LA VITA
La data e il luogo della sua nascita si possono determinare solo per approssimazione. Nel 425 era candidato all’episcopato, quindi almeno trentenne; nacque dunque non dopo il 390-95. Esordì nella carriera ecclesiastica a Costantinopoli, probabilmente perché questa era la sua patria.
Proclo appare nella storia, ancora giovanissimo, in veste di lettore e frequentando le scuole per diventare «un zelatore della retorica». Una tradizione più tardiva, registrata dai sinassaristi e dai patriografi, lo dice «discepolo del Crisostomo», forse nel senso generale di una dipendenza nell’arte oratoria, ancorché non sia cronologicamente impossibile che Proclo abbia iniziato l’ufficio clericale al servizio del santo Dottore (398-404). Giunto all’età virile (18 anni), lo troviamo accanto ad Attico, vescovo di Costantinopoli (407-425), il quale ne fece il suo segretario e lo ebbe fedele imitatore. Dati i suoi progressi, Attico l’ordinò diacono. Più tardi Proclo fu giudicato degno di ricevere il sacerdozio.
La successione di Attico, morto il 10 ottobre 425, suscitò una grande controversia nella capitale. Una parte del clero sosteneva la candidatura del dotto prete Filippo di Side, un’altra quella del nostro santo. «Però tutto il popolo», «tutti i laici concordemente desideravano un terzo sacerdote, il pio e caritatevole Sisinnio». «Prevalse la voce dei laici». Non molto tempo, sembra, dopo la sua promozione (28 febbraio 426), diventata vacante la sede di Cizico nell’Ellesponto, Sisinnio consacrò Proclo vescovo di quella metropoli. Ma i Cizici contestarono al patriarca di Costantinopoli il diritto d'interferire nell’ordinazione del loro vescovo (ammettevano solo che tale privilegio era stato concesso ad personam ad Attico), ed elessero il monaco Dalmazio. Nell’impossibilità di dirigere la propria diocesi Proclo rimase dunque a Costantinopoli e «brillò con le sue didascalie nelle chiese cittadine».
La morte del mite Sisinnio (24 dicembre 427) riaccese la lotta per la successione. Di nuovo «molti» furono per Filippo e «molti» per Proclo. Giudicando meschina tale rivalità il potere civile (Teodosio II e i consiglieri imperiali) decise di scartare ogni candidato appartenente alla Chiesa bizantina. Così venne eletto e consacrato l’antiocheno Nestorio (10 aprile 428).
È nota la crisi dottrinale alla quale questi diede origine e nome. Con somma prudenza Proclo si dedicò alla difesa dell’ortodossia tradizionale. Circa il Natale del 430, predicando nella basilica di santa Sofia in presenza del patriarca in occasione dell’antica festa mariana preparatoria al Natale , il metropolita di Cizico non temette in conclusione di chiamare Maria Theotókos, espressione che il prete Anastasio, sostenuto da Nestorio, aveva proibito. Nella sua cortese replica, pur ricordando ai fedeli la necessità di mantenere la devozione mariana entro certi limiti, Nestorio non disse nulla del discusso vocabolo e si limitò a rimproverare Proclo per aver affermato che, in Cristo, Dio si è fatto pontefice e terminò esortando a confessare «la dignità una della congiunzione e le due ipostasi delle nature». In un’altra omelia, tenuta in analoghe circostanze il 28 febbraio o il 1° marzo 431, Proclo proclamò invece: «C’è un solo Figlio perché le nature non sono divise in due ipostasi, ma la tremenda Economia (della salvezza) unisce le due nature in un’unica ipostasi».
È perciò naturale vedere Proclo preso di mira da Nestorio laddove il patriarca accusa «coloro chi brigavano l’episcopato» di aver turbato la Chiesa costantinopolitana riaprendo la polemica sulla Theotòkos. Non sembra tuttavia che il vescovo di Cizico abbia preso una parte importante nelle discussioni del concilio di Efeso (431).
