La passio di Massimo, completamente leggendaria, narra che il santo sopportò vari supplizi per aver coraggiosamente redarguito il preside Fabiano per la fiera persecuzione da lui suscitata contro i cristiani di Cuma. Battuto a sangue e costretto a camminare a piedi nudi su carboni ardenti, fu gettato in carcere, ove preparò duecento compagni di prigionia al Battesimo, che venne loro conferito dal vescovo Massenzio. Impose ad un infante di appena tre mesi — Barula o Teodoro — di parlare prodigiosamente, a testimonianza e in difesa della fede cristiana, al cospetto di Fabiano, il quale ne ordinò l’uccisione. I soldati che, dopo averlo lasciato per sette giorni sospeso col capo all’ingiù, lo trovarono ancora in vita, privati della vista, la riebbero, dopo aver invocato il nome di Cristo e chiesto di essere battezzati da Massimo il quale fu, infine, decapitato: la sua morte fu accompagnata dal terremoto e seguita dalla conversione e dal Battesimo di tutti gli astanti.
La passio, che si ispira evidentemente alle leggende di Ponziano, martire di Spoleto, e di Romano di Antiochia, fu trovata in un Passionario dei secoli XI-XII nella Biblioteca Capitolare di Bovino dal domenicano L.V. Cassitto. Era già conosciuta, però, da un antico Breviario capuano, pubblicato da G.C. Capaccio, e attraverso l’ampliamento falsamente attribuito all’agiografo napoletano Pietro suddiacono dei primi decenni del secolo X.
Il Martirologio Geronimiano menziona Massimo sotto diverse date e località: l’Epternacense lo ricorda in Comsa degli Irpini, l’odierna Conza, al 30 ottobre. Tuttavia, Massimo assieme ad altri martiri elencati in questo giorno, ritorna nello stesso Geronimiano il 19 e il 20 novembre. Altri codici dello stesso Martirologio e testi agiografici di epoca tarda ne ricollegano il ricordo con Apamea di Frigia e con Cuma in Campania: il toponimo Apamia, però, è considerato o lezione scorretta ed alterata di Campania, o il nome classico di Pescina nell’Abruzzo. In questo secondo caso, Massimo sarebbe da identificarsi coll’omonimo di Aveia Vestina, che Aquila festeggia come suo patrono col titolo di «levita» al 20 ottobre, e che nella tradizione ms. sarebbe diventato asianus, ossia di Apamea di Frigia.
Qualche studioso insinua l’identificazione dei tre omonimi (di Apamea, Avia e Cuma) in un unico martire, di cui si ignora ogni cosa ed in particolare il luogo del martirio. L’Achelis, seguito dal Delehaye, identificò il Massimo di Cuma con l’omonimo martire vescovo di Napoli; il Maliardo lo ritenne martire dell’antica Chiesa di Cuma nella persecuzione di Diocleziano.
Massimo ebbe grande venerazione in varie città dell’Italia centro-meridionale: Cuma, Pozzuoli, Napoli, Aversa, Capua, Gaeta, Grottaferrata, Conza, Bovino, Palermo. Secondo la leggenda, apparso quindici anni dopo la sua morte a Giuliana, asceta di Cuma, venerata poi come santa - forse uno sdoppiamento dell'omonima martire attribuita a Nicomedia - avrebbe richiesto la traslazione dei suoi resti dal luogo della primitiva sepoltura, sulla via Caballaria, alla basilica a lui dedicata, diventata poi cattedrale di Cuma. La traslazione sarebbe avvenuta il 30 ottobre 319, ma il tempio superiore dell’acropoli cumana fu trasformato in basilica cristiana solo nel V-VI secolo. Tra i suoi resti, durante gli scavi del 1933-34, si rinvenne un’iscrizione funeraria mutila, nella quale un napoletano, caduto combattendo agli inizi del secolo VIII contro gli invasori Longobardi del duca Romualdo, si affida al patrocinio del martire.
A Napoli, sulla fine del secolo VI, sorgeva un «monasterium ss. Herasmi, Maximi atque Julianae», fondato dalla nobildonna Alexandria: ne fa menzione san Gregorio Magno in tre lettere del 599.
Le reliquie di Massimo, trovate per interessamento del vescovo di Cuma, Leone, tra le rovine della città abbandonata, il 25 febbraio 1207 furono traslate a Napoli, in devoto corteo guidato dall’arcivescovo napoletano Anseimo, assieme a quelle del fanciullino commartire ed a quelle, che ancora erano restate, di san Giuliana. Queste furono deposte nel monastero di santa Maria Donnaromita, quelle di Massimo sotto l’altare maggiore della cattedrale napoletana dell’epoca. Il Cassitto credette di poterle individuare tra quelle che furono trovate assieme a una fiala di sangue polverizzato sotto l’altare della basilica di santa Restituta, durante l’episcopato del cardinale Alfonso Gesualdo (1596-1603). Reliquie di Massimo sono riposte nel capo della sua protome d’argento, nella cappella del tesoro; le rimanenti reliquie sono, assieme a quelle del fanciullino martire, nella cappella del Succorpo del duomo napoletano.
Il culto di Massimo a Napoli è attestato alla data del 30 ottobre dal Calendario marmoreo (secolo IX), da quello prefisso al Rituale dell’arcivescovo Giovanni Orsini (1327-1358) e dalla Costituzione sinodale dell’arcivescovo Decio Carafa (3 settembre 1619), il quale ne fece scolpire il busto marmoreo tra quelli degli otto santi patroni napoletani, che adornavano il coro ligneo del duomo nei primi decenni del ’600.
Testimonianza del culto capuano sono i Calendari (fine secolo XI-XIII) trovati e pubblicati da M. Monaco: di essi, il secondo, il quarto (col titolo di «levita») e il quinto lo ricordano il 30 ottobre, il terzo al 31. Da Capua il culto si sarebbe diffuso a Gaeta, donde san Nilo, che ivi soggiornò per un decennio, l’importò a Grottaferrata: nell’abbazia basfiana, Massimo è celebrato come diacono in un calendario conservato in un codice del secolo XI.
Autore: Domenico Ambrasi
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