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Alberto Angelo Lerza Fanciullo

Festa: Testimoni

Torino, 18 gennaio 2016 - Pinerolo, Torino, 24 settembre 2024

Il piccolo Alberto Angelo Lerza, pinerolese, è deceduto a causa di un tumore nel settembre 2024. Papà Federico e mamma Elisa che non erano praticanti, ma l'esperienza con il piccolo Alberto ha cambiato loro la vita. Nella malattia Alberto è sempre stato sereno pur nel dolore e ha accompagnato il papà in un miracoloso cambiamento di vita e a ritrovare la fede e l'amore per Dio. Il vescovo emerito di Pinerolo, Pier Giorgio Debernardi, ha affermato come l'azione dello Spirito Santo fosse evidente nel bambino nella sua maturità, che lo ha reso quasi una guida spirituale per i genitori.



Un Dono Straordinario
Alberto è stato molto più di un figlio per noi: è stato un dono, unico e irripetibile. Quando è nato, ci siamo subito resi conto di quanto fosse speciale. Fin da piccolissimo, mostrava una sensibilità fuori dal comune. Era sempre attento agli altri, gentile, premuroso. Non era un bambino capriccioso, mai una parola fuori posto, mai una ribellione. Ogni volta che gli chiedevo qualcosa, la sua risposta era sempre la stessa: "Come vuoi tu, papà". Era una frase che pronunciava con serenità, senza esitazioni, come se per lui fosse del tutto naturale mettere gli altri prima di sé stesso.
Nonostante la sua giovane età, Alberto sembrava capire profondamente le persone e i loro bisogni. Questa sua capacità di ascolto e di cura per gli altri era evidente in tanti piccoli gesti quotidiani. Se un amico era triste, Alberto lo notava subito e gli stava accanto, offrendo il suo affetto senza aspettarsi nulla in cambio.
Per me e mia moglie, era motivo di grande orgoglio e, allo stesso tempo, ci faceva riflettere. Come poteva un bambino avere già dentro di sé una così grande capacità di amare? Io ero suo padre, ma con il tempo ho iniziato a vedermi più come il suo custode, come qualcuno che aveva il compito di proteggere questa anima così pura e luminosa durante il suo cammino su questa terra.
Ma c'era qualcosa di ancora più straordinario in Alberto: il suo legame con Dio. Anche prima della malattia, si percepiva che la sua fede era autentica, semplice ma profondamente radicata. Amava andare in chiesa, pregare, ascoltare le storie di Gesù. Non erano solo rituali per lui; ogni parola, ogni gesto aveva un significato profondo. E questo sarebbe diventato ancora più evidente quando la malattia avrebbe messo alla prova la nostra famiglia

Il Venerdì Santo - Un Incontro con Gesù
Il Venerdì Santo del 2024 è stato un giorno che porterò per sempre nel cuore. Quella sera mia moglie ed io portammo Alberto alla Basilica di San Maurizio a Pinerolo, dove il parroco, Don Alex Moreira, aveva organizzato una serata speciale. Nonostante la recente radioterapia, Alberto stava abbastanza bene: riusciva a camminare e, a parte qualche lieve mal di testa, sembrava non avere particolari problemi.
Ci sedemmo nell'ultima fila della chiesa, e da lì osservavamo la scenografia del Getsemani allestita sull'altare. Un'atmosfera solenne e carica di significato, una rappresentazione della notte in cui Gesù pregava, consapevole del suo destino.
Mentre eravamo immersi in quella quiete, notai che Alberto iniziava a comportarsi in modo strano. Si era girato verso il crocifisso e parlava, ma non a noi. Parlava come se vedesse qualcuno, come se ci fosse un'altra presenza accanto a lui. Sorrideva e i suoi occhi brillavano di una luce serena. Io e sua madre ci guardammo, preoccupati. Non capivamo cosa stesse accadendo.
Non potei fare a meno di chiedergli: “Con chi stai parlando, Punu?” (era il soprannome con cui lo chiamavamo). Con la massima tranquillità, quasi come se fosse la cosa più naturale del mondo, Alberto mi rispose: “Con Gesù, papà.
Rimasi senza parole. In quel momento, ogni mia certezza vacillava. Come poteva un bambino di otto anni dire una cosa del genere con una tale serenità? E poi, dopo circa dieci minuti di conversazione con quella presenza invisibile, Alberto si voltò di nuovo verso di me e disse una frase che non dimenticherò mai: “Ricordati, papà, quando tutti ti diranno che è impossibile, allora sarà possibile.”
Non capii subito il significato di quelle parole, ma col tempo, il loro messaggio si sarebbe svelato a me, e avrei compreso che Alberto stava già vedendo molto più di quanto noi potessimo immaginare.