Dopo la deposizione di Nestorio (11 luglio 431), i suffragi furono nuovamente divisi fra Proclo e Filippo di Side. Questa volta però i sostenitori del nostro stavano per avere partita vinta. Ma «gente molto influente» si oppose allegando un canone (il 18° del concilio antiocheno del 341) che, a loro parere, proibiva le traslazioni episcopali. Lo storico Socrate pensa che quegli oppositori agirono per invidia o per ignoranza e dimostra che una sana interpretazione del canone e non pochi casi di vescovi legittimamente trasferiti da una sede a un’altra permettevano l’elezione di Proclo. Comunque, il popolo accettò il giudizio dei canonisti. Il 25 ottobre 431 venne promosso al «trono» di Costantinopoli l’asceta e pacifico idiotés Massimiano.
Alla morte di quest’ultimo (12 aprile 434), nel timore che si ripetessero le tensioni e i disordini delle precedenti vacanze — timore tanto più fondato perché «vari gruppi in molte parti della città reclamavano Nestorio» —, Teodosio II, senza indugiare, il medesimo giorno o il seguente, «incaricò i vescovi presenti (= il sinodo permanente) d’intronizzare Proclo». L’autorità del defunto papa Celestino (a meno che Socrate abbia voluto scrivere Sisto [III], papa dal 423 al 440) venne invocata per risolvere l’impedimento derivante dall’antecedente nomina di Proclo alla sede di Cizico. Il primo atto del nuovo patriarca fu di presiedere il funerale del predecessore.
Nel portare un giudizio generale sul governo patriarcale del nostro, lo storico contemporaneo Socrate insiste prevalentemente, forse con un tanto di esagerazione, sulla pazienza e la mansuetudine del santo, specie nei confronti degli eretici di cui «nessuno egli volle molestare per conservare alla Chiesa il premio della dolcezza». Su questo punto, aggiunge il cronista, si distingueva dall’antico maestro Attico e somigliava al «mitissimo» Teodosio II, il quale perciò ebbe Proclo in alta stima.
In una doppia direzione si esplicò l’attività unionistica, se non l’irenismo del «placido» arcivescovo: il consolidamento della dottrina efesina unitamente al riavvicinamento con gli Antiocheni e la riconciliazione con i Giovanniti o seguaci di san Giovanni Crisostomo.
Riguardo all’arginamento del nestorianesimo occorre notare la lettera sinodica d’intronizzazione mandata da Proclo (aprile 434) ai patriarchi Giovanni di Antiochia e san Cirillo di Alessandria e un’altra lettera (pure del 434) al clero e al popolo di Marcianopoli contro Doroteo, vescovo nestorianizzante di quella città. Inoltre Proclo non fu estraneo alla legge teodosiana del 3 agosto 435 che ordinava di bruciare gli scritti di Nestorio e proibiva ai «Simoniani» (= Nestoriani) di riunirsi. Di capitale importanza sono, nel medesimo contesto, i rapporti epistolari di Proclo con gli Armeni (435-36), con Giovanni di Antiochia e con il diacono Massimo (437-38). Le sue lettere posteriori (443-445) a Domno di Antiochia (la prima delle quali sembra alludere ad una visita di san Cirillo di Alessandria a Proclo nell’ultimo anno di vita del dottore alessandrino) riguardano la difesa dei vescovi orientali in difficoltà (Atanasio di Perrea e Alessandro d’Antarado) o concernono l’elezione del vescovo di Tiro.
Per facilitare il ritorno dei Giovanniti all’unità ecclesiastica Proclo ottenne dall’imperatore di riportare da Comana a Costantinopoli il corpo del Crisostomo e di seppellirlo «con molto onore» nella chiesa dei Santi Apostoli. La solenne cerimonia ebbe luogo il 27 gennaio 438. I rapporti di Proclo con Roma furono turbati dal pericoloso conflitto di giurisdizione a proposito dell’Illirico orientale. Con la legge teodosiana del 14 luglio 421 si era verificato un tentativo, da parte bizantina, di annessione del Vicariato di Tessalonica al patriarcato di Costantinopoli. I papi però riuscirono a difendere i propri diritti su quella regione, anche di fronte a Proclo. Infatti il caso di Perigene di Corinto nel 435, le decisioni sinodali (estate del 437) del patriarcato costantinopolitano relative al diritto d’appello dei vescovi illirici alla sede bizantina, il Tomo dottrinale di Proclo ai vescovi occidentali, la lettera di Sisto III a Proclo del 18 dicembre 437 rivelano che il nostro era anch’egli propenso a ricevere i ricorsi dell’episcopato dipendente dal Vicariato Apostolico di Macedonia. Ma data l’assenza (dopo il 437) di ulteriori ammonimenti romani, si può pensare che il patriarca avesse accettato il principio, ricordato dal papa, del rispetto della disciplina canonica di salvaguardare il cor unum e l'anima una tra le due Sedi, tanto più che il romano Pontefice, da canto suo, aveva confermato il giudizio di Proclo riguardo all’innocenza di Iddua di Smirne, il cui caso era stato deferito al tribunale romano.
