Figlio del carrettiere
“…da quel giorno non ebbi più alcun dubbio sulla mia vocazione.”
Don Dino Torreggiani nasce a Masone vicino a Reggio Emilia, il 7 settembre 1905 da famiglia operaia. Il papà Giacomo, di professione carrettiere, e la mamma Caterina profondamente cristiani, sono ambedue vedovi risposati; avranno dieci figli più una trovatella, Rosa, accolta in casa come una vera figlia e amata da tutti. Ogni anno, d’inverno, la famiglia Torreggiani ospita sotto il portico una carovana di zingari: la convivenza non pone problemi… anzi non di rado la convivialità li fa sedere tutti alla stessa mensa. Don Dino è piccolo di statura, ma cresce sano, sereno e studioso: dall’età di otto anni, con le scarpe in spalla per non consumarle, percorre sulla via Emilia 15 Km a piedi ogni giorno, per raggiungere la scuola di via Guasco in città. L’11 giugno 1914, un fatto di sangue sconvolge la vita di famiglia: un cugino paterno, dopo un violento alterco con il parroco di San Bartolomeo di cui è contadino, lo uccide. A quella notizia, mamma Caterina, sconvolta ma lucida, dice al piccolo Dino: “Tu prenderai il suo posto: sarai sacerdote!”. Quella frase segna una svolta nella sua vita: “Da quel giorno, non ebbi più alcun dubbio sulla mia vocazione: le circostanze della vita sono le ancelle della volontà di Dio“.
Giovane seminarista
“Gesù, io non so in che cosa io possa esserti utile. Ma se tu hai bisogno di cemento per costruire la tua casa, polverizza le mie ossa, mescolale con le mie lacrime e il mio sangue e fanne ciò che vuoi…”
Nell’aprile del 1917 Dino entra nel Seminario diocesano, dove si segnala per l’intelligenza viva, il senso del dovere e lo spirito di servizio. Sotto la guida di sapienti maestri, e insieme a compagni di camerata esemplari, come Cesare Bezzecchi, futuro missionario, morto sulle rive del Nilo, Pasquino Borghi, anch’egli missionario in Africa e poi martire della Resistenza, Mario Grazioli, internato più tardi nei campi di concentramento, Umberto Pessina e Carlo Terenziani, uccisi dopo la liberazione, don Dino matura un’idea precisa di sacerdote, uomo “spogliato” come Gesù a Betlemme, uomo “crocifisso” come Gesù sul Calvario, uomo “mangiato” come Gesù nell’Eucaristia. “Il vero discepolo di Gesù Cristo” del Beato Chevrier è e rimane uno dei suoi libri più meditati e condivisi.
Il don Bosco di Reggio
“Non tutto ciò che affascina, santifica. Non tutto ciò che passa per la testa, è vero. Non tutto ciò che è bene per gli altri lo è anche per noi…”
Ordinato sacerdote il 24 marzo del ’28, dopo una breve parentesi come vice-rettore in Seminario (dove introduce il gioco del pallone), don Dino viene nominato assistente dell’Azione Cattolica e responsabile dell’Oratorio cittadino “San Rocco”. Sono centinaia i giovani della città e della periferia di Reggio, — studenti e operai, intellettuali e proletari, nomadi e scarcerati, impiegati e militari, — che frequentano regolarmente il cosiddetto “caravanserraglio di San Rocco”, “l’arca di Noè”, sempre aperta a tutti. La struttura è povera, ma polivalente; la vera ricchezza, oltre al grande cortile, sta nel clima fraterno, nei valori che vi si respirano, soprattutto quelli della povertà evangelica e dell’amicizia. In pieno regime fascista, agli ideali e ai modelli di forza, di sfida e di conquista, proclamati dallo Stato mussoliniano, don Dino con l’aiuto di sacerdoti, di seminaristi e di laici valenti, oppone e propone a tutti la spiritualità della carità e del servizio. Il “baraccone” di San Rocco, vero e proprio contraltare della vicina Opera Nazionale Balilla, diventa in breve tempo una scuola popolare di Vangelo vissuto e di cultura alternativa, un laboratorio di opere di misericordia corporale e spirituale, una “vera università”, come dirà don Dossetti, dove si impara a coniugare vocazione e missione, povertà e servizio, vita interiore e impegno sociale. Per molti Don Dino è il “don Bosco di Reggio”, il prete che sa coinvolgere e valorizzare tutti: decine di sacerdoti, di seminaristi e tantissimi laici, adulti, giovani, ragazzi. Con tutti don Dino è generoso nel dare ed è esigente nel chiedere. Ad alcuni chiede molto, anzi, tutto, proponendo loro la consacrazione totale al Signore con i voti. In San Rocco, come da viva sorgente, scaturiscono