Don Silvio Gallotti, di cui nel 1997 è stato ufficializzato il riconoscimento dell’eroicità delle sue virtù, nasce a Cannobio nel 1881, in una famiglia modesta, ma ricca di fede che vede di buon occhio la sua vocazione. Raggiunge il sacerdozio nel 1904 e lo mandano a fare tirocinio prima a Trarego, poi a Cambiasca: comunità piccole, dove tra giovani, ammalati e poveri vive con gioia le prime esperienze di ministero, conoscendone insieme anche le difficoltà e le povertà. Si tratta di località perlopiù isolate e quasi fuori del mondo, dove un giovane prete deve faticare non poco ad affrontare solitudine, diffidenza e indifferenza.
“Il sacerdo¬te deve somigliare alla candela, la quale arde e si consuma per illuminare”, scrive ed è un po’ la sintesi del suo essere prete, che si consuma in preghiere e penitenza, per arrivare là dove gli sarebbe impossibile con la parola e la sua presenza. Nel 1906 lo mandano come coadiutore nella più popolosa parrocchia di Galliate e qui si rivela per quello che è: un prete che non aspetta di essere chiamato, perchè premurosamente sa andare lui in cerca di chi ha bisogno. Al vescovo questo non sfugge e neppure la cura che riversa nella pastorale vocazionale; forse è anche segretamente ammirato della sua forte spiritualità, fatto sta che nel 1911 gli chiede di assumere la direzione spirituale del seminario di Arona. Vi resterà per 15 anni, in quattro dei quali assumendo le mansioni economiche e direzionali connesse al ruolo di rettore del medesimo seminario. Sono queste ultime a stargli un po’ strette, in quanto per nulla confacenti al suo temperamento, ma tutto svolge con scrupolo e fedeltà, limitandosi a chiedere preghiere agli amici più intimi “perché non fallisca completamente la missione che mi è stata affidata”.
Da seminarista aveva scritto di voler “essere sacerdote santo”, adesso si forza di plasmare la santità nei suoi figli spirituali: “possa io, santificandomi, precedere in santità coloro che ho l’incarico di educare bene”. Testimonia apertamente tutta la sua gioia di essere prete: “Se io potessi scegliere ancora tra il sacerdozio e la vita laicale, cento, mille volte, sceglierei di farmi sacerdote. Oh, amici quanto è bello essere sacerdote! Troppo bello!”. Senza risparmiarsi e senza farsi pregare esercita il ministero della predicazione, soprattutto nei mesi estivi, nelle parrocchie in cui è invitato, gettando così le basi per un gruppo di “Missionari di Maria”: come lui innamorati della Madre di Dio, insieme a lui impegnati a diffonderne la devozione.
È di quel periodo, infatti, la “scoperta” della spiritualità del Montfort; “stabilire per mezzo di Maria e in unione con lei il Regno del Cuore di Gesù in coloro che sono destinati a stabilirlo in tutta la diocesi” diventa l’obiettivo per il quale lavora, spera e soffre. Infatti non a tutti piace l’ardore con cui cerca di instillare nei chierici la “vera devozione” a Maria e neppure il ricorrente riferimento alla spiritualità mariana di cui trasudano le sue infuocate omelie, al punto che su questo argomento gli viene imposto dal vescovo un doloroso silenzio, che gli causa incomprensioni e umiliazioni. Si pensa che questi dispiaceri siano la causa dei frequenti dolori di stomaco di cui don Silvio soffre e per i quali si rivelano inutili cure mediche e ricoveri ospedalieri, accompagnati per di più da una spaventosa aridità interiore e da una lunga “notte dello spirito”.
A ottobre 1926 il vescovo gli affida la direzione spirituale del seminario di Novara, dove questo prete troppo “mariano” viene da qualcuno accolto con fredda diffidenza. “Sento che la Madonna conduce il mio sacrificio sino alla fine”, sussurra: il 2 dicembre celebra la sua ultima messa, poi inizia una lenta agonia in una corsia fredda e appartata, quasi abbandonato, nutrito solo più di Eucaristia perché il suo stomaco si rifiuta di assumere cibi solidi, cosciente di “non fare del bene alle anime, più di ora che sono crocifisso”. Muore il 2 maggio 1927 e solo dopo si scoprirà il suo “voto di vittima”, con il quale si era offerto a Dio, che spiega l’eroismo della sua malattia e della sua aridità spirituale con cui aveva sperimentato tutta l’angoscia del Getsemani.
