La storia di questo santo è legata a quella di altri sei confratelli. Conosciuti nella tradizione popolare abruzzese come “i sette fratelli”, furono così chiamati per l’appellativo di “fratelli” che usavano tra di loro. Approvato dalla Sacra Congregazione dei Riti nel 2 luglio 1893 il culto di questi Santi è vivo da secoli in tutto l’Abruzzo ed i loro nomi sono legati a luoghi dove hanno lasciato maggiori testimonianze. S. Nicolò il Greco da Prata venerato a Guardiagrele, S. Rinaldo patrono di Fallascoso, S. Franco di Francavilla al Mare, S. Stefano “il lupo” sepolto presso l’eremo di S. Spirito a Majella, S. Giovanni che ha dato il nome alla cittadina di Rocca San Giovanni, e S. Orante di Ortucchio nella Marsica.
Falco, nato a Taverna in Calabria verso la metà del decimo secolo, dall'antica e nobile famiglia dei Poerio, fu da giovanissimo attirato dalla solitudine e dall’eremitaggio. Decise presto di ritirarsi nel monastero di Pesica vicino al suo paese, nella zona di Cosenza, fra i Basiliani, sotto la disciplina di un santo abate, di nome Ilarione. La comunità era già conosciuta in tutte le Calabrie per le virtù e la santità di tutti i confratelli che la formavano come afferma il B. Pietro da Pesica ricordato nel Monologio greco.
Nel 980 le Calabrie divennero teatro di rovina e sterminio, preda dei Saraceni al soldo di Basilio e Costantino. Dal monastero di Taverna i “sette fratelli” decisero perciò di partire alla volta degli Abruzzi, e raggiunsero nella provincia di Abruzzo Citra nelle terre dei Peligni, il feudo di Prata, al confine tra Casoli, e Civitella Messer Raimondo, presso le rive del fiume Aventino, attuale provincia di Chieti.
Qui costruirono alcune stanze ed una chiesetta, i cui ruderi erano visibili fino a verso la fine dell’800, e qui si stabilirono vivendo in povertà, e santità imponendosi rigide regole quali veri imitatori degli antichi monaci d’Egitto.
Sotto la guida del loro santo abate Ilarione condussero vita austera e di digiuno, cibandosi per lo più di erbe, ad eccezione delle sole domeniche.
La loro conversazione consisteva nella pratica delle orazione, e nella recita delle lodi.
Alla morte del santo abate elessero superiore il più giovane, Nicolò Greco, minore per età, ma non per meriti.
Il nuovo Abate, per rendere grazie a Dio, chiese ai confratelli di compiere un pellegrinaggio a Roma. Durante il viaggio, con le loro orazioni “i sette fratelli” riuscirono a liberare dagli spiriti maligni sette indemoniati incontrati nei pressi del Lago di Fucino. Rimessisi in cammino, uno di essi, aggravato dagli acciacchi di salute, lasciò i compagni e nei pressi di Ortucchio, trovò ricovero nella chiesa della Santissima Vergine, a S. Maria in Capo d'acqua.
Gli altri compagni compiuto il pellegrinaggio, tornarono a Prata alla loro vita monastica. Nicolò fu per diversi anni abate, ma alla sua morte gli altri confratelli, non riuscendo ad eleggere un suo successore, si ritennero liberi di seguire ognuno la propria strada. Falco decise di tornare a Roma, e s’incamminò, ma la stessa sera, giunto a Palena, tentando di salire la montagna di Coccia, sentì mancare le forze e fu costretto a riposarsi nella vicina villa di S. Egidio. All’arrivo inaspettato di questo santo frate, la contrada infestata da spiriti maligni, fu subito purificata, e la sua presenza fu motivo di speranza per gli abitanti del luogo che lo acclamarono da subito e gli portarono rispetto. Decise così di rimanere tra quei monti continuando la sua vita di rigori e di preghiere. Per estrema umiltà non volle mai abbracciare il sacerdozio, ma rimanere un umilissimo frate esempio di virtù.
Era il mattino del 13 gennaio presumibilmente di un anno verso la metà dell'undecimo secolo, improvvisamente si sentì suonare la piccola campana dell'eremo dove viveva in ritiro. Accorsero in molti pensando che il frate avesse bisogno di soccorso e lo trovarono esanime steso su di una tavola con due candele accese. Il suo corpo fu trasportato nella chiesa di S. Egidio Abate dove, dopo le esequie, fu sepolto.
Passava da quelle parti un ossesso che trascinato e legato alla statua di S. Panfilo di Sulmona, e tutti con stupore lo videro spezzare le funi e correre verso il sepolcro del Santo, dove appena giunto, fu liberato dal maligno.
Da quel momento la fama di San Falco divenne ancora più grande e confermata da diversi altri prodigi, tanto che a richiesta del popolo le spoglie furono esposte alla pubblica venerazione.
Se gli archivi di Sulmona, e Palena non fossero andati distrutti in un incendio, avremmo ad oggi innumerevoli descrizioni di grazie e miracoli riportati negli atti della sua canonizzazione.
Nel 1383, a causa di continue scorrerie e latrocini, temendo per la loro sorte, il vescovo di Sulmona decise la traslazione delle reliquie e della statua di S. Falco nella chiesa di S. Antonino Martire al centro di Palena.
Nel medesimo anno, il Vicario Generale di Valva e Sulmona D. Giovanni canonico di Sora, decise di unire con bolla speciale le ville e loro chiese, alla chiesa madre di S. Antonino Martire. Tale unione fu poi confermata nel 1385 con altra bolla del vescovo di Sulmona D. Bartolomeo de Scalis sotto il Papa Urbano VI.
Da allora la chiesa e le reliquie di San Falco divennero meta di pellegrini, fedeli, devoti, malati ed ossessi, provenienti anche da molto lontano.
Nel terremoto del 1706 la chiesa non fu esente dal disastro, ma fu presto riedificata con l’aiuto e la devozione dei fedeli.
Per la crescente devozione e gli innumerevoli pellegrinaggi nel 1841 si decise di demolire la vecchia chiesa per erigerne una molto più grande e capiente, e nel 1842, ad opera del celebre Domenico Capozzi, per la grande devozione, fu eretta al santo una statua di argento a mezzo busto.
La teca con le sue reliquie, la tunica Dalmatica alla Greca, e la statua di argento contenente il suo teschio, vengono esposti due volte l'anno alla devozione dei fedeli, il 13 gennaio in commemorazione della morte, e nella domenica successiva al 15 agosto in memoria della traslazione delle sue reliquie dalla chiesa di S. Egidio.
Autore: Germano D'Aurelio
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