istituzioni di ogni genere: dal “Centro Studentesco” e dalla “S. Vincenzo Universitaria” al “ritrovo serale per operai e per militari di leva”, spesso analfabeti, dal “Pensionato Pier Giorgio Frassati” per giovani studenti al “Dormitorio del Bambin Gesù” per adulti in difficoltà o alla deriva, dalla “Casa per esercizi Spirituali don Mario Bertini”, splendida figura di sacerdote reggiano prematuramente scomparso, al “Piccolo Collegio S. Giuseppe”, una specie di pre-Seminario per ragazzi poveri che il Seminario Diocesano non può accogliere per mancanza di mezzi, ma nei quali don Dino vede un germe di vocazione. Sarà San Giuseppe, l’economo della Provvidenza, a pensare a tutti e a tutto. Inoltre, in San Rocco trovano la loro radice comune tre famiglie religiose reggiane, nate ciascuna dalla particolare accentuazione di un aspetto carismatico complementare con gli altri due:
anzitutto il primato dell’iniziativa divina, quindi dell’ascolto della Parola di Dio, sottolineato dalla “Piccola Famiglia dell’Annunziata”, fondata da don Dossetti; poi l’attenzione agli emarginati sociali, abbandonati spesso anche dalla Chiesa, richiamata dalla famiglia dei Servi della Chiesa; infine la carità verso i più deboli per infermità fisica o mentale, proposta dalle Case della Carità, fondate da don Prandi. Una santa amicizia legherà sempre i tre fondatori, cosí come profonda sarà la loro comune venerazione per Madre Giovanna, fondatrice delle Suore del Verbo Incarnato e per P. Ruggero, fondatore delle Suore del Cenacolo Francescano.
Prete delle carovane, dei circhi e dei luna park
“…quell’episodio fu una rivoluzione per la mia anima, una svolta per la mia vita… una vita randagia, libera e felice fra i “donatori della gioia” al popolo”
Un giorno, nel marzo del 1931, alcuni ragazzi dell’Oratorio informano don Dino che nelle vicinanze, al Mercato vecchio, attorno ad una carovana, c’è gente che piange: pare ci sia una donna in fin di vita. É lo stesso don Dino che racconta: “Corsi, senza nulla pensare, soltanto preoccupato di portare i conforti religiosi a quella creatura morente. Fui accolto con tanta cordialità e riconoscenza. Ricordo quel funerale, che fu di edificazione a tutta la parrocchia. Quell’episodio, senza accorgermi, segnava una svolta nella mia vita… Poche settimane dopo, tornai al Mercato vecchio, quasi sospinto da una forza misteriosa. Due carovane e una piccola arena sostituivano la carovana già partita per altro destino. Guardavo incuriosito una donna che stava lavando i panni: “Padre, venga — mi disse — siamo cristiani anche noi”… Verso la Pasqua dello stesso anno, un signore — era il cav. Manfredini — per mezzo di Angelo, un mendicante che con il cane ammaestrato girava per la città e viveva fra le carovane in sosta, mi mandò a chiamare e mi chiese di preparare alla Pasqua ormai vicina i componenti del piccolo Luna Park. Fu una rivoluzione per la mia anima. Incominciai a fare conoscenza con le varie famiglie: scoprivo un nuovo mondo di gente cordiale e amica… Conservo alcune fotografie di quei tempi lontani: sono volti, uomini, episodi che rallegrano la mia anima sacerdotale e la mia vita randagia, libera e felice, fra i “donatori della gioia” al popolo”… Così don Dino realizza un sogno, quello di dedicarsi alle categorie più abbandonate. Era stata quella una delle grazie particolari chieste per iscritto alla Madonna della Ghiara, il 25 marzo del ’28, giorno della sua prima messa. Per decenni quel mondo inesplorato di sinti e rom, di nomadi, di giostrai e di circensi, sarà come la sua nuova grande famiglia. E a chi gli rimprovera la sua amicizia con i ladri di galline, don Dino risponde: “Quando arrivano gli zingari, chiudete i pollai e aprite il cuore“. Nel ’58, nascerà l’OASNI (Opera per l’Assistenza Spirituale ai Nomadi in Italia). Don Dino che per anni ne è stato l’ispiratore e il promotore, ne sarà anche il primo direttore nazionale, di nomina pontificia. L’importanza dell’opera e del compito di don Dino sarà riconosciuta anche dall’Autorità civile che gli consegnerà il “permanente”, cioè il biglietto gratuito stabile sulle Ferrovie dello Stato. Pochi anni dopo, l’OASNI confluirà nella MIGRANTES, l’ufficio pastorale della CEI per fieranti e circensi, da sempre affidato ad un Servo della Chiesa.