Autore: Gianpiero Pettiti
Lambita dall’azzurro del Lago Maggiore e ornata dai suoi monti, Gannobbio lo accolse alla vita il 22 settembre 1881. Silvio Gallotti in famiglia trovò la formazione cristiana dei sui genitori. Crebbe buono, vivace e pio.
Dopo la prima Comunione, è chiamato a essere chierichetto e prova una grande gioia servire all’altare su cui Gesù scende a offrire il Suo Sacrificio.
Aiutato dal parroco, undicenne entra in Seminario, a Novara, dove pur nel clima austero del tempo, si appassiona teneramente a Gesù, che è sì esigente, ma anche infinitamente buono. Il suo modello è san Francesco di Sales, umile, forte e mite di cuore come Gesù.
Al termine delle classi ginnasiali ottiene il primato assoluto negli esami, per doti, impegno e profitto. Più di un compagno di allora gli nutre riconoscenza. Nell’ottobre 1898, iniziò il liceo, mostrando sempre un grande amore allo studio. Dotato di facile memoria, di sua iniziativa, imparò interi canti di Dante. Spesso, al mattino, passava la colazione al compagno vicino… per fare digiuno e penitenza e un atto di carità e preparasi a diventare sacerdote santo.
A Novara, inizia gli studi teologici. I superiori lo giudicano "serio, buono, ascetico, rigido, sempre lieto". Ben oltre la regola del Seminario, passa molto tempo in adorazione davanti a Gesù Eucaristico, rivelando "l’intesa forte" con Lui, l’unico Amore della sua vita.
Il 29 giugno 1904, don Silvio Gallotti è ordinato sacerdote. La domenica successiva, 3 luglio, la prima Messa solenne, nel santuario della Santissima Pietà di Gannobbio. Da chierico, aveva scritto: «Voglio essere sacerdote santo». Ormai, dirà spesso: «Se io potessi scegliere ancora tra il sacerdozio e la vita laicale, cento, mille volte, sceglierei di farmi sacerdote. Oh, amici quanto è bello essere sacerdote! Tropo bello!».
Piccolo pastore
Una parrocchietta di montagna fu il primo campo del suo ministero: Trarego. Vi salì solo, sembrandogli un lusso aver "la perpetua". La sua mamma faceva qualche comparsa. Aveva 24 anni. Conobbe e superò una delle più gravi tentazioni del prete: l’isolamento, la solitudine, stando in compagnia di Gesù, Gesù Eucaristico che riempie ogni solitudine e sazia ogni sete di amore. Alla Confessione e all’incontro con Gesù nell’Eucarestia chiama le anime.
Nell’aprile 1905, la nuova destinazione: Cambiasca, un paese con 500 anime sul Lago Maggiore, mandato come "vicario", a preparare la via al nuovo parroco. Tornando dopo alcuni anni a visitare quella parrocchia, alla mamma del parroco additava una piccola panca accanto al caminetto: «Se sapesse quante lacrime ho versato qui, di giorno e di notte!» le diceva, accompagnando le parole con un gesto della mano che indicava di quanti segreti e conversioni era stato testimone quell’angolo della cucina.
Alla fine di agosto 1906, giunse alla parrocchia di Galliate. Affabile, sempre disponibile, andava là dove era chiamato e anche dove non lo era, a portare Gesù. Si muoveva per primo a cercare le anime, senza attendere che venissero a cercarlo. Premuroso nel visitare i malati, nell’assistenza ai moribondi in qualsiasi ora del giorno e della notte.
I suoi parrocchiani cominciano a dire di Lui: «Ha tanta carità per gli altri e niente per sé. Pare proprio che viva di amore di Dio». A un confratello meravigliato perché riuscisse ad avere tanti buoni ragazzi attorno, poteva rispondere: «Il mio segreto sta nell’amarli molto, come faceva Gesù».