Il Sabato Santo - Il Miracolo della Speranza
Il giorno seguente, Sabato Santo, le cose presero una piega drammatica. Quella mattina, Alberto si sentì male. Aveva forti dolori alla testa e vomitava senza sosta. Preoccupati, lo portammo immediatamente al Regina Margherita, l'ospedale di Torino dove era in cura.
Appena arrivati, i medici lo ricoverarono d'urgenza per un idrocefalo, una grave complicanza legata alla pressione dei fluidi sul cervello. Ci convocarono in una stanza separata e ci diedero la terribile notizia: secondo loro, Alberto non avrebbe superato le 48 ore di vita. La malattia era esplosa in tutta la sua ferocia, e non c’era più nulla da fare.
Quelle parole ci gettarono in un abisso di disperazione. Sentivo il mondo crollarmi addosso. Mi chiedevo come fosse possibile che Alberto, quel piccolo guerriero, fosse giunto alla fine. Ma quando tornai da lui in stanza, nonostante tutto, lo trovai ancora lucido e, incredibilmente, allegro. Giaceva nel letto, ma il suo spirito sembrava invincibile. Mi sedetti accanto a lui e, sopraffatto dall'emozione, iniziai a piangere. Gli dissi che avrei voluto essere io al suo posto, che non potevo sopportare di vederlo soffrire così.
Con una maturità che non avrei mai pensato possibile in un bambino, Alberto mi guardò e mi rispose: “Papà, è la mia strada, non la tua.” Quelle parole mi spezzarono il cuore. Piangevo ancora più forte e, disperato, gli dissi: “Vorrei poterti aiutare, ma non posso fare nulla per te.” E lui, con una calma disarmante, mi disse semplicemente: “Lo so, papà, non ti preoccupare.”
Quel pomeriggio, contro ogni previsione, Alberto si riprese. I medici erano stupiti: non solo era sopravvissuto alle 48 ore critiche, ma i suoi sintomi si erano stabilizzati. Qualche giorno dopo, fu persino dimesso dall’ospedale. Sebbene avesse qualche difficoltà motoria, la sua lucidità e il suo spirito erano intatti.
Quel giorno lasciammo l'ospedale con lui sulla sedia a rotelle, e mentre lo spingevo lungo il corridoio, mi sentii sopraffatto da una rabbia silenziosa. Dissi ad Alberto: “Sono arrabbiato. Nessuno ascolta le mie preghiere. Sembra che il cielo non si preoccupi di noi.” Lui si voltò verso di me con un'espressione seria e arrabbiata, molto più matura di quanto avessi mai visto: “Papà, non dire cavolate! Certo che ti ascoltano!” Rimasi in silenzio, colpito dalla sua convinzione. Anche se in quel momento non riuscivo a comprendere del tutto, sapevo che Alberto era molto più vicino a Dio di quanto io potessi immaginare.

Al Battesimo per Caso
Qualche giorno dopo la sua incredibile ripresa, ci recammo di nuovo alla Basilica di San Maurizio per assistere alla messa. Era una giornata di sole, e ci sembrava quasi che la vita, nonostante tutto, stesse tornando alla normalità. Quel giorno, senza saperlo in anticipo, ci trovammo ad assistere anche a un battesimo.
Durante la cerimonia, notai che Alberto era particolarmente silenzioso. Lo osservavo attentamente e mi accorsi che guardava i genitori del bambino battezzato con un’espressione severa, come se qualcosa lo infastidisse profondamente. Poco dopo, mi si rivolse con tono deciso: “Papà, guarda quelle persone. Sono qui solo per forma, non hanno fede. A loro non importa nulla di Gesù. Dovrebbero vergognarsi.”
Rimasi sorpreso dalle sue parole. Gli chiesi con dolcezza: “Perché dici questo, papino?” Lui mi rispose con la sua solita sicurezza: “Perché è così, papà.” Non potei ribattere. Sapevo che quando Alberto parlava di fede, lo faceva con una chiarezza e una convinzione che io stesso non avevo.
Alla fine della messa, mentre uscivamo dalla chiesa, incrociai per caso la madre del bambino che era stato battezzato. Parlava al telefono e, senza rendersi conto che la stavo ascoltando, disse con tono stizzito: “Che noia, abbiamo dovuto sorbirci tutta la messa! Meno male che è finita!” Quelle parole mi gelarono. Alberto aveva ragione. Non c’era alcuna sincerità in quei genitori, e mi resi conto di quanto la sensibilità spirituale di mio figlio fosse profonda e autentica. Anche in quell’occasione, come tante altre volte, Alberto mi aveva dato una lezione che non avrei mai dimenticato.