Parroco di città, “diocesano” con i voti
“ecco le grazie speciali del mio sacerdozio: praticare i voti religiosi, restando sacerdote diocesano e donarmi alle categorie di persone più abbandonate”
Gli anni ’30–’35 sono per don Dino anni di lavoro intenso, frenetico, ma anche anni di ricerca interiore profonda e sofferta: gli sono vicini sacerdoti e maestri illuminati come Mons. Tondelli, Mons. Tesauri, l’abate Farioli e lo stesso Mons. Spadoni, Vicario generale e insegnante di teologia in seminario, padre spirituale di don Dino e di molti sacerdoti e laici consacrati con i voti nella “Pia Società dei Figli del Divino Amore”. Purtroppo, verso la metà degli anni ’30, mons. Spadoni entra in grave contrasto con il Vescovo Brettoni che percepisce pericoli di modernismo in alcuni punti della sua dottrina spirituale. Alla fine lo Spadoni viene sospeso “a divinis”. È un trauma per l’intera Diocesi. Per Don Dino, in particolare, una durissima prova, “una tragedia”, una vera e propria notte dello spirito: il Vescovo gli chiede di allontanarsi da Spadoni, di abbandonare ogni progetto di consacrazione e di lasciare San Rocco. Con la morte nel cuore, ma con fede, don Dino obbedisce. Più tardi dirà: “mi sono salvato, obbedendo al Vescovo“. E da allora farà della massima di Sant’Ignazio ‘nihil sine episcopo” (nulla senza il Vescovo), il principio base di ogni sua azione ecclesiale. Così dal ’36 al ’45 don Dino è trasferito in Santa Teresa, la parrocchia più povera della città, per questa ragione preferita da don Dino ad altre. Da qui riparte, aprendo la sua casa a tutti, trasformando il piccolo orto della parrocchia in campo da gioco e dedicando particolare attenzione all’Unione Catechisti, un nuovo gruppo di giovani nei quali vede segni chiari di vocazione: tra di loro ci sono Gino Colombo, Alberto Altana, Giuseppe Dossetti, Osvaldo Piacentini e Paolo Cigarini, questi ultimi due futuri pionieri del diaconato permanente. Come parroco don Dino assume, per statuto, anche la direzione del Pio Istituto Artigianelli, fondato da don Zeffirino Iodi per la formazione umana, cristiana e professionale dei ragazzi più poveri della provincia. Gli anni della guerra sono drammatici. L’abnegazione di don Dino e la sua fiducia totale nella Provvidenza di Dio salveranno gli Artigianelli dalla fame e dalla catastrofe. Nel dicembre del ’40 insieme ad Alberto Altana, studente universitario, e al giovane catechista Gino Colombo, gravemente malato, don Dino, con il consenso del Vescovo, emette privatamente i voti di povertà, castità e obbedienza, restando sacerdote diocesano. Era questa l’altra grande grazia chiesta, per iscritto, alla Madonna della Ghiara, il giorno della prima Messa. Gino Colombo, consumato dalla malattia, morirà santamente pochi giorni dopo, offrendo la sua vita per la salvezza dei giovani. In quegli stessi anni don Dino, senza mai chiudersi nei problemi della parrocchia, si interessa alle periferie proletarie di Reggio che visita regolarmente, coinvolgendo i laici nel servizio pastorale, caritativo e sociale, soprattutto al Villaggio Catellani, dove, qualche anno dopo, andrà il giovane don Altana, appena ordinato sacerdote. Ricordando quei tempi così intensi e fecondi, una signora dirà: “Con don Dino noi ci sentivamo esaltati come soggetti ecclesiali”.