Per i suoi ragazzi, non guardava sacrifici e non risparmiava né sudori, né soldi, pur di avviarli a una vita di intimità con Gesù: catechismo, preghiera, frequenza ai sacramenti. Il resto può valere qualcosa solo se porta lì: a Gesù.
Ammetteva alla Iª Comunione, i bambini di 8 anni, sufficientemente preparati, affinché Gesù avesse a prendere possesso di loro. Tra di loro scopriva e coltivava vocazioni. Lo ricorderanno sempre, come il padre, il modello del loro sacerdozio e della loro santificazione.
Nell’imminenza del Natale 1910, gli giunse l’invito del Vescovo che lo chiamava a Arona, come direttore spirituale del Seminario, affidandogli cento giovani del ginnasio-liceo.
Il padre
Il 1 gennaio 1911, don Silvio è già in Seminario con un programma chiaro: «Possa io, santificandomi, precedere in santità coloro che ho l’incarico di educare bene». Ai preti della Diocesi, riuniti per un convegno catechistico, diceva: «Con tutto l’entusiasmo di cui sono capace, vi grido: siate padri e madri delle anime. Ma il vostro amore sia soprannaturale: amate Dio nei piccoli e i piccoli in Dio».
Così lui amava i suoi seminaristi: con cuore di padre e di madre. Le lunghe conversazioni, gli interminabili colloqui nel suo ufficio, affacciato sul lago, caldo solo per la fiamma di amore a Gesù che gli bruciava il cuore e si trasfondeva dalle labbra, svelavano lo sforzo cesellatore che dà corpo in se stesso e nelle anime affidategli all’ideale che persegue: formare Gesù nei futuri preti.
Per questo, i seminaristi lo chiamavano spontaneamente (non perché imposto loro) con il nome di "padre": pieno di sollecitudini e di affanni, pronto a ogni sacrificio, a ogni rinuncia, alimentando i suoi "figli" della sua preghiera, dei suoi digiuni, delle sue veglie oranti, del suo studio, del suo tempo e del suo denaro. Una sola meta altissima: essere lui e formare in ognuno l’alter Christus.
Amava vedere i seminaristi lieti e briosi. Le confessioni non potevano ridursi a una semplice accusa dei peccati, ma a una apertura di tutto il cuore, senza lasciare fuori una piega: «Sappi – diceva – che io non ti perdo mai di vista. Ti ho sempre presente notte e giorno, dinanzi a Gesù. Va anche tu da Lui con immensa fiducia».
Il 24 maggio1915, l’Italia entra in guerra. Il cuore di don Silvio ne è straziato. Figli suoi, in gran numero, partono per il fronte, vocazioni allo sbaraglio. Prima che partano, li prepara alla durissima prova con istruzioni e direttive precise. Una volta sotto le armi, quante lettere del "padre", li raggiungono! In Seminario, il Padre fa penitenze per loro, prega e fa pregare: ore di adorazione, novene, Rosari alla Madonna. Si impone il cilicio per riportarli tutti in Seminario, al santo Altare. Davanti alla Madonna, accende giorno e notte, la lampada del soldato, un simbolo per esprimere la preghiera continua per i "figli" lontani e in pericolo.
Lo stampo di Dio
Ha sempre amato e pregato la Madonna, ma ora da una scoperta singolare determinante: "Il trattato della vera devozione a Maria" di S. Luigi de Monfort, in cui è spiegato, con intelletto d’amore che la Madonna non è solamente il capolavoro più alto di Dio, non è solo avvocata potente e modello di perfezione, ma è Madre della nostra vita spirituale, o meglio è Ella che forma in ciascuno di noi l’immagine più perfetta del Figlio di Dio e suo, Gesù. «Maria – spiega Monfort – è lo stampo di Dio». Chi si consacra a Lei come suo "schiavo ‘amore", consegnandole tutto, viene educato dalla sua azione a diventare, nella Grazia santificante, il prolungamento di Gesù".
