Figura tra le più notevoli della Chiesa delle Gallie alla fine del sec. V e nei primi decenni del VI, Alcimo Ecdicio Avito nacque a Vienne verso il 450 da famiglia senatoria originaria dell'Alvernia alla quale apparteneva anche Sidonio Apollinare e probabilmente l'imperatore Avito (m. 456). Suoi genitori furono il senatore Esichio e la nobile Audenzia, che alla nascita di Fuscina, quarta figlia, fecero voto di continenza. Fuscina poi, a dodici anni, si consacrò a Dio nella vita monastica; un fratello, Apollinare, fu vescovo di Valenza ed è venerato come santo il 5 ottobre. Avito fu battezzato dal vescovo san Mamerto che Avito chiama «praedecessorem suum et spiritalem sibi a baptismo patrem ». Cresciuto in un clima familiare dove virtù e cultura avevano trovato una felice alleanza, Avito si sentì ben presto più attratto dallo studio e dalla vita ritirata che dagli onori del mondo. Si sposò ed ebbe figli. Ma verso l'età di quarant'anni, rimasto forse vedovo, distribuì il suo patrimonio ai poveri e si ritirò in un monastero alle porte di Vienne. Intanto alla morte di Mamerto, verso il 475, il padre di Avito era stato eletto vescovo di Vienne. Quando, verso il 490, Esichio morì, Avito fu chiamato a succedergli. La vita di Avito nell'episcopato ci è nota dai suoi scritti e da numerose testimonianze di scrittori contemporanei o non troppo posteriori quali Ennodio di Pavia (In vita beati Epiphanii episcopi), Gregorio di Tours (Historia Francorum, lI, 34), Venanzio Fortunato (In Vita s. Martini), Isidoro di Siviglia (De illustribus Ecclesiae scriptori bus, 23), Agobardo di Lione (Adversus le gem Gundobaldi), Adone di Vienne (Chronicon, aet. sexta). Esiste anche una breve Vita (BHL, I, p. 137, n. 885) compilata nel sec. XI, che nelle grandi linee è attendibile, tratta com'è, in parte, dalla Vita di Apollinare, fratello di Avito, del sec. VI.
A queste testimonianze si può aggiungere l'epitaffio di Avito: venticinque versi che incisivamente fissano i tratti salienti della sua personalità.
Avito si rivelò zelantissimo pastore, pieno di carità verso i poveri, umile, dotato di squisita umanità nell'avvicinare gente di ogni condizione sociale, vigorosamente impegnato alla diffusione della fede, all'estirpazione dell'eresia, alla difesa dell'unità della Chiesa. Nel 494 contribuì al riscatto dei prigionieri liguri catturati dai Burgundi nelle loro scorrerie durante le lotte tra Odoacre e Teodorico. La sua generosa offerta consentì al vescovo Epifanio di Pavia mandato da Teodorico alla corte burgunda di liberare molte migliaia di prigionieri. Ennodio che accompagnava Epifanio così scrisse: «Dedit etiam praestantissimus inter Gallos Avitus, Viennensis episcopus... et actum est, ne Gallis diutius servitum pubes Ligurum duceretur» (Vita Epiphanii). Lavorò senza soste alla conversione dei Burgundi ariani allora padroni di Vienne. Ebbe a tal fine frequenti colloqui col re Gundobaldo, gli scrisse molte lettere per illustrargli la fede cattolica, per confutare l'arianesimo, e pur non essendo riuscito a convertirlo, ne guadagnò però la stima, la simpatia, la tolleranza verso il cattolicesimo. Le sue fatiche furono premiate dalla conversione del figlio di Gundobaldo, Sigismondo, che nel 493 divenne cattolico con la sua famiglia e più tardi, succeduto al padre nel 516, diede ad Avito tutto il suo appoggio per la liquidazione dell'arianesimo nello stato burgundo. In questa lotta contro la eresia si inquadra la lettera vibrante di entusiasmo che Avito indirizzò a Clodoveo all'indomani del suo battesimo, nel 496. La conversione di Clodoveo e dei Franchi al cattolicesimo apparve ad Avito come il colpo di grazia per l'arianesimo in Gallia e fu per questo che scrisse al re: «Invenit quippe tempori nostro arbitrum quemdam Divina provisio: dum vobis eligitis, omnibus iudicatis: vestra fides nostra victoria est» (Epist. XLI). Lottò, inoltre, contro le eresie di Nestorio, di Eutiche, di Fotino (Epist. II, III), e contro il semipelagianesimo di Fausto di Riez (Epist. IV).