Cappellano delle carceri e degli ex-carcerati
“Sì, è vero, a volte avremo mancato di umana prudenza, a volte siamo stati traditi dal furto, dalla calunnia, dall’ingratitudine, ma la carità è tutto, purifica tutto” (novembre 1966)
Finita la grande guerra, nella primavera del ’45, con il consenso del Vescovo, Don Dino rinuncia alla parrocchia per dedicarsi con tutte le forze a quei ragazzi e giovani, generalmente poveri, nei quali riconosce una “chiamata”, un germe di vocazione sicura: saranno i futuri “Servi della Chiesa”. Gli anni in San Rocco e in Santa Teresa hanno fatto di lui un padre spirituale apprezzato da molti sacerdoti, seminaristi e laici. La stagione per una nuova semina sembra matura. Don Dino da tempo prepara il terreno. Lentamente, tra mille difficoltà, ma decisamente, con coraggio, lavora per offrire alla Chiesa e alla società un nuovo “segno”, un servizio particolare, quello di sacerdoti e di laici consacrati con i voti nelle mani del Vescovo. Così inizia a scrivere per loro regolamenti e preghiere e a cercare una casa per riunirli e formarli: dapprima in un’ala semidistrutta dell’ospedale di Reggio, poi nell’ex carcere fascista dei Servi, vicino alla Ghiara, infine a Guastalla, dove nel collegio di San Giuseppe dal ’46 al ’75 una ventina di giovani diventeranno sacerdoti “Servi della Chiesa” e tanti altri formeranno famiglie cristiane e serene. Nel frattempo, nel ’46, Don Dino, che risiede a Reggio in un ala del Convento dei Cappuccini, viene nominato cappellano del carcere di San Tommaso, ufficio che conserverà fino al ’70. Insieme a Don Girelli, sacerdote veronese, e ad altri confratelli reggiani e guastallesi Don Dino visita numerosi penitenziari italiani, realizzando ovunque le missioni popolari per i detenuti, per gli agenti di custodia e per le loro famiglie. L’assistenza spirituale diventerà ben presto anche sostegno per il reinserimento sociale e civile degli ex-detenuti, tornati in libertà dopo molti anni e spesso respinti dalle famiglie e dalla società. Per loro Don Dino aprirà case di accoglienza a Reggio, a Verona, a Perugina, a Baggiovara e a Cognento, in provincia di Modena. Per le sue molteplici attività e opere a favore dei carcerati e degli ex-carcerati, il ministro di Grazia e Giustizia nell’ottobre del ’61 gli consegnerà la medaglia d’argento al merito della redenzione sociale.
Fondatore dei “Servi della Chiesa”
“L’Istituto è opera di Dio, soltanto opera di Dio. È la famiglia attraverso cui arriviamo all’amore di una famiglia più grande, la Diocesi, la Chiesa”.
Nel febbraio del ’47 il Papa Pio XII approva ufficialmente gli Istituti Secolari come vera forma di consacrazione e di santificazione. D’ora in poi i sacerdoti diocesani e i laici potranno rafforzare con i voti il proprio sacerdozio e il battesimo, senza bisogno di entrare in convento o in una congregazione religiosa. I sacerdoti potranno fare i voti restando nel clero della diocesi, e i laici restando nel proprio ambiente di famiglia e di lavoro. È esattamente quanto Don Dino aveva sempre sperato ed è ciò che ha cercato di “seminare” e di far maturare a più riprese, con alterna fortuna, un po’ ovunque. L’anno seguente, il 19 marzo del ’48, festa di San Giuseppe, il nuovo vescovo di Reggio Mons. Socche, con l’approvazione della Santa Sede, riconosce i “Servi della Chiesa” come Istituto Secolare di diritto diocesano. Al momento dell’approvazione l’Istituto è formato da tre soli membri con voti: don Dino, il seminarista Alberto Altana, ed Enzo Bigi, un impiegato laico. Negli anni successivi arriveranno vocazioni dal clero diocesano, come don Reverberi e don Barbieri, altre dal collegio San Giuseppe di Guastalla, dall’Azione Cattolica e dal movimento dei sagrestani, per la cui elevazione spirituale, professionale e sociale don Dino ha profuso molte energie, anche fuori dall’Italia. D’ora in poi l’Istituto, sempre considerato da Don Dino come pura opera di Dio, diventerà come la pupilla dei suoi occhi, sua corona e sua croce: i Servi della Chiesa dovranno essere una famiglia di consacrati degni di servire Cristo e la Chiesa, onorati di condividere il Vangelo e la vita con i più deboli, colpiti da vecchie e nuove povertà. “Io non sono che un povero straccio da lavare i piatti. Per rendere splendente il sacerdozio di Gesù, occorrono dei buoni stracci. I miei fratelli saranno dei poveri stracci, dei buoni stracci“.