La Tetraplegia
Giugno era appena iniziato, e quel mese portò con sé uno dei momenti più difficili della nostra vita. Eravamo a pranzo a casa di mia madre, una domenica come tante altre. Alberto, come spesso accadeva, era sdraiato sul divano. A un certo punto, iniziò a guardare il soffitto con uno sguardo fisso, come se stesse vedendo qualcosa che noi non potevamo percepire.
“Papà, ho visto Gesù. Mi ha detto che tornerò a star bene, ma tu non devi preoccuparti. Ha detto che devi stare tranquillo.” Le sue parole erano così serene che, per un attimo, mi lasciai cullare dall’illusione che tutto potesse davvero andare per il meglio.
Gli chiesi con il cuore pieno di speranza: “Guarirai, Punu?” “Sì, papà, presto guarirò. Non preoccuparti.” Pochi istanti dopo, il suo corpo si immobilizzò. Non riusciva più a muovere le gambe, né le braccia. Fu uno shock terribile. Lo portammo immediatamente in ospedale, dove i medici ci diedero una nuova, devastante diagnosi: tetraplegia. La malattia era progredita e ora lo aveva paralizzato completamente.
Fummo costretti a confrontarci con la dura realtà. Alberto venne ricoverato nuovamente, e passarono giorni di attesa e osservazione. Ma nonostante tutto, il suo spirito rimase inalterato. Durante uno di quei giorni difficili, mi disse qualcosa che mi spezzò il cuore ma al contempo mi riempì di una strana pace: “Papà, tu e mamma dovete pensare a voi due. Io ho Gesù.”
La sua fede, la sua incredibile capacità di fidarsi completamente di Dio, erano la sua forza. Nonostante la paralisi, nonostante la consapevolezza di ciò che stava accadendo al suo corpo, Alberto continuava a vivere con un sorriso, ad amare profondamente e ad affidarsi completamente a Gesù.
Dopo l’ennesima risonanza, i medici ci dissero che non c’era più nulla da fare. Alberto era un malato terminale. Fu dimesso con la consapevolezza che non ci sarebbero state altre speranze terrene per lui. Ma Alberto, anche in quel momento, ci insegnava cosa significasse davvero sperare.

Le Ultime Settimane
Le ultime settimane di vita di Alberto furono straordinarie, non per l’assenza di sofferenza, ma per l’amore che continuava a trasmettere a tutti noi. Era costretto a letto, inchiodato da una tetraplegia che lo rendeva completamente immobile, ma il suo spirito era più vivo che mai. Nessuna delle difficoltà fisiche sembrava poter offuscare il suo cuore e la sua fede. Sorrideva a tutti, perfino agli altri bambini del reparto di malati terminali con i quali era rimasto in contatto telefonico.
Ogni mattina, al nostro risveglio, ci accoglieva con il solito, dolce saluto: “Io sto bene, e tu?” Questa frase, apparentemente semplice, era il segno della sua straordinaria resilienza e del modo in cui, nonostante la gravità della sua malattia, continuava a preoccuparsi degli altri prima di tutto.
A luglio, pochi giorni prima che la situazione precipitasse, mi chiese di organizzare un concerto per i bambini del reparto terminale dell’Ospedale Regina Margherita. Il concerto avrebbe dovuto tenersi il 15 agosto, giorno di Ferragosto, una data importante per Alberto. Non voleva che quei bambini passassero quella giornata da soli, e aveva pensato che la musica li avrebbe potuti rallegrare, così come era sempre stato per lui.
Alberto, prima della malattia, era stato un bravissimo pianista. Anche durante il lungo percorso della malattia, finché le sue mani avevano risposto, aveva continuato a suonare. La musica per lui era stata sempre un rifugio, un modo per esprimere quella parte di sé che le parole non riuscivano a dire.
Con l’aiuto della sua insegnante di pianoforte, riuscimmo a organizzare il concerto. Fu un momento straordinario, un giorno di luce in mezzo a tanto buio, un regalo che Alberto volle fare nonostante tutto. Anche quel giorno, nonostante la sua condizione, ci dimostrò che il suo amore e la sua forza interiore non conoscevano limiti.