Da quella scoperta, don Silvio si lasciò vivificare e "usare" dalla Madonna e tutto prese a insegnare ai seminaristi, ai sacerdoti e a tutti quelli che avvicinava. Così "collaborare con la Grazia di Dio; collaborare con la Madre della divina Grazia", dice più e meglio che "lavorare per Dio, essere devoti della Madonna". Con questo stile nuovo, ma antico quanto il dono di Gesù Crocifisso ("Ecco tua madre; ecco tuo figlio" Gv 19, 26-27), don Silvio sperimenta una singolare abbondanza di grazia che lo induceva a dire: «Mi pare persino che la Madonna non ci lasci più il tempo di respirare, tante sono le grazie con cui ci spinge a progredire nella via della perfezione» (10 aprile 1918).
Sotto l’influsso di Maria santissima, la sua vita ascetica e la sua azione educativa si fa più profonda, più incisiva e materna. Il Trattato lo diffuse lo commentò e lo festeggiò fino a volerlo, nel 1917, apprendere come segno di riconoscenza nel Santuario della Madonna del Sangue, a Re, in Val Vigezzo. Lo portò egli stesso, pellegrinando a piedi per la Val Cannobina.
Ora era diventato e appariva il sacerdote di Maria, tutto di Maria.
Crocifisso con Gesù
La preghiera di San Luigi de Monfort, composta per ottenere da Dio numerosi e santi sacerdoti missionari, divenne la preghiera preferita di don Silvio. Il Vescovo lo nominò Rettore del Seminario di Arona. La croce si fece assai pesante: per sé non gli restava più un attimo di tempo, tanto era legato al Ministero. Dopo giornate stracolme di lavoro, le notti le passa in preghiera. Vuole che il Seminario sia la casa della Madonna e che davvero superiori e alunni siano configurati a Gesù, a costo che lui debba sparire.
Prove fisiche e morali lo consumano. I dolori allo stomaco si fanno lancinanti. E il cuore? Povero cuore lacerato, pestato. Scrive. «Sento che la Madonna conduce il mio sacrificio sino alla fine».
Il 3 ottobre 1926, il Vescovo lo chiama a Novara: direttore spirituale del Seminario Maggiore: si incontra con tutti uno a uno, ma è tutto un dolore. Il 2 dicembre 1926, celebra la S. Messa per l’ultima volta. L’indomani non riesce più ad alzarsi.
Segue una lunga agonia per i primi mesi del 1927. Può solo più ricevere Gesù nella Comunione e offrire alla Madonna una corona senza fine di Rosari. In unione con Maria, don Silvio si fa olocausto con Gesù sulla croce, certo di "non fare del bene alle anime, più di ora che sono crocifisso".
Il 2 maggio 1927, al mattino era assopito nel suo letto, quando nell’ospedale dov’era ricoverato da marzo, passò il cappellano che lo scosse: «Padre qui c’è Gesù». Don Silvio Gallotti si riscosse, si comunicò, chiuse gli occhi in colloquio con Gesù. A mezzogiorno, una lieve contrazione sul viso, un sorriso a Qualcuno che gli veniva incontro. Era andato a vedere Gesù per sempre.
Autore: Paolo Risso
Nacque a Cannobio (Lago Maggiore), in una famiglia modesta di agricoltori salariati, pure attivi come tessitori con telai a mano. Dodicenne, entra nel seminario ginnasiale di Gozzano; passa successivamente in quelli dell'Isola San Giulio, di San Carlo di Arona, di Novara per i corsi teologici (1900-04), raggiungendo il sacerdozio il 29 giu. 1904. Nel 1912, rivelandosi scriverà: «Il sacerdote deve somigliare alla candela, la quale arde e si consuma per illuminare».
Inviato come reggente a Trarego (1904-05), poi vicario a Cambiasca (1905-06), vive in stretta povertà e solitudine, tra gente indifferente, spesso avversato dalle incomprensioni, pur esercitando tra i ragazzi un fascino costruttivo. Trasferito come coadiutore a Galliate (1906), vi resterà fino all'inizio del 1911, svolgendo un intenso ministero, particolarmente tra la gioventù, gli ammalati e i poveri. Seppe avviare una pastorale dinamica, privilegiando la catechesi, le attività oratoria-ne, la partecipazione alla messa festiva e ai sacramenti, suscitando numerose vocazioni. Scopriva ai giovani i veri valori della vita. Lo zelo intelligente e la solidità formativa che comunicava, gli attirarono lo sguardo del vescovo, che lo nominò direttore spirituale del seminario di Arona (1° genn. 1911 - 2 sett. 1926), tra gli alunni del ginnasio superiore e del liceo. In quello specifico ministero, d. Silvio rivela la straordinaria ricchezza della sua vita interiore e l'alto ascetismo che viveva per sé, prima di insegnarlo ai discepoli.