Figlio della Provvidenza, amico dei poveri
“Alla Provvidenza non ho bisogno di credere: la vedo e la tocco con mano. Questo è il mio primo portafoglio che ha visto tanti suoi miracoli”.
Per circa un trentennio, dal ’46 fino a metà degli anni ’70, Don Dino libera tutta la sua creatività spirituale e il suo dinamismo apostolico. Da Milano a Trapani, dalla Spagna al Madagascar, “l’avventuriero della carità”, come lo chiamerà mons. Baroni, si fa presente, visita, scrive, istituisce servizi, apre case di accoglienza e centri di formazione, anima congressi, coinvolge vescovi e politici, dirige le coscienze, cerca e orienta le vocazioni… E prega: in macchina, in treno, in carcere, al circo, in cappella davanti al Tabernacolo, in camera da letto nelle lunghe notti insonni… In molti gli chiedono: “ma dove trova tutte quelle idee, tutta quella forza, tutti quei soldi?” Don Dino non ha dubbi: “Tutto nasce dal tabernacolo e dalla croce, tutto passa per le mani di Maria e di san Giuseppe, tutto è dono della Provvidenza di Dio. Basta avere fiducia, amare la povertà e vivere con poveri“. La Casa di Badia Polesine per i bambini sinti, quella di Treviso per i ragazzi dei luna park, quella di Scandicci per gli anziani dei circhi, quelle di Corciano e Baggiovara per gli ex-detenuti, il collegio di Guastalla e la casa di Reggio per i seminaristi… insomma le quindici case o servizi dell’Istituto, in Italia, in Spagna, in Madagascar, abbinati ai quindici misteri del Rosario, sono tutti miracoli della Provvidenza. “Alla Provvidenza io non credo: la vedo e la tocco con mano! Questo è il mio primo portafoglio che ha visto tanti suoi miracoli“.
Precursore del Concilio e testimone inquieto del dopo-Concilio
“Per una Chiesa tutta (totalmente) consacrata, tutta ministeriale tutta missionaria” (dicembre 1979)
Il Concilio Ecumenico Vaticano II è stato la Pentecoste della Chiesa del ventesimo secolo; una Chiesa bisognosa di conversione, di rinnovamento e di coraggio. Don Dino segue il Concilio da vicino, a volte quasi dal di dentro, viste le sue buone relazioni con i prelati e i teologi che incontra a Roma. Ne è entusiasta e commosso, quando sente che il Concilio consacra ciò che lui ha intuito e precorso da tempo, circa la Liturgia, la povertà della Chiesa, il servizio ai poveri, i ministeri, la formazione dei sacerdoti, l’apostolato dei laici. Mostra perplessità e inquietudine quando vede il Concilio staccarsi da certi assoluti dottrinali o istituzionali e prendere il largo verso orizzonti imprevedibili nel campo della ecclesiologia, dell’ecumenismo, della libertà religiosa, del dialogo con le religioni e con il mondo. Rimane sgomento di fronte al cammino dei popoli vittime del diffuso materialismo ateo e amorale, di stampo comunista o capitalista. Don Dino teme per i poveri, sempre più numerosi e indifesi. Teme per l’Istituto, esposto alla cultura dell’effimero. Teme per la Chiesa, che ama e che desidera veder trionfare. Invece il “trionfo della Santa Chiesa”, espressione a lui così cara, viene bandita dai testi conciliari. È un cambiamento di prospettiva, indubbiamente. Don Dino teme che sia il male a trionfare al posto del bene. Gli anni del dopo-Concilio sono per lui un’altra lunga notte dello spirito: gli attacchi alla persona e all’autorità del Papa, la crisi delle vocazioni, la perdita del senso del peccato, l’idolatria del dio quattrino, il rischio di una guerra nucleare lo fanno tremare e lo angosciano. È tentato di rifugiarsi nel passato, di ancorarsi agli antichi splendori del Papato e della civiltà cristiana. Ma non è nella sua natura fuggire all’indietro, lui così abituato a precorrere i tempi… Allora riparte, aggrappandosi con fede ai testi del Concilio e al Magistero di Paolo VI, impegnandosi con tutte le forze soprattutto per il diaconato, il rinnovamento del clero e le missioni, suo vecchio sogno. Questa triplice passione arderà come fuoco fino a consumarlo totalmente, come un olocausto.