Il Primo Coma
Un giorno, all’improvviso, Alberto non si svegliò. Entrò in coma per circa un’ora. Eravamo tutti nel panico, incapaci di comprendere cosa stesse succedendo. Quando si risvegliò, la sua lucidità ci sorprese. “Papà,” mi disse con calma, “sono stato da Gesù. Mi ha detto di tornare indietro.”
Quelle parole mi sconvolsero. Era così sereno, così sicuro. Non sembrava affatto spaventato da quello che gli stava accadendo, anzi, sembrava quasi tranquillo, come se sapesse che il suo tempo sulla terra si stesse avvicinando alla fine.
Alberto mi guardò e aggiunse: “Succederà altre volte, papà, ma tornerò. Ogni tanto devo andare. Stai tranquillo.” Non potevo credere alle sue parole. Era così consapevole di quello che gli stava succedendo, e allo stesso tempo era così sereno nel raccontarmelo. Mi fece capire che, per lui, non c’era paura nella morte, solo una nuova fase da attraversare con la stessa fiducia che aveva avuto nella vita.
Come aveva predetto, quel fenomeno si ripeté altre quattro volte. Ogni volta che si risvegliava, raccontava a sua madre delle sue esperienze, di quello che vedeva, ma non voleva più raccontare nulla a me. Un giorno, sorridendo, mi disse: “Tu racconti tutto a tutti, papà. Sei un pettegolo!” Lo disse con il suo solito sorriso dolce, ma con quel tono severo che usava quando voleva insegnarmi qualcosa.

Il Paradiso come lo Aveva Descritto Lui
Alberto ci raccontava spesso del paradiso, il luogo che vedeva durante i suoi brevi viaggi. Descriveva un luogo bellissimo, pieno di amore. “Papà,” mi diceva, “è un posto dove tutti ballano, ridono, e fanno quello che vogliono. È un posto di nuvole, musica, uccellini e fiumi.”
Questa visione del paradiso ci dava un’immensa pace. Pensare che Alberto fosse destinato a un luogo così sereno e felice alleviava, almeno in parte, il dolore di sapere che non sarebbe più stato con noi su questa terra.

Il Giorno della Morte
Il giorno che Alberto ci lasciò fu uno di quei momenti che restano indelebili nella memoria, come un marchio indelebile nel cuore. Non mi soffermerò sui dettagli di quel giorno, perché ciò che conta è il messaggio che Alberto mi lasciò prima di andare. Ero accanto a lui, cercando di controllare il mio dolore, ma sentivo che stavo per esplodere.
Lui mi guardò con gli occhi stanchi ma pieni di luce, e mi disse: “Papà, siediti, calmati e conta fino a 10.” Io, senza capire cosa stesse succedendo, feci come mi aveva detto. Mentre contavo, sentivo che qualcosa di profondo stava accadendo. Poi, con una voce ormai debole ma ferma, mi disse: “Lasciami andare.”
Furono le sue ultime parole. Poco dopo, Alberto tornò alla Casa del Padre, sereno, come aveva vissuto. Sapevo che era finalmente libero da ogni dolore e sofferenza, e che ora stava correndo tra le nuvole del paradiso che ci aveva descritto tante volte.
Concludo qui questa parte del racconto, dove si racchiudono gli ultimi momenti della vita di Alberto e il lascito indelebile che ci ha dato. La sua forza, la sua fede incrollabile e la sua capacità di amare fino alla fine hanno segnato tutti noi. È stato un angelo sulla terra, e ora è tornato a essere un angelo nel cielo.


Autore:
Federico Francesco Angelo Lerza


Fonte:
www.albertolerza.it


Note:
Per maggiori informazioni: federico.lerza@gmail.com
Visita il sito www.lacasadialberto.com

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Aggiunto/modificato il 2025-02-02

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