Il 30 aprile 1997, a Buta, nel sud del Burundi, quaranta seminaristi sono stati massacrati in nome dell’amicizia e della fratellanza che volevano difendere a tutti i costi, offrendo così una testimonianza preziosa per il nostro tempo, ancora caratterizzato dalla divisione etnica, dall’odio razziale e dalle discriminazioni.
La “Svizzera dell’Africa” (come un tempo era considerato il Burundi) negli anni Novanta è attraversata da profondi e sanguinosi scontri tribali, che oppongono la maggioranza etnica prevalente degli Hutu ai minoritari Tutsi.
Scandalosamente ciò avviene in un paese al 99% cristiano e per oltre il 75% cattolico. Inevitabile che la situazione dell’intero paese si rifletta anche nelle scuole e nei seminari, con una rigida suddivisione dei dormitori, degli spazi di gioco e delle aule tra le due etnie.
Mentre molti istituti devono chiudere i battenti per le forti tensioni interetniche, il Seminario di Buta, nella diocesi di Bururi, diventa un’isola felice e un concreto esempio di serena convivenza, grazie al nuovo rettore che lavora molto per abbattere le frontiere e per creare un clima di amicizia tra gli studenti. Il suo sapiente accompagnamento spirituale riesce pian piano a far superare il clima di odio e di vendetta che si respira ovunque.
Inutile dire che, se da un lato l’esperienza di questo Seminario dimostra con i fatti che l’amore di Cristo è più forte delle barriere razziali, dall’altro finisce per rappresentare il più solenne smacco per i “signori della guerra”, che proprio sull’impossibilità dell’intesa tra hutu e tutsi fondano il loro infernale progetto di violenza e di morte. «Dio è buono e noi lo abbiamo incontrato», cantano e ripetono i seminaristi, al ritorno da un ritiro nella loro ultima Pasqua che ha fornito basi ancor più solide alla loro spiritualità.
In un clima surreale, con il Seminario costantemente presidiato dai militari tutsi, sotto la martellante istigazione alla violenza propagandata dalla televisione, con le notizie a raffica di massacri e genocidi della popolazione civile che fanno vivere in un clima di costante terrore e di preoccupazione per la sorte delle loro famiglie, i seminaristi cercano di farsi vicendevolmente forza e coraggio, cercando di mantenere pressoché inalterato il ritmo delle loro attività e soprattutto la loro unione, al di là dell’odio etnico che la politica cerca di instillare.
Tutto questo fino all’alba del 30 aprile 1997, quando i ribelli hutu, ubriachi e drogati, irrompono nel dormitorio in cui tutti i seminaristi si sono rifugiati: stanno attuando non solo un’operazione di rappresaglia e di pulizia etnica, piuttosto vogliono dimostrare come sia stata fallimentare l’idea di far convivere le due etnie, convinti come sono che l’esperimento non possa reggere di fronte alla minaccia di morte.
Per questo ordinano ai ragazzi, armi in pugno, di dividersi in due gruppi, hutu da una parte e tutsi dall’altra. I ragazzi non si muovono: non perché paralizzati dalla paura, piuttosto perché convinti che di fronte all’amicizia non si possono fare distinzioni etniche; l’amico resta tale, indipendentemente da come te lo vogliano rappresentare.
Scornati e forse disorientati dalla inaspettata reazione, gli assassini scatenano l’inferno, mentre i ragazzi, tutsi e hutu indifferentemente, restano abbracciati tra loro, si sostengono a vicenda, si aiutano come possono. «Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno», li sentono anche sussurrare.
Alla fine, su quel pavimento, immersi nel loro sangue, si contano quaranta morti: tutti ragazzi tra i quindici e i vent’anni, crivellati di colpi, sventrati dalle granate, finiti con il machete. La loro non è stata una morte casuale, piuttosto il risultato «di un’atmosfera, della cultura, dell’educazione che erano state forgiate da mesi…. Non è in quella notte tragica che quegli studenti hanno scoperto il dramma del loro Paese. Vi avevano già riflettuto sopra. Il loro comportamento è il prodotto di quella maturazione», dicono adesso di loro.
Sulle loro tombe e nella cappella di quel Seminario, da allora intitolata a Maria Regina della Pace, proseguono ininterrottamente i pellegrinaggi dei burundesi che vengono ad invocare la pace per il loro Paese.
I quaranta seminaristi di Buta sono compresi in un’unica causa di beatificazione e canonizzazione, della quale fanno parte anche il sacerdote diocesano Michel Kayoya, i padri saveriani Aldo Marchiol e Ottorino Maule e la laica Catina Gubert. La definizione di “martiri della fraternità”, comunemente attribuita ai soli seminaristi, vale anche per gli altri, in quanto non hanno voluto abbandonare il popolo burundese per costruire un futuro di pace secondo il Vangelo.
Il processo diocesano è stato aperto a Bururi il 21 giugno 2019 e si è concluso il 2 agosto 2022. Gli atti del processo hanno ottenuto il decreto di convalida l’11 gennaio 2023.