Promotore del Diaconato
“Diaconato permanente, antica perla del tesoro della Chiesa… L’altare del sacrificio e la mensa dei poveri sono il centro dell’attività diaconale” (settembre 1964)
La rinascita del Diaconato permanete è un dono dello Spirito fatto alla Chiesa attraverso il Concilio. Al riguardo, si può dire che le intuizioni e le convinzioni di don Dino abbiano preceduto e ispirato la decisione conciliare. Nel settembre del ’64 infatti, alla ripresa del Concilio, don Dino, con l’aiuto di don Dossetti, scrive e fa circolare tra i vescovi un memoriale sul Diaconato che sarà pubblicato da varie riviste e in diverse lingue. Rifacendosi alle proprie e altrui esperienze di servizio caritativo, sociale e liturgico, don Dino sviluppa questa tesi: il Cristo è presente ed è abbandonato nel tabernacolo come nei poveri, e i poveri sono abbandonati nella Chiesa come nella società. C’è un legame inscindibile tra servizio liturgico e servizio sociale, tra la mensa eucaristica e la mensa dei poveri. Il Diacono esprime in modo sacramentale tale connessione e la sua diaconia porterà ad una migliore comprensione dello stesso ministero episcopale e sacerdotale. “Vescovo, presbitero, diacono: ecco la diaconia perfetta! L’attuale esigenza del Diaconato non è dovuta alla scarsità del clero, ma alla riscoperta del mistero di Cristo e del ministero della Chiesa, come Cristo chiamata ad essere povera e serva dell’umanità, per la salvezza di ogni creatura“. Subito dopo il Concilio, a Baggiovara, don Dino tenta di passare all’attuazione, aprendo una prima “Scuola di formazione” per i futuri diaconi. La Conferenza Episcopale Italiana ferma l’iniziativa, ritenendola prematura e inopportuna. Don Dino obbedisce. Baggiovara non sarà dunque una “Scuola di formazione diaconale”, bensì un centro di animazione. Qualche anno dopo, nel ’70, con don Altana, da quel Centro uscirà la “Comunità del diaconato in Italia”, fermento di rinnovamento ecclesiale, in una pastorale di comunione, per una nuova evangelizzazione.
Sognatore delle missioni
“La strada della missione è aperta! Sembra un sogno, e sembra, nello stesso tempo, la cosa più semplice e naturale del mondo” (ottobre 1967)
Dal momento che l’amore è diffusivo e tendenzialmente universale, non può avere preclusioni settoriali nè limiti, neppure di natura geografica. Gli anni del Concilio sono un tempo di grazia anche dal punto di vista missionario. Ma già prima del Concilio don Dino guarda lontano, sognando l’America Latina. La Spagna, dove agli inizi degli anni sessanta apre tre case di formazione, è a suo avviso il trampolino di lancio ideale per la futura missione d’oltreoceano. Invece nel ’67, raccogliendo l’invito del nuovo Vescovo di Reggio , Mons. Baroni, sospende l’idea dell’America Latina e partecipa alla missione diocesana in Madagascar, dapprima con due e poi, progressivamente, con altri cinque Servi della Chiesa. È un’obbedienza feconda per l’Istituto, che a tutt’oggi in Madagascar conta una trentina di consacrati, un terzo dei quali giovani sacerdoti, e che proprio in Madagascar ha visto crescere in modo promettente il ramo femminile e quello degli sposi. La missione in America Latina, propriamente in Brasile e in Cile, si è realizzata dopo la morte di Don Dino, avvenuta nell’83, in terra di Spagna: una morte in missione e per la missione. Tanto più che a partire per il Cile sarà uno spagnolo, Antonio Romeo, dopo trent’anni di servizio Madagascar.