Si preoccupò dell'unità della Chiesa, minacciata dallo scisma dell'antipapa Lorenzo a Roma e dal perdurare dello scisma acaciano a Costantinopoli. In difesa di papa Simmaco scrisse una importantissima lettera ai senatori romani Fausto e Simmaco. Parlando a nome di tutto l'episcopato delle Gallie, Avito riaffermò con energia il principio che il papa non può essere giudicato da alcuno, e riferendosi alle conclusioni del sinodo romano del 501 prosegue: «Quibus cognitis, quasi Senator ipse Romanus, quasi Christianus episcopus obtestor... ut in conspectu vestro non sit Ecclesiae minor, quam Reipublicae status... nec minus diligatis in Ecclesia vestra Sedem Petri, quam in civitate apicern mundi. In sacerdotibus ceteris potest, si quid nutaverit, reformari: at si Papa Urbis vocatur in dubium, Episcopatus iam videbitur, non Episcopus, vacillare» (Epist. XXI). Una viva amicizia legò Avito al successore di Simmaco, Ormisda, del quale seguì gli sforzi per la composizione dello scisma acaciano (Epist. LXXX VII). L'autorità di Avito era tanto sentita in tutta la Gallia che da ogni parte si guardava a lui quasi ad una guida, come prova il suo epistolario. Avito restaurò templi e monasteri, in special modo quello di Agaune; promosse il culto dei martiri; convocò e partecipò a sinodi provinciali. Celebre tra tutti quello di Epaone (Saint Romain d'Albon) del 517 che radunò sotto la presidenza di Avito tutto l'episcopato della regione e diede alla Chiesa burgunda la sua organizzazione.
L'anno della morte di Avito è incerto. L'anonimo autore della Vita la pone «Anastasio adhuc principe». L'imperatore Anastasio morì il 1° luglio 518, quindi Avito sarebbe morto prima di tale data. Secondo Adone, invece, Avito sopravvisse al re Sigismondo, sconfitto e ucciso dai Franchi nel 523, della cui morte fu profondamente addolorato. Il bollandista G. Heschen basandosi su questo passo di Adone e sull'Epist. VII di Avito indirizzata a un patriarca di Costantinopoli, in cui sembra felicitarsi per la conclusione dello scisma acaciano, colloca la morte del santo dopo il 523 come fanno alcuni dei più recenti studiosi. A. Gallandi (PL, LIX, coli. 191-96) è, invece, per il principio del 518: Adone avrebbe confuso l'Avito di Vienne con I'Avito abate di Perche o di Micy che era ancora in vita alla morte di Sigismondo.
Il Duchesne (Fastes, I, p. 147) è di questo stesso parere. Per lui l'«Anastasio adhuc principe» proviene dalle indicazioni cronologiche della tomba di Avito copiate dall'autore della Vita. D'altra parte, egli osserva, nessuna lettera di Avito è posteriore al 517. L'Epistola VII non si riferisce alla conclusione dello scisma acaciano del 519, ma solo a voci d'una riconciliazione, in verità premature. Potrebbe quindi essere stata diretta al patriarca Timoteo, anziché a Giovanni il Cappadoce, in occasione delle sue velleità pacifiste del 515.
Le ragioni del Gallandi e del Duchesne sembrano valide. A. Ferrua (Enc. Catt., IT, col. 552) è di questa opinione. J. R. Palanque, invece (DHGE, V, col. 1205) è per il 525.
Il giorno della morte di Avito è noto con certezza. Il Martirologio Geronimiano e la tradizione liturgica viennense la fissano al 5 febbraio. A questa stessa data è ricordato nel Martirologio Romano.
Avito fu sepolto fuori delle mura di Vienne nella chiesa del monastero dei SS. Pietro e Paolo. L'epitaffio si è conservato ed è pubblicato dai Bollandisti e in testa all'edizione delle opere di Avito (in PL LIX, col. 198).
Grande vescovo e grande santo, Avito fu anche scrittore elegante e fecondo. Della sua produzione letteraria, ci son pervenute molte lettere, alcune omelie e due poemetti, opere di cui Avito stesso curò l'edizione nel 507. Gli epigrammi andarono perduti nel sacco di Vienne del 500, compiuto dai Franchi.
Se si escludono venti lettere la cui paternità è incerta, a noi ne sono giunte settantotto delle molte che Avito scrisse e che al tempo di Gregorio di Tours erano divise in nove libri (Hist. Franc., II, 34): ottantotto lettere pubblica Sirmond, novantotto il Peiper. Due di esse, la II e la III, sono dei piccoli trattati contro l'eresia di Eutiche, e così la IV contro il semipelagianesimo. Tutti i problemi religiosi del suo tempo si riflettono in queste lettere di cui abbiamo già rilevato l'importanza storica e il valore dottrinale, nonostante qualche confusione e qualche inesatta valutazione.
Abbiamo poi qualche omelia intera e molte frammentarie, di speciale interesse quella sulle rogazioni di cui Avito ricorda l'istituzione ad opera di Mamerto.
I due poemetti hanno più di ogni altro scritto contribuito alla fama di Avito. Il primo in cinque libri, dal titolo De mosaicae historiae gestis o De spiritualis historiae gestis, riprende con originalità poetica i racconti del Genesi dalla creazione al passaggio del Mar Rosso. Gli storici della letteratura merovingica hanno giudicato i primi tre libri, De initio mundi, De originali peccato, De sententia Dei, come un'anticipazione del Paradiso Perduto di Milton, che forse ne trasse ispirazione. L'altro poemetto De laude castitatis è un inno alla verginità, indirizzato alla sorella Fuscina, ricco di spunti autobiografici.
Queste opere resero famoso il nome di Avito. Vivissima ammirazione spirano gli elogi di Ennodio, di Gregorio di Tours, di Venanzio Fortunato, di Isidoro di Siviglia e di Adone. Nel giudizio positivo su Avito poeta concordano, sostanzialmente, gli studiosi moderni.
Autore: Benedetto Cignitti
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