A mettere in dubbio lo spirito conciliativo di Proclo nei confronti del papa non riesce, a nostro avviso, né la promulgazione, il 15 febbraio 438, del Codice Teodosiano con la famosa legge del 421 sull’Illirico, né la tesi secondo la quale Proclo avrebbe aperto la via al XXVIII canone di Calcedonia.
E’ evidente invece la crescente tendenza di Costantinopoli a intervenire negli affari delle Chiese asiatiche e cappadoce in risposta agli appelli rivolti al vescovo della capitale. A questo proposito va ricordato il fatto dell’elezione, nel 439, del metropolita di Cesarea in Cappadocia. Furono gli stessi abitanti di Cesarea a mandare un’ambasciata a Costantinopoli per provocare l’intervento di Proclo. Socrate, che termina la sua Storia con questo episodio, ne sottolinea il carattere insolito, non tanto quale usurpazione del patriarca bizantino, quanto come gesto audace di quest’ultimo, perché Proclo impose le mani a Talassio, prefetto dell’illirico che Teodosio II si apprestava a nominare a capo della prefettura d’Oriente. Non è esclusa la partecipazione del santo alla consacrazione a vescovo di Smirne dell’eparca Ciro. Da ricordare pure la lettera sinodica di Proclo a Bassiano, metropolita di Efeso, per confermarne l’elezione e quella a Eusebio di Andrà sull’elezione del vescovo di Gangre.
Prima e dopo il «fatto mirabile» della promozione episcopale di Talassio, si verificano due episodi edificanti tramandati da altre fonti. Venuto in ambasciata a Costantinopoli per concludere il matrimonio della figlia di Teodosio con Valentiniano III, l’ex-praefectus Urbis Volusiano, ancora pagano, dietro interessamento della nipote santa Melania fu lungamente catechizzato da Proclo e da lui battezzato in extremis (6 gennaio 437). In quell’occasione, il vecchio ambasciatore dichiarò a Melania: «Se avessimo a Roma tre uomini pari a Proclo, non ci sarebbe più nessun pagano».
Secondo il cronista san Teofane, il terremoto del 25 settembre 437 che durò per quattro mesi aveva costretto gli abitanti di Costantinopoli a fuggire in periferia, verso l’Ebdomon, nel Campo Marzio. Con il loro vescovo non cessavano di supplicare Dio di porre fine al flagello. Mentre un giorno stavano pregando, al cospetto di tutti un giovane si elevò prodigiosamente nell’aria e con voce divina ordinò a Proclo e al popolo di recitare il Trisagion. Il patriarca esortò i fedeli a cantare in quel modo e subito cessò il terremoto. San Pulcheria e Teodosio II avrebbero in seguito esteso la formula di preghiera a tutto l’impero.
Il medesimo autore pone la morte di Proclo sotto l’anno 5939 (= 446-47); i documenti agiografici registrano per Proclo un pontificato di dodici anni e tre mesi, il che fa morire Proclo nel luglio 446 e, supponendo che si tratti di tre mesi esatti, il 12-13 luglio. I patriografi attribuiscono a Proclo la costruzione della chiesa Costantinopolitana dei santi Anargiri (Cosma e Damiano) nello Zeugma.
LE OPERE
1) Omelie. Predicatore famoso a Costantinopoli fin dal 426, Proclo non è stato favorito dalle condizioni di trasmissione delle sue opere oratorie, non poche delle quali ci sono pervenute sotto vari nomi, in particolare di san Giovanni Crisostomo, mentre altre appaiono spurie. Le indagini e le discussioni in merito tra studiosi non hanno ancora reso possibile la bramata edizione critica. Delle cinquanta circa omelie attribuitegli dalle raccolte medievali, dieci almeno sono pseudebiografe, altre dubbie. Le edizioni del Gallandi e del Mai, riprodotte dal Migne, ne contano venticinque. Nel suo lavoro, B. Marx aumenta il numero fino a ottantasette, ma le sue conclusioni non hanno tutte convinto. Il testo greco delle omelie 24 e 23 è stato pubblicato da Ch. Martin.