Autore: Gianpiero Pettiti
Il contesto geografico e storico
Il Burundi è un paese dalle dimensioni di una provincia italiana, con una popolazione di 6 milioni di abitanti appartenenti a tre diverse etnie: Hutu (85%), Tutsi (14%) e Twa (1%). La lingua nazionale è il kirundi. Il 75% della popolazione si professa cattolica, il 24% protestante, mentre i rimanenti sono musulmani e animisti.
La guerra che ha imperversato dal 1993 al 2005 ha toccato tutti i settori della vita nazionale. I cristiani che tentavano di testimoniare la loro fede sono state le prime vittime di quella barbarie.
Il Seminario di Buta
Nell’ottobre 1993, mentre molte scuole chiudevano le porte e altre vivevano ossessionate delle stragi interetniche, il Seminario di Buta restò un’isola di pace nell’oceano di odio e di vendetta in cui viveva il paese.
Questo avvenne grazie all’impegno di don Zacharie Bukuru, il rettore, e degli altri professori. Lavorarono per rendere uniti i seminaristi, facendo in modo che tutte le attività fossero svolte in gruppo: la preghiera, la danza tradizionale, il lavoro in fattoria, lo sport.
Il rettore, poi, spiegava ai ragazzi la storia del Burundi, facendo capire che hutu e tutsi erano sia vittime sia colpevoli. Dopo i suoi interventi, lasciava ampio spazio per il dibattito, così da estinguere ogni possibile segno d’intolleranza.
La scoperta del vero tesoro per la vita
Dopo le vacanze, dal 20 al 24 aprile 1997, la classe del secondo ciclo di Umanità, come ogni anno, ebbe un ritiro di discernimento vocazionale con i membri del Foyer de Charité di Giheta. Al termine del ritiro, i ragazzi, pieni di allegria e di gioia, non avevano che queste parole sulla bocca: «Dio è buono, noi l’abbiamo incontrato». Parlavano del Paradiso come se venissero da lì, del sacerdozio come se dovessero essere ordinati immediatamente.
Qualcosa di molto forte passò dai loro cuori: se ne rendevano conto, ma senza sapere esattamente di cosa si trattasse. Presero la decisione di parlarne sistematicamente ai loro compagni in modo formale, con l’accordo dei superiori.
Da allora in poi pregavano, cantavano, danzavano, felici di aver scoperto un tesoro. La vigilia della loro morte molti non lavorarono, ma pregarono e incoraggiarono quelli che avevano paura di morire, dicendo che era l’unico modo di arrivare in cielo.
Il massacro
Al sorgere dell’alba del 30 aprile 1997, verso le ore 5.30, un gruppo di duemila uomini del Consiglio Nazionale per la Difesa della Democrazia (C.N.D.D.), ribelli hutu, guidati da una donna, attaccò il Seminario.
All’epoca gli allievi erano duecentocinquanta, divisi in due camerate: quella per i ragazzi tra i tredici e i quindici anni e quella per gli studenti fino ai ventiquattro anni. I militari entrarono nella seconda camerata, ordinando ai ragazzi di separarsi: gli hutu da una parte, i tutsi dall’altra.
Gli uomini armati volevano ucciderne solamente una parte, ma i giovani seminaristi si rifiutarono categoricamente, preferendo dunque morire insieme. Si presero per mano, mentre qualcuno di loro esclamava: «Siamo tutti burundesi, siamo tutti figli di Dio».
A quel punto, gli aggressori si scagliarono sui ragazzi e li massacrarono a colpi di fucili e di granate. Alcuni allievi furono uditi cantare Salmi di lode, altri parlare in lingua madre dicendo: «Perdona loro Signore, perché non sanno quello che fanno». Altri ancora, anziché combattere o tentare di salvarsi, cercarono piuttosto di aiutare i loro fratelli agonizzanti, sapendo bene che in tal modo li avrebbe attesi la medesima sorte.
La testimonianza di un sopravvissuto
Jolique Rusimbamigera, studente nel Seminario di Buta, seppur ferito gravemente scampò al massacro. Un anno dopo rese la seguente testimonianza, che fu letta anche durante la commemorazione ecumenica dei Testimoni della Fede del XX secolo presieduta dal Papa san Giovanni Paolo II il 7 maggio 2000 al Colosseo:
«Erano tantissimi, mi sono sembrati cento. Sono entrati nel nostro dormitorio, quello delle tre classi del ciclo superiore, e hanno sparato in aria quattro volte per svegliarci... Subito hanno cominciato a minacciarci e, passando fra i letti, ci ordinavano di dividerci, hutu da una parte e tutsi dall’altra. Erano armati fino ai denti: mitra, granate, fucili, coltellacci... Ma noi restavamo raggruppati! Allora il loro capo si è spazientito e ha dato l’ordine: “Sparate su questi imbecilli che non vogliono dividersi”. I primi colpi li hanno tirati su quelli che stavano sotto i letti... Mentre giacevamo nel nostro sangue, pregavamo e imploravamo il perdono per quelli che ci uccidevano. Sentivo le voci dei miei compagni che dicevano: “Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno”. Io pronunciavo le stesse parole dentro di me e offrivo la mia vita nelle mani di Dio».
