazione: Vittorio – come scrive Gianni Spartà – «ha vissuto sin da bambino con la chiesa accanto, con l’altare sotto gli occhi, con la voglia di prete nelle vene». Sicché, il 15 settembre 1984 è ordinato sacerdote da monsignor Cipriano Kihangire, vescovo di Gulu. Il sacerdote novello affermerà in un’omelia: «Se potessi morire e resuscitare, chiederei al Signore la stessa gioia, la stessa grazia di farmi ancora suo sacerdote… per dire agli smarriti, agli sfiduciati, ai buggerati, agli emarginati, che il Signore viene per dare speranza a chi speranza non ha più». Nel 1988 incontra il presidente dell’Uganda Yoweri Museveni e Madre Teresa di Calcutta con cui avvia un ponte di solidarietà e a Moroto inaugura la cittadella della carità, ora dedicata alla sua memoria. Don Vittorione era un uomo generoso, pragmatico, genuino che non le mandava a dire a nessuno: «Dobbiamo agire – incentivava i ragazzi accorsi ad ascoltarlo –, dobbiamo farne di passi, altrimenti giovani, lasciatemelo dire, figliole, siamo cristiani di pastafrolla – di pastafrolla! – se le nostre comunità non sanno esprimere con qualcuno di noi mandato laggiù a dare una mano, a combattere la più bella delle pacifiche battaglie per l’Umanità, per quelli che non hanno voce». Egli voleva spronare le nuove generazioni a seguirlo o, meglio, a inseguire dappertutto il messaggio del Vangelo: «Guai a voi, giovani! Guai a voi, se siete attaccati a falsi, ideali, alle gambe di un calciatore, guai a voi; sono ideali fasulli, ideale nobile è la via del sacrificio. Non siate appiccicati alla televisione come un francobollo. Quanto avremmo bisogno i nostri giovani, le nostre figliole, tutti noi, di un digiuno televisivo, avere la capacità di spegnere la televisione su programmi che sono offensivi, in tutto e per tutto. Ah è bello vivere, ma non nella droga, nei vizi… la nostra Italia dove sta andando? Prima il divorzio poi l’aborto, adesso la regolarizzazione della convivenza, non ci si va più neanche a sposare, neanche civilmente, ci si mette insieme così, finché va va. Legalizzare, liberalizzare la droga perché è l’unico modo per combatterla, pensate un po’. Dove andiamo a finire, dove sono i giovani disponibili che hanno il coraggio di dire come Ezechiele, prendi me, prendi me, vengo io insieme a te don Vittorione, non sentirti solo. Non sentirti navigatore solitario, c’è un mondo da fare, tutti dobbiamo essere testimoni delle angherie che gli ultimi subiscono nel mondo. E noi siamo ormai gente asfittica, ferma, che sa di muffa, che non ha idee. Non nell’esteriorità, nella discoteca, nella droga… Siate sempre uniti nel Signore. La via stretta costa, ma sappiate che è la via giusta». Era conscio, inoltre, che molte difficoltà provenivano dall’interno della comunità cristiana: «Viviamo in un mondo di… melma; in momenti di grande confusione! Il demonio lavora, purtroppo, in mezzo ai nostri! Per me, una cosa è certa, l’esistenza del demonio che si insinua anche in mezzo ai buoni!». Dal male solo Dio ci salva mediante la preghiera e i sacramenti che devono incarnarsi nel quotidiano e diventare vita di carità: «Ci sentiamo cristiani – tuonava in una predica – perché veniamo a una straccio di Messa domenicale? Siamo cristiani di pastafrolla! Cristiani all’acqua di rose, se veniamo in chiesa e poi non siamo capaci di spezzare il superfluo con chi è nel bisogno». Il 2 settembre 1994, don Vittorio Pastori muore presso la clinica S. Giacomo di Ponte Dell’Olio dopo una lunga degenza, ma lasciando una ricchissima eredità: «Non ci sentiamo orfani – spiega Carlo Ruspantini, attuale direttore di Africa Mission e Cooperazione e Sviluppo –, perché lui, don Vittorione, è presente non tanto nei ricordi, ma nelle azioni quotidiane. Ci sentiamo piuttosto come nuovi germogli di una pianta antica, consapevoli di poter generare nuovi frutti nella misura in cui sapremo attingere all’energia vitale delle sue radici». Lo stesso bulldozer della carità aveva già assicurato: «Il nostro Movimento è solido! È nelle mani del Signore, credo nella Provvidenza, sono interiormente libero, non vivo con l’affanno, sono un pover’uomo sì, miserabile finché volete voi, peccatore, però interiormente libero, e mi affido ogni giorno, mi tuffo ogni giorno nel Signore dicendo: “Fai Tu quello che vuoi, sia sempre fatta la Tua volontà”, come quando sulla strada di Moroto sono rimasto più ore con la gamba spezzata e nessuno passava… Signore, come allora ancora oggi dico: in Te credo, in Te ho sperato, in Te confido».
Autore: Samuele Pinna
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