Intanto scopre la sua «via»: per Mariam ad Jesum, e sogna la fondazione della «Societas Missionariorum Mariae», che il vescovo, più tardi, vorrà incorporata nella Congregazione diocesana degli Oblati di S. Gaudenzio e S. Carlo (1925). Durante le vacanze estive, esercita instancabilmente il ministero, insistendo sul tema mariano; nel lug. del 1915, a Cannobio, funge da cappellano di 200 soldati della Territoriale; mantiene contatti epistolari con i seminaristi alle armi o in vacanza; diffonde il Trattato della vera vocazione alla SS. Vergine di s. Luigi Grignion de Montfort. Dal dic. del 1916 a tutto il 1918 esercita il gravoso incarico di vicario economo di Stropino, dove si reca ogni sabato, a piedi, superando i quindici chilometri di distanza da Arona. Intanto la sua ascesi saliva, si infuocava; ed il 3 febb. 1921 scriveva al discepolo Francesco Fasola: «Il Calvario non ci ha da essere meno caro del Tabor, ci è anzi molto più necessario. Non è lassù che si muore per poi risorgere a vita nuova? Il Calvario è l'accademia dei veri amanti della Croce».
Nel sett. del 1921 è nominato rettore del seminario di Arona. Con intima sofferenza lascia la direzione spirituale per assumere i compiti esteriori ed economici, per nulla congeniali al suo temperamento ascetico. Nell'occasione annotava: «Ho bisogno della preghiera di tutti, perché non fallisca completamentee la missione che mi è stata affidata di stabilire per mezzo di Maria e in unione con lei il Regno del Cuore di Gesù in coloro che sono destinati a stabilirlo in tutta la diocesi».
Dio lo provò anche con sconcertanti angosce spirituale, in cui la sua anima soffrì le oscurità della fede, tipiche delle esperienze mistiche. Nell'ago, si reca, pellegrino a Roma per l'Anno Santo; ma ritorna affaticato, quasi esaurito. Annota: «Sento che se la Madonna non disporrà diversamente, il mio sacrificio si accosta alla fine». Nel dic. 1925 è minato da linfigranuloma, per cui, consigliato dal medico, si reca a Torino, nella Piccola Casa del Cottolengo, per un periodo di riposo (23 lug. 1925-13 febb. 1926); quindi ritorna al seminario di Arona. Durante l'estate trascorre una vacanza a Nervi, per godere i benefici del mare. Ma ritorna spossato, anche se nell'ago, accompagna, non senza suo grave disagio, i seminaristi in lunghe passeggiate.
Il 13 dic. 1926 è nominato direttore spirituale del Seminario Teologico di Novara, dove è accolto da molti con entusiasmo, da altri con diffidente freddezza. Il servo di Dio è giunto ormai alla fine. Il 2 dic. 1926 celebra l'ultima messa; poi rimane nel letto, nella solitudine di una camera fredda, in preda all'insonnia, a continue sofferenze, all'aridità interiore. Mormorerà spesso: «Sto abbandonato nelle mani della Madonna». Seguono le ultime tappe del suo calvario: in ospedale a Novara; a Cannerò, ospite di quel parroco amico; poi, aggravatosi, all'ospedale di Pallanza, sul lago natio, dove il suo spirito, staccato dal tempo, anelava all'eternità. Morì il 2 magg. 1927.
La venerazione per d. Silvio Gallotti andò crescendo e, in occasione del ventennio della morte, la sua salma fu esumata dal camposanto (3 sett. 1947) e trasferita nella cripta del santuario della SS. Pietà di Cannobio. La sua causa di beatificazione fu introdotta presso la S. Congregazione per le Cause dei Santi nel 1977.
Autore: Pietro Gini
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