Obbediente ai Vescovi, amico dei Papi
“Lo Spirito santo li ha scelti: Lui ne sa più di noi”
Fin dai tempi del Seminario Don Dino sembra avere chiara un’dea di sacerdozio a quel tempo impensabile o almeno improponibile, quella cioè del sacerdote diocesano consacrato con i voti. Don Dino non vuole essere un religioso, vuole restare diocesano, e vuole fare i voti, nelle mani del Vescovo. È una “grazia” che chiede direttamente alla Madonna della Ghiara il giorno della sua prima messa. Già nei primi anni di sacerdozio, lo si è visto, l’obbedienza al Vescovo Brettoni lo salva dalla crisi spadoniana. Più tardi, l’obbedienza “missionaria” al Vescovo Baroni gli garantisce fecondità per l’Istituto. Don Dino, per fede e per esperienza, vede nel Sacramento del Vescovo la grazia e la garanzia di essere nella volontà di Dio. Di fronte alle inevitabili carenze umane dei singoli Vescovi, Don Dino li difende, anzi difende l’operato di Dio: “Lo Spirito Santo che li ha scelti, la sa più lunga di noi“. Questo comunque non lo esime dall’essere lui stesso con i Vescovi propositivo e perfino ostinato, quando lo esigono la santità della Chiesa e il servizio dei poveri. La stessa cosa, a maggior ragione, vale per i Sommi Pontefici, che conosce e da cui è conosciuto personalmente. Nel ’54 è nominato “cameriere segreto di sua Santità” da Pio XII. Nel ’63 lo stesso onore gli viene conferito da Giovanni XXIII. Don Dino ne è orgoglioso ed è felicissimo di offrire ai Papi un momento di svago attraverso gli artisti del circo, per i quali chiede e ottiene udienze particolari. Ringraziandoli, Papa Giovanni dirà loro: “Io non posso uscire da qui. Venite ancora a trovarmi!”. In precedenza Pio XII aveva così benedetto don Dino: “Faccia di ogni circo una cattedrale”. In effetti saranno tante e sorprendenti le messe celebrate da don Dino nei circhi. Perfino i giornali diedero risalto al battesimo da lui amministrato nella gabbia dei leoni, al circo Orfei, nel marzo del ’57.
Uomo di preghiera, cantore della santità
“Per risorgere dalle macerie, in testa ai tecnici, ai politici, agli economisti, dovranno camminare dei santi, gli unici veri galantuomini” (1944)
Nel testamento spirituale, ritoccato per l’ultima volta nel ’79, quattro anni prima di morire, don Dino afferma di avere sempre posto in cima ai pensieri, alle preghiere e alle azioni di ogni giorno, la pace nel mondo, la santità della Chiesa e la fecondità dell’Istituto. Sul diario, ancora seminarista, aveva lanciato a se stesso questa sfida: “o santo o fallito“. Nel ’77 scrive ad un confratello dell’Istituto: “Sì, è vero, ho fatto molto, tanto, ma non mi sono fatto santo, e questo è meno di zero!” In ogni suo viaggio don Dino, oltre all’Ufficio Divino, porta con sé qualche biografia di santi: “Sono gli unici veri galantuomini!“. I Santi, ecco i suoi confidenti e ispiratori abituali: anzitutto Maria Santissima, madre della Chiesa e Vergine del Rosario di cui è devotissimo, San Giuseppe, patrono ed economo indiscusso dell’Istituto, poi Sant’Ignazio d’Antiochia, il santo del “nihil sine episcopo”, il Beato Chevrier, oggi santo, da cui attinge l’ideale del “prete-uomo spogliato, crocifisso e mangiato”. Infine don Bosco, ispiratore della sua pastorale giovanile, San Vincenzo de’ Paoli, il santo della Carità, san Giuseppe Cafasso, il santo dei carcerati, Santa Caterina da Siena, di cui condivide la passione per la Chiesa e per il Papa… Ma don Dino è anche scrittore e poeta della santità. Volentieri prende la penna e trova il tempo per scrivere piccole ma originali biografie di laici esemplari e sacerdoti contemporanei, conosciuti personalmente. La prima è quella del giovane catechista Gino Colombo, considerato il Domenico Savio dell’Oratorio S. Rocco. Freschi e incisivi sono anche i profili del laico Umberto Lari e di vari sacerdoti reggiani, come don Giuseppe Reverberi, don Zeffirino Iodi, don Carlo Terenziani, don Giuseppe Barbieri, e lo stesso Mons. Socche, vescovo di Reggio Emilia. A queste biografie vanno aggiunti gli scritti pubblicati per promuovere cause di beatificazione, come quella del gitano spagnolo Zefirino Malla, detto “El Pélè”, ucciso in Spagna nel ’36, durante la guerra civile, per aver difeso un sacerdote e per non aver mai voluto separarsi dalla corona del Rosario durante la prigionia. Don Dino è il primo a parlarne al Papa Giovanni Paolo II nel ’79 e a consegnargli lo scritto dal titolo “Uno zingaro con la stoffa di santo”. Papa Woytila lo proclamerà beato il 4 maggio del ’97.