Dopo il massacro
Si verificò un interessamento generale in tutto il paese e nel mondo intero. Papa Giovanni Paolo II inviò un messaggio di condoglianze al vescovo della diocesi di Bururi, rivolte anche a tutta la Chiesa del Burundi in lutto.
I ragazzi appartenevano alle diocesi di Bururi, Bujumbura, Ruyigi e Gitega. Alcuni di essi avevano maturato la propria vocazione tramite l’Azione Cattolica. Il rettore fece subito in modo di seppellire i loro cadaveri e di ricostruire gli edifici che erano stati danneggiati e saccheggiati dai ribelli: non voleva che i sopravvissuti perdessero l’anno scolastico.
Il 2 maggio 1998 il Seminario di Buta celebrò il termine del lutto per i quaranta seminaristi uccisi un anno prima. Quello stesso giorno, il vescovo di Bururi consacrò la chiesa dedicata a Maria Regina della Pace, diventata luogo di pellegrinaggio per i fedeli burundesi e non solo.
Tre anni dopo il massacro, don Zacharie Bukuru è partito per diventare monaco benedettino nell’abbazia di Sainte-Marie de la Pierre-qui-vire, in Borgogna. Nel 2004 è tornato in Burundi, per fondare il primo monastero benedettino del paese, a trecento metri dalla chiesa di Maria Regina della Pace e dalle tombe di quelli che continua a chiamare «i miei ragazzi».
L’avvio della causa di beatificazione e canonizzazione
Il nulla osta per l’avvio della causa di beatificazione e canonizzazione dei quaranta seminaristi di Buta è stato emesso il 28 marzo 2019. La causa comprende anche l’abbé Michel Kayoya, ucciso il 17 maggio 1972, due sacerdoti dei Missionari Saveriani, padre Ottorino Maule e padre Aldo Marchiol, e la volontaria laica Catina Gubert; questi ultimi tre furono uccisi a Buyengero il 30 settembre 1995.
Il 28 marzo 2019 la Santa Sede concesse il nulla osta per l’avvio della causa. Il processo diocesano per l’accertamento del loro martirio in odio alla fede fu invece aperto il 21 giugno 2019, nella diocesi di Bururi. L’ultima sessione del processo fu celebrata il 2 agosto 2022. L’11 gennaio 2023 il Dicastero delle Cause dei Santi pubblicò il decreto di validità giuridica sugli atti del processo.
I quarantaquattro membri di questa causa, la prima mai aperta in Burundi, sono accomunati dall’essere “martiri della fraternità”. Questa definizione, attribuita inizialmente ai soli seminaristi, si adatta anche agli altri, perché non vollero abbandonare il Paese per costruire, secondo il Vangelo, un futuro di pace.
L’elenco
Nell’elenco che segue, i seminaristi sono presentati in ordine alfabetico in base al cognome. Segue quindi l’età di ciascuno approssimata al millesimo, dato che le date di nascita esatte non sono momentaneamente reperibili.
Jean-Thierry Arakaza, 18 anni
Bernard Bahifise, 16 anni
Gilbert Barinakandi, 18 anni
Alain-Basile Bayishemeze, 19 anni
Sébastien Bitangwanimana, 20 anni
Remy Dusabumukama, 21 anni
Robert Dushimirimana, 20 anni
Éloi Gahungu, 18 anni
Léonidas Gatabazi, 20 anni
Willermin Habarugira, 24 anni
Pascal Hakizimana, 20 anni
Joseph Harerimana, 21 anni
Jean-Marie Kanani, 21 anni
Pacifique Kanezere, 20 anni
Adronis Manirakiza, 19 anni
Jules Matore, 21 anni
Longin Mbazumutima, 24 anni
Joseph Muhenegeri, 24 anni
Jimmy Prudence Murerwa, 21 anni
Désiré Ndagijimana, 17 anni
Audace Ndayiragije, 19 anni
Pie Ndayitwayeko, 23 anni
Emery Ndayumvaneza, 21 anni
Alexis Ndikumana, 22 anni
Boniface Nduwayo, 21 anni
Désiré Nduwimana, 21 anni
Phocas Nibaruta, 18 anni
Prosper Nimubona, 20 anni
Diomède Ninganza, 22 anni
Patrick Nininahazwe, 20 anni
Egide Niyongabo, 20 anni
Prosper Niyongabo, 21 anni
Protais Niyonkuru, 21 anni
Pasteur Niyungeko, 21 anni
Alphonse Ntakiyica, 19 anni
Pierre-Claver Ntungwanayo, 19 anni
Gédéon Ntunzwenimana, 18 anni
Lénine Nzisabira, 18 anni
Oscar Nzisabira, 16 anni
Gabriel Sebahene, 23 anni
Autore: Don Fabio Arduino ed Emilia Flocchini
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