Recentissimamente F.-J. Leroy, in L’homilétique, ha esaminato accuratamente la tradizione manoscritta e le testimonianze indirette dell’omeliario edito in PG, ha dato l’edizione critica dell’omelia 6 (certamente del secolo V) e pubblicato nove omelie nuove (di cui una in versione francese dall’arabo).
Quale vescovo di Cizico Proclo pronunciò le Omelie 1-4, 7, 13 e 23, forse qualcun’altra. È poco per dieci anni di attività pastorale. Molte andarono perdute e anche queste lo sarebbero state, se non fossero in rapporto con la controversia nestoriana. Di particolare interesse per l’agiografia sono quelle mariane, l’encomio in san protomartyrem Stephanum, in san Paulum Apostolum, in san Andream, in san Clementem Ancyranum, in ss. Pueros Innocentes, in incredulitatem s. Thomae, in omnes sanctos Martyres, in ss. Petrum, lacobum et Ioannem. Le altre illustrano le feste cristologiche, soprattutto il mistero pasquale. L’Omelia 27 è l’unica catechesi a noi pervenuta che sia stata pronunciata a Costantinopoli.
Le Omelie di Proclo sono brevi (salvo la sesta), con frasi corte, nervose, piene di calore lirico, di retorica raffinata, di effetti musicali, di esclamazioni, di antitesi. Insomma sanno di fervorino, di stile parlato. L’oratore ha una predilezione per il tema del mare e della navigazione e per gli spunti antigiudaici.
2) L’epistolario di Proclo si riduce a poche lettere dedicate per lo più alla difesa dell’ortodossia contro la propaganda filonestoriana. Tra di esse emerge il Tomus ad Armenos, lettera dogmatica diretta nel 435 ai vescovi di Armenia. Messo in guardia contro la dottrina di Teodoro di Mopsuestia dai vescovi Rabbuia di Edessa e Acacio di Melitene, l’episcopato armeno riunito in concilio aveva pensato opportuno rivolgersi a Proclo per ottenerne una risposta autorevole sull’eventuale eterodossia di quell’amico di Nestorio. Nel suo Tomo, dopo un preambolo sulla superiorità delle virtù teologali rispetto a quelle cardinali e sulla creazione, il peccato di Adamo e la legge mosaica, il santo confuta, senza nominarlo, la cristologia di Teodoro e risponde alle difficoltà dei Nestoriani sul dogma dell'Incarnazione. Egli insiste sull’unità di Cristo, insieme vero Dio e vero uomo: «Io conosco un solo Figlio e confesso una sola ipostasi del Verbo incarnato». Nel mettere in luce la verità della nascita umana e delle sofferenze del Dio-Uomo, Proclo nega tuttavia che la natura divina sia passibile. Sulla base dell’espressione «Uno della Trinità si è incarnato», diventata poi tradizionale, molti hanno creduto che egli abbia coniato la formula patripassiana: «Unus de Trinitate passus est in carne». Sembra che questa sentenza comune sia sbagliata (M. Richard, P. de Constantinople et le Théopaschisme, in Revue d’Histoire ecclésiastique, XXXVIII [1942], pp. 303-31). Successivamente (447-448) con una lettera a Giovanni di Antiochia e con i capitala estratti dalle opere di Teodoro di Mopsuestia ma presentati come anonimi, egli mandò il Tomo ad Antiochia affinché il nestorianizzante Iba di Edessa e tutto l’episcopato orientale lo sottoscrivessero e anatematizzassero i capitala. Nell’agosto del 438, Giovanni antiocheno riunì un sinodo di settantacinque-ottanta vescovi che giudicò perfettamente ortodossa la dottrina del Tomo, ma rifiutò di condannare quelli dei capitala ritenuta tradizionale o tutt’al più discutibile ed espressa da un vescovo (Teodoro) morto senza essere stato accusato di eresia.