Servo sofferente e offerente
“occorrono preti santi, preti di tabernacolo e di rosario, dalle ginocchia piagate, preti fermentati nel vino della messa, annientati nel sacrificio di Gesù” (1944)
Agli inizi degli anni ’70 don Dino, pensando al futuro dell’Istituto, chiede che altri ne prendano la direzione. Prima don Altana, poi Renato Galleno, infine don Angelo, cercano a fatica di custodirne e attualizzarne l’eredità. Inizia un periodo difficile per don Dino in particolare: pur indebolito nel corpo, reagisce con vigore, a volte con durezza, quando non è ascoltato da chi dirige l’Istituto, o quando vede tradito il carisma originario, di cui si sente ancora l’interprete più autorevole. Risale a quel periodo la sua testimonianza scritta circa una visione chiara e distinta del Sacro Cuore che promette future vocazioni e gli chiede di offrire la vita per l’Istituto. Il 30 agosto dell’83 don Dino, nonostante le forti opposizioni all’interno dell’Istituto e tra i parenti, parte per la Spagna. La salute è precaria: soffre di diabete e ha problemi di cuore. Ma per lui i segni della volontà di Dio ci sono tutti: la benedizione del Vescovo, il consenso del medico e il denaro sufficiente. “Vado in Spagna, se necessario, a morire“, conclude don Dino. La fondazione spagnola è la pupilla dei suoi occhi, il sognato trampolino per l’America Latina. E la situazione stagnante dal punto di vista vocazionale lo tormenta. Don Dino, come fondatore, vuole rilanciare la fondazione spagnola e l’Istituto. Parte convinto di fare la volontà di Dio, pronto ad offrirsi in olocausto, come seme che muore per una nuova fecondità della famiglia dei Servi. Nella casa di Paredes sosta spesso e a lungo davanti al Tabernacolo, prega molto, scrive appunti, sospira e resta come in attesa. Tra le note di quei giorni scrive: “È bello morire stroncati dalla fatica. L’ultimo a tacere sarà forse questo mio cuore sacerdotale“. Nel pomeriggio del 26 settembre, mentre è in visita a Castrejon de la Peña da don José, a oltre 100 km dalla città di Palencia, don Dino è colto da una fatale crisi cardiaca. Il trasporto in ospedale è difficile e tormentoso. Nell’ambulanza soffre moltissimo, prega e chiede a don José ripetutamente l’assoluzione sacramentale. Giunge all’ospedale in condizioni fisiche disperate: nonostante le cure, muore il giorno seguente, nella festa liturgica di San Vincenzo de’ Paoli, padre dei poveri. I funerali saranno celebrati in Duomo a Reggio il 4 ottobre, festa di S. Francesco, il santo della povertà. Attorno al Vescovo Baroni e ai sacerdoti di tutta la Diocesi ci sono tanti poveri: le loro espressioni spontanee di fede e di affetto sono la testimonianza viva di quanto don Dino ha seminato nei loro cuori. Un gruppo di bambini sinti canta nella propria lingua una preghiera di lode a Dio. Don Dino è sepolto a Masone dove i suoi occhi hanno visto la luce del sole e dove il suo corpo attende la risurrezione. “Noi siamo come i ponti levatoi degli antichi castelli: quando tutti sono passati attraverso di noi, ancora solleviamo le braccia per rifugiarci nell’eternità“. In occasione del Centenario della nascita, la famiglia dei Servi della Chiesa, mentre rinnova l’impegno di fedeltà al suo Fondatore, lo presenta a tutti come uomo di Dio, amico dei poveri, vero servo della Chiesa.
Fonte:
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