Nelle sue risposte a Giovanni e al diacono Massimo, Proclo si meravigliò che gli Antiocheni avessero potuto pensare che egli volesse condannare il defunto Teodoro. Ciononostante egli esigeva il rigetto dei capitala («il cui autore ignoriamo») e il rinvio a Costantinopoli della copia del proprio Tomo debitamente sottoscritta dagli Orientali. Perfino san Cirillo di Alessandria, il meno propenso a transigere con le espressioni ereticali del vescovo di Mopsuestia, gli scrisse di rispettare la memoria di Teodoro. Finalmente Proclo ispirò a Teodosio II il decreto imperiale con il quale si poneva termine alla controversia lasciando in pace gli uomini morti in unione con la Chiesa.
La lettera di Proclo «ai singoli vescovi dell’Occidente» espone la fede trinitaria e cristologica, poi difende il libero arbitrio, e l’efficacia del Battesimo rispetto al peccato originale.
3) Il Tractatus de traditione divinae missae è stato attribuito a Proclo dal noto falsario Costantino Palaeocappa.
Pur non essendo un teologo di grande respiro, Proclo occupa tuttavia un posto privilegiato nella storia dei dogmi per aver tenuto una via media tra la cristologia antiochena e quella alessandrina e introdotto formule sull’unione ipostatica (v. sopra) che preparavano l’elaborazione calcedonense.
Non disprezzabile il contributo di Proclo nello sviluppo della dottrina e della devozione mariana. Arcaici i suoi concetti escatologici.
CULTO E ICONOGRAFIA
Più che i soliti titoli di hosiótatos, hagiótatos ecc., datigli dai contemporanei, è l’accordo dottrinale e la perfetta ortodossia che gli riconobbero san Cirillo Alessandrino, gli antiocheni, soprattutto il concilio di Calcedonia che lo chiamò «grande», il successo ottenuto dal Tomos ad Armenos negli ulteriori sviluppi delle dispute cristologiche, è tutto questo che contribuì ad illustrare la «beata memoria» del santo e portò a inserirne il nome nelle raccolte liturgico-agiografiche bizantine, senza che sia manifesto un culto specifico concretizzato in un Bios o in qualche santuario.
L’ignoranza del dies obitus spiega forse le fluttuazioni della commemorazione liturgica ricordata il 24 ottobre nel Ménologion heortatikon (secolo VIII) di St. A. Morcelli, nei sinassari (italo) greci della classe C e in certi menei e, per quanto concerne calendari non bizantini, quello maronita e le recensioni moderne del Sinassario armeno detto di Ter Israel, mentre il 20 novembre è il giorno oggi ritenuto dai greco-slavi in dipendenza però dagli antichi sinassari che commemorano in quel giorno Proclo con i patriarchi di Costantinopoli a lui vicini, Massimiano, Anatolio e Gennadio, o più lontani, Alessandro in onore dei quali si celebrava, la domenica, una sinassi a santa Sofia; notiamo che il 20 novembre viene indicato anche nel Calendario marmoreo di Napoli e il 19 e 20 novembre in quello palestino-georgiano; in quest’ultimo calendario il 1° giugno compare un misterioso Proclo vescovo. Nell’antico calendario armeno Proclo viene commemorato il 25 marzo con i massimi dottori della Chiesa greca, mentre il 22 dicembre il Martirologio siriaco di Rabban Silbà lo ricorda con i predecessori Nettario e Alessandro.
Il Baronio ha introdotto Proclo nel Martirologio Romano il 24 ottobre, 4° loco, con la sola qualità di vescovo. C’è chi lo dichiara Dottore della Chiesa.
I miniaturisti Michele e Giorgio, del codice vaticano, hanno raffigurato Proclo almeno tre volte: accanto a Teodosio nella scena del terremoto del settembre 437 (il santo leva entrambe le mani verso il cielo dove è sospeso il ragazzo), in quella dell’arrivo a Costantinopoli delle reliquie del Crisostomo (Proclo regge con là destra un turibolo e con la sinistra velata un evangelario), e ancora, solo disteso sul cataletto, davanti a diversi edifici, nella convenzionale immagine funebre. In tutti e tre i casi egli appare in vesti pontificali e sotto l’aspetto di un bel vecchietto dai capetti bianchi e dalla candida barba fluente.
Autore: Daniele Stiernon
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